3 settembre 2015

Venezia 72 - Beasts of No Nation


Cary Fukunaga si è fatto le ossa con due true detective che lo hanno lanciato dall'anonimato all'olimpo dei registi.
Per il suo ritorno su grande schermo, gioca le sue carte intelligentemente, presentano la sua pellicola in concorso, ma affidandola a Netflix per la distribuzione che avverrà ad ottobre in una manciata di sale statunitensi e ovviamente in rete, per tutti gli abbonati del canale.

Il ritorno si fa doppiamente interessante per quello che racconta, per un racconto che non lascia spazio al buonismo, che viene cancellato dalle parole semplici e taglienti di un bambino che non è più un bambino.
Agu vive in una zona cuscinetto ai confini con la Nigeria, una terra che in molti ora vogliono, per cui in molti combattono e muoiono: eserciti nazionali, ONU, ma soprattutto ribelli che hanno costituito dei propri reggimenti, una propria gerarchia, che vogliono quei villaggi tranquilli, e sono pronti a battersi per averli.
Quando conosciamo Agu è ancora un bambino che si diverte con poco, che scherza felice con gli amici, che con una famiglia non disperata, ma felice e capace di accontentarsi, riesce a vivere spensierato in quella che è alla fin fine solo una bolla.
Quando questa esplode, quando il loro villaggio verrà prima minacciato e poi invaso, tutto cambia, tutto comincia, e Agu si ritroverà solo, orfano a metà, a vagare per la foresta, alla ricerca di cibo e protezione. Se il primo arriva, la seconda no, con il battaglione di un Comandante spietato e carismatico che lo prende sotto la sua ala, che lo istruisce e lo allena, lo spinge ad uccidere, a combattere, facendo di lui un soldato senza pietà.
I suoi occhi ora sono vuoti, le sue parole rotte che nemmeno un Dio sa ascoltare, e questa follia ci viene mostrata senza troppi filtri, tra droghe che annientano e inebriano, tra follie che si fanno più insanabili, e un'infanzia felice che sembra solo un lontano ricordo.
E' la storia di uno come tanti, quella di Agu, uno dei tanti, troppi bambini che finiscono per essere vecchi, molto più dei veri vecchi.
Ed è una storia raccontata con coraggio, che riesce a non scivolare nel pietismo, che si regge su due grandi protagonisti: Idris Elba, dalla voce melliflua, dal corpo scolpito che fa tremare, e l'esordiente Abraham Attah, commovente.
Cary Fukunaga ci mette ovviamente il suo, anzi, innalza una pellicola la cui storia lascia il segno ma non può essere il solo motivo per essere ricordata: dirigendo, producendo, scrivendo e fotografando il suo film, Fukunaga ci immerge in quest'incubo fatto di allucinazioni e incubi, con passaggi crudi ma esteticamente perfetti.
Ne esce un film difficile da scrollarsi di dosso, che si fa così necessario.

2 commenti:

  1. La cosa inizia a farsi interessante...
    (E poi, con la Netflix di mezzo, lo vedremo di certo prestissimo)

    RispondiElimina
  2. Anche qui... il mio sesto senso mi diceva che sarebbe stata un'opera da non sottovalutare! A questo punto spero che vinca qualche premio importante, così da poterla recuperare l'ultimo giorno della Mostra ;)

    RispondiElimina