9 settembre 2015

Venezia 72 - Interruption


L'ondata cinematografica greca continua a stupire.
Dopo Yorgos Lanthimos e il suo Dogtooth, dopo Alexandros Avranas e al suo Miss Violence, ora è il momento di Yorgos Zois e del suo Interruption.
Un prodotto greco fin dalla sua base, con una tragedia classica rivista e a suo modo modernizzata, e violenza, che più di sangue è psicologica.

Siamo in un teatro, in scena una versione aggiornata dell'Orestea con attori vestiti in modo contemporaneo, con luci al neon e una scenografia spoglia. All'improvviso sul palco, come dèi chiamati a punire, arriva un gruppo di giovani, prendono il controllo della situazione, della regia stessa, e chiamano su quel palco parte del pubblico.
Alla postazione di comando, un inquietante direttore che li farà presentare a quel pubblico di cui non fanno più parte, li rende protagonisti della tragedia: saranno loro a interpretare Oreste, a interpretare la madre che deve uccidere, a calarsi pure nei panni del regista, dirigendo la scena.
E' spettacolo? E' finzione?
Qualcosa non va, è certo.
Gli attori veri e propri non ci stanno, chiusi e reclusi non possono ribellarsi all'invasione dei loro spazi, mentre gli attori improvvisati se la godono, realizzano le loro ispirazioni e soprattutto il pubblico, quel pubblico, si gode lo spettacolo in divenire, segue le indicazioni dei vari registi credendoci, pensando davvero di essere davanti a uno di quei spettacoli che mai si sa come interpretare dell'arte contemporanea.
Nemmeno quando il sangue arriva, quando esplode in scena con la potenza di uno sparo, se ne va, anzi, ritorna a sedersi, a godere di uno spettacolo che è ora paura, che si fa catarsi.
Noi come loro fatichiamo a decifrare e a distinguere tra il vero e la finzione, siamo aiutati dal vedere l'inquietudine che cresce, a vedere quel deus ex machina essere sostituito.
E poi, tutto questo culmine, questa catarsi lavata dall'acqua, ci riporta indietro, ci riporta ad una sala da ballo dove tutto ha avuto inizio.
La Grecia della crisi conferma di avere come valvola di sfogo il suo cinema, di mettere lì, in scena, paure e violenze represse.
Tanti gli attori, molti silenziosi, tutti credibili, ottima la regia, che indugia spesso qua e là, dilatando i tempi, che ci mette davanti alla nostra proiezione, a spettatori come noi chiamati ad interpretare: quello che vediamo su schermo, su palco, cos'è?
E' verità? E' metafora?

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