8 settembre 2017

Venezia 74 - Hannah

Riprendo le parole dette ieri da Claudio Santamaria durante il Q&A di Brutti e cattivi: in Italia ci sono vecchi come i fratelli Taviani che fanno film come fossero dei ventenni, e poi ci sono i giovani, che fanno film davvero da vecchi.
Andrea Pallaoro, classe 1982, fa film da vecchi.
O almeno lo ha fatto con Hannah, e non lo dico solo perché la protagonista e praticamente quasi l'unica attrice in scena é la non certo giovane Charlotte Rampling, lo dico perché il suo Hannah é il più classico e pesante dei film d'essai, dei fumosi cineforum dove ci si crogiola nei tempi dilatati, nei silenzi, nella prova d'attrice.



Si segue Hannah nelle sue giornate silenziose e malinconiche, la si vede fare le pulizie a una ricca famiglia, riordinare casa, accudire il cane. Ma c'è un dramma, ovviamente silenzioso, che si consuma, che spiega l'assenza di quel marito, accompagnato in carcere.
La parola che tutto spiegherebbe non esce mai, mai viene pronunciata, e di certo non la svelerò io, che tanto la si intuisce quasi subito. Non é questo mistero però ad interessare Pallaoro. Interessa una donna che si perde nella sua identità, che non ha appigli, amicizie, il cui dramma le viene ricordato quotidianamente da ciò che la circonda. Interessa l'attrice, la sua prova, la sua musa. E non si può dire che la Rampling si risparmi, recitando all'interno della recitazione, mostrandosi senza pudori e senza problemi senza veli.
Ma con la ricerca continua di quelle inquadrature d'autore particolari, con la pesantezza che avanza, questo cinema da vecchi, questo cinema italiano fumoso, svecchiamolo un po', su.
Unico pregio, ai miei occhi ormai stanchi, quel finale che sembra quello che ci si aspetta, e invece no.

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