Alzi la mano chi alla notizia che il creatore di Mad Man fosse in lavorazione su una serie intitolata The Romanoffs non si aspettasse una serie storica, in costume, che raccontasse vizi e intrighi di corte della casata reale russa.
Bene, sono felice di non essere stata la sola.
La verità, è che in The Romanoffs non solo non si parla di quei Romanoffs ma di discendenti alla lontana probabilmente nemmeno troppo onesti, ma non si tratta neppure di serie TV.
Otto episodi che sono in realtà film a tutti gli effetti, sia per la durata (un minimo di 60 un massimo di 90 minuti) sia per la qualità messa in campo.
Partiamo allora da The Violet Hour, in cui ci sono intrighi ma non in palazzo reale russo, bensì in un appartamento conteso nel cuore di Parigi. La vecchia zia che lo abita non si decide a morire, ma a sentirsi male, rinviando progetti e vacanze di un nipote scapestrato e di una compagna snob e viziata. Si arriva a meditare l'assassino, pur di porre fine a questi disguidi.
Ma a metterci uno zampino di speranza è una domestica/donna delle pulizie/infermiera/dama di compagnia, che nonostante la diversità di origine, di cultura, farà breccia nel cuore della vecchia zia. Sì, è sempre la stessa storia di un burbero che si scopre avere il cuore d'oro, sì, c'è quel romanticismo lezioso che Parigi sa tirar fuori dagli americani, ma la poesia di un cielo violetta, gli equivoci alla Woody Allen sanno far fare il balzo.
A proposito di Woody Allen, The Royal We racconta della classica coppia in crisi, che si separa per un weekend andando in una crociera da una parte, in un'aula di tribunale dall'altra, tentata in entrambe da possibili e affascinanti amanti. L'uomo medio (Corey Stoll) scoprirà il suo lato migliore e peggiore, la donna (Kerry Bishé) sulle note di Gloria Gaynor, sopravvivrà. Nel mezzo, tanta bellezza, altrettanti cliché romantici ma anche tanto divertimento.
Sempre Woody si affaccia in Expetation, ambientato nella New York arricchita, con una madre che sta per diventare nonna, e che ripensa a come quella figlia è stata concepita e poi cresciuta. Qui, si ritrova il beniamino John Slattery, qui, tra follie di una donna sull'orlo di una crisi di nervi, c'è spazio per un passato ormai immodificabile, e un presente fatto di aspettative e di amare realtà.
Altro segmento à la Woody Bright and High Circle o "troppo rumore per nulla". Tante chiacchiere per accuse mosse contro un insegnante di pianoforte inserito nel circolo bene di famiglie ricche, tanti aneddoti e flashback al suo riguardo, figli che si vuole ora proteggere, ora salvare, e una messa in discussione di scelte che... non porteranno a nulla. Ma sapranno invece smuovere dentro quell'io morale che crediamo tanto sacro.
Succede lo stesso nell'intenso End of the Line, forse uno degli episodi migliori. Non solo per il mistero che insinua fin dall'inizio sulla legalità dell'adozione che una coppia americana sta per concludere in Russia, ma soprattutto per lo scontro che questa coppia avrà, in cui la loro vera natura, ogni dubbio, ogni risentimento, verrà spiattellato. Onore a Kathryn Hahn e Jay R. Ferguson, onore a una scrittura sopraffine e a un finale amaro che non mitiga di certo l'umanità rappresentata.
Scrittura altissima anche per House of Special Porpouse in cui Weiner gioca con se stesso e con la sua creatura, ritrovando anche la beniamina Christina Hendricks, qui attrice di successo, starlette all'apice della carriera che consente alla debuttante -strepitosa- Isabelle Huppert di esordire alla regia raccontando proprio la storia dei Romanoffs. Sperduta in un'Austria tutt'altro che ospitale, Christina dovrà fare i conti con un set che si trasforma in un incubo, in notti in cui nell'hotel si aggirano fantasmi e possessioni varie. Giocando con il metacinematografico in modo sublime, la sensazione è che Weiner si tolga più di un sassolino nei confronti di registi altezzosi, manager dalla dubbia moralità e attori sui generis, a noi viene un bellissimo gioco che tra qualche spavento, fa vedere tanta genialità.
Unico neo in questa carrellata è probabilmente Panorama, ambientato a Città del Messico, con un giornalista che si finge malato per scoprire gli arcani di una clinica che promette guarigioni miracolose. Vuoi per Juan Pablo Castaneda, troppo bello per essere preso sul serio, troppo monoespressivo per appassionare, vuoi per la mancanza di sostanza della storia che viene raccontata nonostante le riflessioni sullo sfruttamento di terre e popoli, poco resta. Nemmeno il finale, sulle note di Regina Spektor, sa coinvolgere, con un quadro che prende vita, con i cliché che abbondano.
Si finisce però in bellezza, e che bellezza!
The One That Holds Everything è un racconto a matriosca, in cui più parentesi, più flashback vengono aperti.
Siamo su un treno, in cui uno scrittore di successo che sta per produrre una miniserie sui Romanoffs (sic) viene continuamente disturbato da una donna ciarliera che vuole raccontargli la sua storia.
Siamo a Londra, dove un fresco orfano ha tentato il suicidio per la mancanza di amore di quel padre che non l'ha mai capito, e racconta i suoi drammi in un gruppo di sostegno.
Siamo a Hong Kong dove quel giovane ha conosciuto l'amore ma anche il dolore, con quello che credeva l'uomo perfetto pronto a rinnegarlo e a sposarsi.
Siamo infine di nuovo a Londra, dove quel giovane è un bambino che vede il matrimonio dei genitori naufragare nel peggiore dei modi.
Tutto si spiega, si chiude, trova un senso. Tutto affascina, come solo il sapore della vendetta sa fare.
Mettici poi parole importanti, discorsi intensi sulla propria identità, sulla forza di chi da sempre viene messo in un angolo e rinnegato, e allora la chiusa si fa davvero perfetta.
Pur con alti e bassi, pur tirando per i capelli la presenza dei Romanoffs qua e là, Matthew Weiner gioca con noi, usa i Romanoffs come espediente per raccontare storie che andavano raccontate, che siano variazione di un genere o originalità degne di un palcoscenico in cui sono i monologhi, i dialoghi, il vero punto di forza. Per fortuna, attori in stato di grazia (Diane Lane, Aaron Eckhart, Amanda Peet meritano di essere menzionati) ce ne fanno godere sul piccolo schermo, che però con le cure di una regia che si diverte anche ad incastrare l'una nell'altra queste storie, con la musica che si fa più volte portante (in particolare nell'episodio finale) il tutto ha il sapore di un bellissimo esperimento, di cui godere, di cui gioire. Questa è la scrittura alta che volevo, che anche quando sbava, lo fa con stile.
Voto: ☕☕☕☕/5
E io che Mad Man non l'ho visto? La serie, con gli episodi lunghi un film, purtroppo non si è mai imposta come priorità (troppa fatica recuperarla) però di cose ben scritte, ben recitate, ce n'è sempre bisogno.
RispondiEliminaIl bello è che di film singoli si tratta, quindi quando un film dalla durata sovrumana non ci sta, puoi incastrare uno di questi episodi, trovandoci -Panorama a parte- parecchia bellezza, una gran scrittura.
EliminaQuanto a Mad Men, vedi di recuperarla! ;)
Una serie che ha viaggiato molto tra alti e bassi.
RispondiEliminaSi parte subito alla grande con i primi due episodi, ma poi quelli successivi per me hanno segnato un calo notevole.
La ripresa c'è invece stata secondo me nella puntata che a te è piaciuta meno, quella a Città del Messico, con un finale che io ho trovato splendido.
Tra Woody Allen e l'Almodovar dell'ultimo episodio, un Matthew Weiner a tratti interessante, ma forse un po' in crisi d'identità. Come spesso capitava a Don Draper. :)
Mi aspettavo più bassi, ma la puntata messicana davvero ho faticato a mandarla giù, stereotipata, con un protagonista monoespressivo, poca grinta. Mah.
EliminaIl resto funziona decisamente meglio, un esperimento strano, che immagino si chiuderà qui ma che ha riservato belle cose.