E anche i giorni.
Da passare in solitudine, soli con i propri pensieri.
Lucy guarda fuori dalla finestra, c'è il Chrysler che brilla.
Pensa alle bambine che ha lasciato a casa, da settimane ormai, in attesa che quell'infezione passi, e pensa alla sua storia.
La sola che ha.
Quella che ripeterà per sempre in quello che scrive.
La sua storia è quella di un'infanzia vissuta nella miseria, in quelle campagna d'America dove non avere poco è normale, dove avere nulla è il caso della famiglia di Lucy.
La scopriamo poco a poco, sprazzi che fanno luce sulla sua vita.
Abituata con i fratelli ad arrangiarsi, ai silenzi di un padre reduce di guerra, alle strigliate di una madre senza pazienza.
Quella madre arriva lì, in ospedale, quasi dal nulla.
E passano 5 giorni e 5 notti assieme: a parlare finalmente, anche se in un codice tutto loro dove gli affetti faticano ad essere dimostrati, a cercare di conoscersi un po' di più.
Non che quella madre voglia sapere cosa n'è stato di una figlia che alla miseria è sfuggita grazie allo studio, tra Università e un matrimonio come si deve che l'ha portata fino a New York.
Si parla di chi non ce l'ha fatta, delle disgrazie altrui, di ricordi di tempi andati, delle tante persone che gravitano nella loro memoria, tra divorzi, tradimenti, dicerie.
Lucy rimugina, vorrebbe di più, ne vorrebbe ancora di quella madre che solo ora capisce un po' di più.
E si mette a scrivere.
Quella che leggiamo è la sua storia, costellata di tante piccole storie con tanti comuni denominatori.
C'è una scrittrice di successo che la rappresenta e la capisce, ci sono vicini di casa amorevoli e diversi, c'è chi abbandona la famiglia per stare con l'amante, c'è la fatica passata e quella futura.
C'è pure Elvis.
Tutti, dalla povertà, ne sono usciti.
Migliori?
Più felici?
Dipende.
Elizabeth Strout dopo Olive Kitteridge (di cui ora è uscito il seguito -Olive, ancora lei- e che nonostante la miniserie vorrei prima o poi leggere) ci regala una donna più insicura, che passa forse troppo tempo a scusarsi, a ripetere che è una sua opinione, una sua visione del mondo quella che ci propone, ma è una donna a cui senza troppa fatica si vuole bene.
Capace di farcela.
Di uscire da quell'ospedale, di fare pace con il passato.
Forse, la presenza di una madre non mai del tutto confermata mi aveva portato a pensare diverso il finale.
Forse quella voce ancora insicura, che vuole però imporsi e diventare una scrittrice a tutti gli effetti, fa la differenza.
Ma in queste storie, in questa madre che si confronta con la figlia, in queste giornate di ospedale che portano a riflettere, Lucy risplende, come le luci che vede dalla sua finestra.
A me, invece, la conoscenza di Lucy non era piaciuta. Avevo restituito il romanzo in biblioteca senza sensi di colpa. Olive, invece, l'ho amata. E ti consiglio assolutamente di recuperare il romanzo, perché la serie tocca solo quattro dei tredici racconti che lo compongono.
RispondiEliminaSe ti sei trovata bene con questo primo approccio, in ogni caso, è tutto in discesa!
Ammetto che la sua voce insicura, il suo continuo giustificarsi mi hanno affaticato a tratti, ma in questa quarantena me lo sono divorato. Trovandoci tanta vita vera dentro.
EliminaOra non mi resta che conoscere Olive, lascio decantare un altro po' il ricordo della miniserie, però.
Non sembra proprio una lettura spensierata e allegra... :)
RispondiEliminaAspetto che qualcuno ne faccia una miniserie come per Olive Kitteridge. O magari aspetto la miniserie sequel di Olive Kitteridge.
Forse in questo caso ci starebbe bene anche un film, ma viste le tante digressioni, i ricordi e le riflessioni, meglio il libro. Che così pesante, alla fine, non è :)
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