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4 ottobre 2022

Pistol

Mondo Serial

Un colpo di pistola, sparato alla fine degli anni '70 sulla società benpensante inglese.
Un movimento, un grido di protesta, la voce di quei giovani illetterati, poveri, disadattati, che urlavano e suonavano pur non sapendo farlo.
Ma sapendo cosa volevano dire.
O quasi.
La storia di una band come i Sex Pistols, affascina sempre.
Una band messa insieme neanche fossero le boyband degli anni '90, puntando più sull'aspetto, sullo stile, sul fascino e sugli abiti da far loro portare, che sulle effettive capacità musicali.
Mente di tutto, il giovane Malcom McLaren che assieme alla stilista Vivienne Westwood prende i clienti e i ladruncoli che si aggirano per il loro negozio SEX, li cambia, li dirige, li muove come marionette.
Ma ovviamente, da dire, da urlare, loro ne hanno.
Fra di loro e sul palco, facendo dei loro concerti serate memorabili a base di sangue, sputi e chissà quale altro fluido corporeo.
E poi, ovviamente, è arrivato Sid Vicious, e con lui Nancy, e con loro la storia romantica che si fa leggenda e finisce per entrambi a soli ventun'anni.


Come lo racconti tutto questo dopo che è già stato raccontato, con i sopravvissuti in parte interessati, in parte astiosi nel vedersi raccontare, ancora?
Danny Boyle decide per uno stile punk.
Una regia punk, che lascia gli attori liberi di muoversi, di improvvisare live dove sono loro stessi -come i loro personaggi- alle prese con strumenti che poco conoscono, muovendo la sua macchina da presa di qua e di là, tra rallenti e punti fermi.
Prende degli attori perlopiù sconosciuti, e li cala nelle parti rendendoli così credibili, veri, e la differenza con l'unico volto noto (quello dell'imberbe Thomas Brodie-Sangster) si nota da subito.
Prende delle storie, poi. Quelle che ci hanno regalato canzoni leggenda, quelle che hanno segnato le uscite dal gruppo e le nuove entrate, quella che tutto ha fatto partire: il primo di questi ragazzi soli, Steve Jones, con i suoi fantasmi, i suoi tormenti, la sua vita vivacchiata.
Si parte da lui, dalla sua biografia, per poi incontrare John Rotten e Chrissie Hynde e Jordan Rooke e tutta quella vita che nei sobborghi di Londra premeva per essere riconosciuta.


Alla fine, Pistol riesce ad inquadrare più un periodo, un movimento, delle mode, che non la band stessa.
Correndo veloce, quasi troppo veloce e ricamando qua e là, perde pezzi e sostanza per strada.
Viene da chiedersi perché limitarsi a sei soli episodi, a quella brevità tutta inglese nelle miniserie come nelle canzoni punk, che non permettono di approfondire e dire di più.
Se ne aveva bisogno, in questo caso, visto il clamore di Sid, vista la carriera di Chrissie, visto lo scioglimento del tutto.
Con personaggi che restano indietro, diatribe che nemmeno vengono nominate, nonostante un finale a suo modo perfetto e malinconico.


Con i suoi difetti e con la sua fame, Pistol più che il racconto di una band e la storia di ragazzi soli che la musica, per un attimo, ha riunito, è una spinta a riascoltarseli al volume più alto, a cercare di più su di loro, a continuare a ricordare quanto sono stati importanti.
Come se questa fosse una scheggia di uno specchio più grande, da ricomporre poi, da soli.

Voto: ☕☕½/5

1 commento:

  1. Per me Danny Boyle ha trovato il modo migliore per raccontare i Sex Pistols e quel periodo e quel genere. Ci si sarebbe potuti dilungare, ma fare una serie lunga e noiosa sul punk, anche se magari più approfondita, non avrebbe avuto senso. :)

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