Andiamo al Cinema su Netflix
Niente di nuovo dal fronte occidentale
Niente da segnalare in una guerra di trincea.
Una guerra di posizione dove si perdono e si guadagnano pochi metri, pochi per volta, giorno dopo giorno.
Per anni.
Giorni e anni in cui, in quei pochi metri, perdono la vita milioni di giovani, arruolatisi con le migliori intenzioni patriottiche, e che si ritrovano coperti di fango, affamati, carne da macello in quella che è una guerra ormai persa, persa in partenza.
Lo si dimentica l'orrore della I Guerra Mondiale, anche quando la guerra sta a un passo da noi.
Ci si dimentica di chi si sacrifica, di chi resiste, di chi dal comfort del proprio palazzo prende decisioni, aspetta a prenderle, senza pensare alle vite che così vanno perse.
Vite in ogni caso già segnate, per il sangue visto e per il sangue versato, per l'orrore che si è fatto quotidiano.
Ci sono i film, per fortuna, a ricordarcelo.
A calarci in quelle trincee, in quell'orrore dove a fatica si riesce a sopravvivere.
Dopo 1917, allora, il 1918 in cui Erich Maria Remarque ha ambientato il suo romanzo semiautobiografico, che per la terza volta viene portato su grande schermo e per la seconda agguanta la nomination a miglior film (con la versione del 1930, l'ha pure vinto).
Come Sam Mendes, anche Edward Berger si affida a lunghi piani sequenza, a corse e fughe tra proiettili e esplosioni perché infondo è il modo più efficace per immergerci nel caos che un'azione militare può essere.
Dopo un incipit doloroso nella sua intensità, conosciamo Paul, il protagonista, che con gli amici si arruola senza sapere bene cosa lo aspetta.
Lo scopriranno presto, pregando di tornare a casa, affrontando giorno per giorno la sorte che li aspetta, con i francesi a pochi metri a pregare lo stesso.
Nel mentre, nella tranquillità di palazzi lussuosi, in treni confortevoli in cui il cibo si può rifiutare, i gerarchi cercano di stipulare la resa, parte che nel romanzo manca ma che permette a Daniel Brühl di farsi voler bene e rimarcare con metafore visive -anche troppo sottolineate- la disparità delle condizioni.
Duro e doloroso come i film di guerra sanno essere, tecnicamente imponente nei suoi 143 minuti di durata, ha nella colonna sonora martellante e nella fotografia nitida altri aspetti notevoli giustamente considerati dall'Academy.
Il paragone con 1917 nasce spontaneo, per ambientazione e stile, anche se lì si raccontava un singolo episodio rendendo ancor più difficile l'andare avanti, in quello che per molti era un esercizio di stile.
Qui siamo all'ultimo anno di guerra, gli ultimi attimi pure, che si trascinano, apparendo ancora più dolorosi nella loro insensatezza, facendosi denuncia attuale.
A vincere, per fortuna, è il buon cinema.
Quello con un messaggio, certo, ma anche con una gran tecnica che riesce a toccare le corde giuste.
Quelle che troppo spesso si assuefanno.
Voto: ☕☕☕½/5
Bello e molto teso ma tutta questa mole di nominescions... Mah. Approfitto per dirti che da PC non riesco, da qualche settimana, ad accedere al tuo blog. Mi dice che ci sono "errori di battitura nell'indirizzo". Strano o_O
RispondiEliminaHollywood se n'è innamorata, ma mi sa che come Flee lo scorso anno poco porterà a casa.
EliminaVuoi dirmi che mi stanno boicottando? Ho chiesto e fatto prove, ma nessuno ha questo problema 😓
Pensa che quando è arrivato su Netflix lo avevo confuso con Al di là del fiume e tra gli alberi, sbagliando autore e sbagliando guerra. Ma prima o poi pure Hemingway dovrebbe arrivare sulla N rossa.
RispondiEliminaPoco pubblicizzato, ma l'Academy gli sta dando la giusta spinta. O almeno, l'ha data a me per recuperarlo.
Quindi in pratica è il sequel non dichiarato di 1917? °__°
RispondiEliminaDovrei recuperarlo prima degli Oscar, ma, considerando quanto mi era piaciuto quello, la voglia è sotto lo zero.
Meno tecnico e d'azione, ma pur sempre un classico racconto di guerra. Quando sono così ben fatti, però, e quando sanno prendere, vale la pena scoprirli.
EliminaBasta solo trovare il tempo che ormai sotto le due ore non c'è niente.