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Charlie Kaufman Chi?

Quella che segue è la riduzione della mia tesi triennale per l'Università Ca' Foscari di Venezia. Basata sullo sceneggiatore Charlie Kaufman è una riflessione sul ruolo dell'autore nella realizzazione del film.


Cominciare… cominciare… come iniziare?...
Ho fame.
Ho bisogno di un caffè.
Il caffè mi aiuterà a pensare.
Ma prima dovrei scrivere qualcosa e poi premiarmi con
un caffè.
Un caffè e un muffin.
Ok.
Prima devo stabilire i temi.
Forse al gusto di banana. Il muffin alla banana è buono.

Introduzione
Alla domanda ricorrente di questi mesi (<<Su cosa fai la tesi?>>) alla mia soddisfatta risposta << Su Charlie Kaufman>> seguono nell’ordine:

- Imbarazzo
- Silenzio
- Espressioni di intensa riflessione
- Infine, un timido, <<Chi è?>>

   Forse è anche per questo che ho scelto di basare la mia tesi su Charlie Kaufman, sceneggiatore e regista. Per farlo finalmente conoscere, non dico a tutti, ma almeno a chi conosce me, perchè i suoi film sono riusciti –tutti- a colpirmi e ad emozionarmi in modo inaspettato e sorprendente con l’originalità, l’intricata semplicità e la poesia che sta loro dietro.
E questo è ovviamente il secondo motivo.
Devo confessare che inizialmente attribuivo tutti questi meriti a Michel Gondry, ho visto e rivisto tutti i suoi video musicali, i suoi spot pubblicitari ma l’uscita de L’Arte del Sogno prima e di Be Kind Rewind poi hanno minato il mio amore per questo eclettico artista. Solo grazie ad Adaptation ho finalmente potuto attribuire al nome di Charlie Kaufman tutto il mio entusiasmo.
E così eccomi qui, ad approfondire uno dei personaggi più influenti ed ammirati di Hollywood, sperando di poter evitare, d’ora in poi, la domanda <<Charlie Kaufman chi?!?>>

   Partendo dal fatto che lo stile di Kaufman è più personale a livello espressivo che tecnico in quanto anch’egli si rifà al classico paradigma dei tre atti per strutturare la trama -riuscendo comunque ad aggirarne la schematicità fissa- sono tre i punti di forza che, a mio parere, lo rendono riconoscibile ed unico nel mondo di Hollywood e che, anche se in percentuale diversa, sono presenti in ogni suo lavoro.
   Il primo riguarda la presentazione dei suoi protagonisti. Vi è una cura psicologica profonda nel raccontarli, una identificazione nelle loro ansie e nei loro problemi, siano essi di natura sessuale (Human Nature, Essere John Malkovich), amorosa (Eternal Sunshine of the Spotless Mind) o semplicemente di relazione alla vita (Adaptation, Synecdoche, New York). La storia si fonde con i suoi personaggi, immergendosi -letteralmente- nei loro pensieri in modo da creare una completa immedesimazione anche per il pubblico.
Il tempo dell’azione è molto spesso dettato direttamente dal tempo del protagonista, se già in Eternal sunshine erano infatti i ricordi di Joel e la loro cancellazione a rappresentare l’ambientazione e quindi lo scorrere narrativo, con Synecdoche, New York siamo totalmente immersi nell’atemporalità di Caden in cui gli anni passano in pochi minuti e tutto attorno a lui cambia con sconcertante velocità.
   Il lavoro di Kaufman va quindi al di là della semplice e sommaria caratterizzazione dei protagonisti, non lasciando nulla di scontato: ogni gesto, ogni parola, ogni sguardo ha una sua funzione e un suo significato. La cura psicologica è dunque fondamentale nelle sue sceneggiature e rivela quel misto di egocentrismo e di ipocondria propria dello stesso Kaufman.
Craig, Charlie e Donald, Joel, Caden non sono altro che delle proiezioni del suo Io, e proprio per questo la loro descrizione risulta così veritiera e approfondita.
Il suo interesse per la psicoanalisi e la psicologia sono infatti rese esplicite dalla presenza di personaggi come il Dottor Bronfman – che studia il comportamento animale in Human Nature- e il Dottor Mierzwiack in Eternal Sunshine of the Spotless Mind e le sue sperimentazioni nel campo della memoria.
   Il secondo elemento distintivo è la capacità di mescolare reale e fittizio, creando uno stato di spaesamento e disorientamento. Se già in Essere John Malkovich la stessa presenza dell'attore del titolo nei panni di se stesso era un chiaro pastiche artistico metacinematografico, con Adaptation la sottile linea che divide realtà da finzione sfuma ai limiti dell’assurdo. Kaufman si mette in scena, difetti compresi, ma soprattutto mette in scena la nascita dell’opera stessa che stiamo guardando.
   Il suo modo di far entrare lo spettatore nella macchina del cinema è sicuramente diversa da quella che già in passato si era vista con Orson Welles, François Truffaut o Woody Allen (a cui però la tagliente ironia a volte rimanda, v. La rosa purpurea del Cairo), il suo è infatti un modo più diretto ma anche più artistico e confuso: mettersi in scena e raccontarsi, pretendendo di essere così poco interessanti da essere protagonisti. In questa mania egocentristica sta la sua forza, Kaufman non si autocelebra, anzi, la sua rappresentazione non risparmia nessuno dei suoi difetti (calvizia, forma fisica, fallimenti amorosi, autoerotismo) ed è questo suo presentarsi nel modo più reale che lo rende così cinematografico.
   Ė l’opera in sé e la sua scrittura a diventare protagonista, una piccola costanza nei suoi lavori: da una parte vi è l'opera folle e grandiosa di Caden e della sua Synecdoche, New York che ricorda il lavoro teatrale di Kaufman  Hope Leaveas the Theatre (in cui gli attori inscenano le prove dell'opera che deve essere messa in scena); dall'altra ancora Adaptation il cui vero protagonista sembra essere alla fin fine il blocco dello scrittore.
   Ultimo dettaglio che rende Kaufman uno degli artisti più originali degli ultimi anni è il suo rapporto con i registi.
Jonze e Gondry grazie al loro background fatto di videoclip musicali e spot pubblicitari si sono dimostrati i talenti visionari necessari per rendere su schermo le fantasie e i sogni di Kaufman. Proveniendo dall'underground americano l'uno e francese l'altro, hanno saputo fare di necessità virtù e con mezzi low-fi realizzare ottimi lavori che li hanno portati alla grande produzione hollywoodiana.
La collaborazione con i due è stata sicuramente vincente se si pensa agli ottimi giudizi di pubblico e critica che i film realizzati hanno avuto, ma fin da subito si è capito che dietro il successo e le idee vincenti del film stava quasi esclusivamente la mente di Kaufman, e i lavori successivi di Jonze (Where the wild things are) e di Gondry (L'arte del sogno, Be kind Rewind) ne sono stati una prova, contendendo sì immagini e spunti originali ma senza avere la poeticità e l’approfondimento dei precedenti.
   L’eccezione che conferma la regola di rapporti solidi basati sul rispetto recirpoco sembra stare in Confessions of a dangerous mind, film del 2003.
Alcuni dei tratti distintivi delle sceneggiature di Kaufman -disgiunzione della personalità, perdita della propria identità, angoscie esistenziali- sono ancora presenti ma George Clooney, regista del film, non ha mai incontrato lo sceneggiatore per discutere insieme del progetto e ha, anzi, riscritto parte dello script senza la sua consultazione. Ciò ha spinto Kaufman ha dichiarare che Confessions è <<un film a cui non mi sento legato>>
   Synecdoche, New York rappresenta infine il grande salto di Kaufman.
La maturità acquisita lo porta sulla sedia del regista, gli anni di gavetta e di osservazione sono finiti e ora al timido scrittore che si aggira sconosciuto durante le riprese si sostituisce l’uomo di spettacolo che sa giocare le proprie carte e che con le sue potenzialità riesce a mettere in scena un’opera tanto complicata quanto poetica.
   La scelta dei registi, anche se si tratta di se stesso, è quindi una componente fondamentale per la realizzazione delle sue sceneggiature, creando fiducia e sintonia il risultato non può essere che vincente.

   Per sviluppare questi punti mi sono avvalsa più del materiale rintracciabile in Internet che non di quello cartaceo. In Italia esiste infatti una povera, se non nulla, bibliografia riguardante Kaufman. La maggior parte dei saggi sulla sceneggiatura si sofferma quasi esclusivamente su Adaptation considerandolo una summa del modo di adattare un romanzo-scritto in un film. Il resto cade nell’oblio.
Il libro di Derek Hill, Charlie Kaufman and Hollywood’s merry band of pranksters, fabulists and dreamers, è stato fondamentale: il saggista americano dichiara infatti l’esistenza di una New Wave americana di cui Kaufman può benissimo essere il leader.
   Oltre a questo, il sito sempre aggiornato BeingCharlieKaufman.com è stato fonte di numerosi approfondimenti. I suoi amministratori scandagliano infatti quotidianamente il web alla ricerca di articoli che parlino o trattino i temi cari al loro beniamino. Non solo articoli però, nella pagina dedicata agli scritti sono disponibili gratuitamente gli script dei film, interviste, e materiale stampa.
Discorso a parte merita la bibliografia riguardante la sceneggiatura in sé, ricca di contributi e di manuali di ogni genere e di ogni autore che mi ha ampiamente aiutato ad entrare in un mondo così spesso dimenticato com’è quello dello sceneggiatore.
   Ecco quindi il terzo ed ultimo motivo che mi ha spinto a sviluppare la mia tesi, conoscere e far conoscere questo mondo e questo aspetto nella produzione di un film.
Perchè l’approfondimento dei personaggi, la scelta di genere e di sconfinamento da questo, la realizzazine finale del prodotto sembrano riconducibile alla sola voce di Kaufman, alle sue scelte stilistiche e tematiche. Ma questo resta il più delle volte nell’ombra.
Come saggiamente dice Joe Gillis in Viale del tramonto:
Che ne sa il pubblico degli scrittori di cinema? Pensa che il merito sia tutto degli attori o dei registi...

   Possono quindi essere le scelte registiche di uno sceneggiatore, i suoi approfondimenti, le sue visioni a caratterizzare un’opera al punto da diventare egli stesso, prima dei registi e degli attori, il referente principale per la messa in scena?
Può essere lo sceneggiatore di un film a renderlo così unico e originale?



Being Charlie Kaufman – Breve Biografia

Charlie Kaufman.
Classe 1958, americano di Long Island, vissuto tra il Connecticut, New York e Los Angeles, sceneggiatore.
Inserito nel 1999 da Variety tra i ‘Ten scribes to watch’ e ora tra le 100 persone più influenti ad Hollywood da Forbes.
Post-moderno, fantasista di prim’ordine, essenza dell’ebraismo, dell’America, dell’anarchia, Kaufman è provocatorio, brutalmente onesto e alla ricerca di un significato in un mondo che ne è privo.
Da un’infanzia e un’adolescenza passate a seguire le regole ebraiche di famiglia all’Oscar nel 2004 per la sceneggiatura di Eternal Sunshine of a spotless mind.
Una vita ordinaria, con passi falsi e fortune, a spiegare il suo genio.

Nato il 19 novembre 1958 a Long Island, Kaufman si trasferisce con la famiglia a West Hartford, Connecticut, nel 1974. Non eccelle in modo particolare negli studi ma si interessa da subito alla recitazione entrando a far parte della TV Company e del Drama Club della scuola, dove dimostra le sue doti comiche (si dichiara infatti estimatore dei Fratelli Marx e del primo Woody Allen) finendo i tre anni dell’High School onorato dello School’s Diane T. Weldon Scholarship for Achievement in Dramatic Arts.
Iscrittosi dapprima alla Boston University, si trasferisce dopo poco alla NYU dove studia cinema e conosce l’amico Paul Proch con cui inizia un’intensa collaborazione nella stesura di scritti e sceneggiature e con cui firmerà gli articoli editi dal National Lampoon Magazine, lavoro che gli garantirà i primi guadagni.
Alla ricerca di soldi e di lavoro i due spediscono i loro scritti ovunque, (anche a quello che credevano fosse l’indirizzo di Steven Spielberg). Uno dei loro lavori, Purely Accidental, uno School film, trova da subito l’appoggio del giornalista John Mitchell del North Adams Transcript (<<a brilliant attempt at building a story on coincidence and featuring lots of Don Knotts jokes.>>) ed è apprezzato anche da Alan Arkin che li incoraggia a continuare su quella strada e che gli dà nuova speranza dopo gli innumerevoli tentativi finiti col ritorno al mittente o più tristemente senza risposta.
Trasferitosi a Minneapolis negli anni ’80, il nostro Charlie arranca tra innumerevoli lavori: per lo Star Tribune (non da giornalista però, ma da centralinista per le lamentele della mancata ricevuta del giornale) e per l’istituto d’arte (era la voce del “si chiude fra 15 minuti” al museo) che riescono a mantenerlo per circa quattro anni e mezzo.
La collaborazione con l’amico Proch intanto continua, insieme scrivono alcuni speciali per le serie TV Married…with children e Newhart (quest’ultimo racchiude in sé parte degli elementi surreali che saranno poi presenti del finale della serie) che però non verranno mai accettati.
Dopo innumerevoli tentativi a vuoto, Kaufman prova la carta di Los Angeles, trasferendosi nella patria del cinema americano senza alcuna vera prospettiva di lavoro nel periodo di reclutamento di nuovo personale negli studios. Dopo mesi di ricerca e di scritti rifiutati una chiamata lo invita a tornare a Minneapolis per lo show di Fred Willard Access America. Tentato di costruire la sua carriera nella terra dei 10.000 laghi, resisterà grazie alla chiamata di David Mirkin, creatore di Get a life!, che gli dichiara di apprezzare le sue sceneggiature e che lo assumerà poi proprio come sceneggiatore della sitcom: nei due episodi scritti da Kaufman si intravedono già alcuni dei particolari onirici che saranno il suo marchio distintivo nei film successivi, come quello in cui il protagonista Chris Elliot (con cui aveva già lavorato nel Late Night With David Letterman) beve una pozione che lo porta a viaggiare nel tempo.
La carriera televisiva di Kaufman si apre quindi negli anni ’90 con numerose collaborazioni: da The Edge (1992-‘93) a Ned e Stacey (1996-‘97), dal The Dana Carvey Show a The trouble with Larry. Collaborazioni sporadiche certo, ma almeno dei lavori. I suoi pilots intanto vengono continuamente respinti, considerati troppo per una TV commerciale sia per i temi trattati (come il sesso in Depressed Roomies) che per la loro realizzazione (da quella teatrale per Depressed Roomies, alla musicale di Rambling Pants, fino alla drammatica e anti-romantica per In Limbo).
Mentre aspetta che uno dei suoi lavori venga accettato o che gliene sia offerto un altro, nasce l’idea di scrivere un film che inizia come <<una storia su di un uomo che s’innamorerà di qualcuno che non è sua moglie>>. Questo breve soggetto diventerà poi il capolavoro del 1999 Essere John Malkovich.
Il successo commerciale e di critica del film lo spinge alla realizzazione del meno fortunato Human Nature (scritto nell’anno seguente) e a collaborare con il regista Michel Gondry. Torna però a lavorare con Spike Jonze per Adaptation nel 2002, film che mescola realtà e finzione della sua crisi creativa per l’adattamento del libro della Orlean Il ladro di orchidee a film commerciale. La critica apprezzerà l’opera ma non sarà mai del tutto convinta del finale confuso e ironico e delle capacità di Jonze di saper tenere i tempi e le bizzarrie visive di Kaufman.
La sua consacrazione arriverà comunque nel 2004 con l’Oscar per il film più apprezzato dell’anno, Eternal Sunshine of the Spotless Mind, considerato unanimemente il suo capolavoro. Il seme dell’idea è di un amico di Michel Gondry e si sviluppa in modo onirico nel cervello del protagonista con effetti ed emozioni speciali realizzati in modo favoloso.
Dopo un ritorno al teatro nel 2005 con Hope Leaveas the Theatre, doppio spettacolo assieme al Sawbones dei fratelli Coen -dove ritorna sulla tematica creativa di Adaptation mettendo in scena la messa in scena dello spettacolo- la sua ultima impresa è quella di star seduto sulla sedia del regista.
Con Synecdoche, New York debutta infatti come regista in un film che però stenta e ha stentato a trovare un mercato ad accoglierlo (in Italia deve ancora uscire nelle sale), forse a causa del tono cupo e pesante che si respira nell’intero film e alla complessità della sua trama che vede al centro dell’azione un altro scrittore in crisi, alla ricerca dell’opera perfetta di genialità e di spessore.
Forse è a questo che da sempre mira Charlie Kaufman.
Il percorso che lo ha portato da lavoratore saltuario, da sceneggiatore televisivo e cinematografico e infine a regista, lo ha reso consapevole del suo potenziale. Non volendo deludere prima di tutto se stesso cerca attraverso l’interrogazione psicologica dei suoi personaggi di esorcizzare le sue paure più profonde, quelle di fallire e di essere abbandonato.
Recentemente Kaufman ha parlato di un suo probabile ritorno a scrivere per la TV mentre la sua sceneggiatura, un adattamento di A Scanner Darkly, romanzo fantascientifico di Philip K. Dick, è stata rifiutata e il regista del progetto filmico, Richard Linklater, ha preferito scriverlo da sé.
Da sempre schivo e riservato, Kaufman è riuscito a non vendersi all’Hollywood commerciale e, nonostante i suoi film abbiano tutti un cast di prim’ordine, di mantenere un’indipendenza che gli consente di sperimentare e di mescolare i generi.
<<Ė quando complichi le cose, che le cose si fanno più interessanti>>.
D’altronde per uno sceneggiatore che dichiara di ispirarsi a scrittori con Franz Kafka, Samuel Beckett e Philip K. Dick e che tra i suoi film preferiti include i lavori di Lynch e dei fratelli Coen, la semplicità non può prevalere.



Three Act – Il paradigma della natura umana

 William Goldman afferma che <<la sceneggiatura è struttura>>.
Ė così da sempre.
Fin da quando siamo bambini le storie che ci vengono raccontate si sviluppano sempre seguendo un unico paradigma: inizio, mezzo e fine, è radicato in noi il pensiero di questa struttura, vediamo in essa la riproduzione della nostra vita, si nasce, si cresce e si muore.
Non ci si scampa. Niente di più naturale.
La composizione drammatica, infatti, fin dalle sue origini si è rifatta alla struttura in tre atti, e sebbene Shakespeare e altri grandi drammaturghi passati e presenti abbiano scritto opere anche in cinque o sette atti, la struttura di base si compone sempre di tre parti: la premessa, lo sviluppo e la risoluzione. La calata del sipario divide ogni atto come in televisione l’interruzione pubblicitaria.
Ad Hollywood scrivere sceneggiature che seguano questo modello è ormai uno standard fin dal pioniere Ben Hecht degli anni ‘30, e anche quei film che appaiono complicati e del tutto originali a livello narrativo -come quelli di Kaufman- si possono riportare a questa struttura, perché questo è il paradigma che permette di tenere assieme scene, azioni, luoghi, personaggi e situazioni.
A differenza di quanto si possa pensare, però, questo schema non è rigido, anzi, permette un numero infinito di soluzioni in quanto è il contenuto a cambiare e a fare una storia, non la sua struttura.
Ma torniamo al cinema.
Sono numerosi i manuali di sceneggiatura che spiegano e cercano di fare della struttura in tre atti un modello fisso, tra questi quelli di Syd Field e Linda Seger ma anche del nostro Age.
I valori indicativi della scrittura prevedono tra le 15-30 pagine per il primo atto, 45-60 per il secondo e 25-35 per il terzo; questi dati si basano sullo studio di numerose sceneggiature e sulla formula vincente da applicare per rendere la narrazione del film efficace.

 Il primo atto
Chiamato anche Set-up, serve ad impostare la storia, stabilendo e facendo capire al pubblico di chi e di che cosa si parla, definendo quindi i rapporti tra i personaggi e i loro bisogni.
Una storia, convenzionalmente, parte mostrando la vita del protagonista prima che un fatto eccezionale ne sconvolga la routine ed è questa routine che viene messa in scena nei primi minuti permettendo al pubblico di immergersi nel racconto.
Come si sa, l’inizio è sempre il più difficile da trovare, molto più di un finale. Per quanto riguarda un film deve saper catturare l’attenzione e soprattutto dare il tempo di abituarsi all’ambientazione, per questo molto spesso si predilige iniziare una sceneggiatura con un’immagine: efficace ed esplicativa. L’occhio infatti si abitua più facilmente dell’orecchio, iniziare con un dialogo a differenza colpisce e crea un effetto di estraneazione che solo se si è degli ottimi registi si sa controllare (Tarantino è un maestro in questo, si pensi al dialogo d’apertura de Le iene e lo stesso Kaufman lo ha provato con Adaptation: schermo nero e soliloquio di Charlie).
Le scansioni del primo atto ci preparano quindi allo svolgimento della storia.
Il set-up si conclude con quel fatto che sconvolge la quotidianità di quanto ci è stato mostrato: questo “fatto” è la prima spinta che avvia la trama principale e viene chiamata catalizzatore, ad indicare come sia questa svolta a catturare definitivamente l’attenzione del pubblico, facendolo innamorare a pagina uno.
La Seger ha individuato tre diversi tipi di catalizzatori:
-          Azioni specifiche che cominciano la storia.
-          Informazioni che il personaggio riceve e che ci orientano sul soggetto della storia.
-          Una situazione o una serie di incidenti che messi assieme dirigono lo sviluppo.
Quello che il catalizzatore fa è dunque porre una domanda, un dubbio al quale verrà data una risposta solo nel culmine della sceneggiatura e che verrà perseguita per tutto il secondo atto, inducendo quindi chi guarda a continuare a guardare.

Il secondo atto
Noto anche come confronto, è l’unità di azione drammatica in cui il protagonista affronta una serie di ostacoli per soddisfare il bisogno drammaturgico che il catalizzatore ha creato.
Una storia è infatti conflitto: <<senza conflitto, niente personaggio; senza personaggio, niente azione; senza azione, niente storia>> dice Field. Lo stesso Robert McKee, guru americano della sceneggiatura, pronuncia nel film Adaptation - Il ladro di orchidee queste parole: <<Prima di tutto se scrivi una sceneggiatura senza conflitti o crisi, annoierai il tuo pubblico a morte>>.
Uno dei grossi problemi che si può però riscontrare nello sviluppo del secondo atto è il procedere ad episodi, se la storia fosse lineare e si sviluppasse solo dopo il catalizzatore l’interesse del pubblico cadrebbe e il punto focale non sarebbe chiaro. Le “prove” che il protagonista deve superare, gli ostacoli che incontra, devono però avere aderenza e perseguire le finalità del racconto. Quindi l’unico criterio da adottare è l’efficacia.
Vanno perciò rispettate le piccole regole che ci insegnavano fin da bambini per analizzare una fiaba: ogni azione comporta una reazione ad essa collegata.
Per questo a metà del secondo atto vi è un Mid-point, un episodio o un evento che spezza a metà il secondo atto permettendone la connessione con il terzo.
Questo primo turning point (il secondo e ultimo si incontrerà nel terzo atto) è spesso un momento di decisione o di impegno da parte del personaggio principale e soddisfa per la Seger le seguenti funzioni:
-          Muove l’azione in un’altra direzione
-          Solleva di nuovo la domanda centrale e ci fa chiedere quale sarà la risposta
-          Alza la posta in gioco
-          Spinge la storia nell’atto seguente
La svolta permette quindi di proseguire verso l’obiettivo del film, verso il gran finale.

Il terzo atto
Detto anche risoluzione, è caratterizzato da un’escalation di eventi provocati da un secondo turning point che rende l’atto più intenso e con un’azione accelerata rispetto agli altri due.
Ė quindi qui che si ha il climax della storia.
La seconda svolta dà un senso di urgenza e un nuovo impulso alla storia, spingendola così alla sua conclusione.
Il culmine si raggiunge a circa cinque pagine dalla conclusione della sceneggiatura ed è seguito da una risoluzione che risponde ai dubbi sorti, conclude l’azione e dà un finale alla vicenda narrata.
Ė importante notare però che risoluzione e finale son due cose diverse.
La risoluzione infatti contiene il seme del finale, e ne permette lo sbocciare. Questo è dunque il momento in cui tutta la linea narrativa ha il suo pay-off, ovvero una sua rimonta, la conseguenza di un precedente narrativo inserito nei primi atti.
Un finale efficace è dunque impostato dall’inizio della sceneggiatura in quanto è il suo lasciapassare:
Può salvare un film non eccellente, smorzare lo slancio di una bella storia, vidimare un successo o un insuccesso. Ė il finale, nella maggior parte dei casi, a orientare il tono dei commenti e dei giudizi degli spettatori.

La struttura di una sceneggiatura è dunque del genere diagramma inflazione: in costante salita con qualche breve discesa.
Ed è solitamente rappresentata così:


 Analizzando la struttura dei film di Kaufman si nota che le sue sceneggiature si incastrano in questo modello, nonostante la sua diffidenza verso una griglia potenzialmente rigida, ripetitiva e prevedibile.
All’affermazione di McKee che<<una regola indica come una cosa va fatta;un principio indica che una cosa funziona e che ha sempre funzionato>> Kaufman dichiara che l’unico principio da applicarsi è la libertà di scegliere come strutturare la propria storia.
Questo è chiaramente esposto in Adaptation – Il ladro di orchidee, in cui, con una non poi tanto velata ironia, Charlie, in crisi con la stesura dell’adattamento del romanzo della Orlean, si ritrova proprio ad una conferenza di Robert McKee per futuri sceneggiatori e decide di seguirne i consigli rientrando in una linea narrativa convenzionale. Questa scelta viene sancita però col marcato sarcasmo del finale in cui vengono sì soddisfatte le esigenze del climax e della risoluzione proprie del terzo atto, ma parodiandole, così facendo Kaufman rientra nel paradigma classico ma non si vende alla Hollywood commerciale, come nei suoi incubi accadeva.
Kaufman si rivela quindi un maestro nel saper giocare con la struttura della sceneggiatura in tre atti, dilatando i tempi d’inizio (Eternal Sunshine of a spotless mind), accelerando i finali (Adaptation - Il ladro di orchidee), mescolando realtà e finzione in un gioco d’incastri che riesce a nascondere il DNA del modello di riferimento (Essere John Malkovich).
L’originalità di Kaufman sta anche in questo, saper eludere la forma, saper modellare la propria storia, facendo anche dei turning point scelte efficaci e originali: dalla scoperta della pelosità di Lila da parte del Dottor Bronfman in Human Nature, alla vera e propria illuminazione artistica di Charlie su come adattare il Ladro di orchidee(anche se non si rivelerà un vero e proprio turning point in quanto seguono comunque altre crisi creative che si risolveranno solo nel finale dopo la vera svolta che la verità sulla vicenda tra la Orlean e Larouch crea), a quello forse più poetico di Joel, che capisce di amare ancora la sua Clementine e urla ai cancellatori della Lacuna Inc. di fermarsi, di avere cambiato idea.
L'eccezione nel suo percorso sembra però essere invece Synecdoche, New York. L'atemporalità in cui il protagonista Caden ci immerge lascia dubbi e perplessità sul progredire della sua vita e soprattutto della storia, i colpi di scena sono smontati a causa della sua apatia, è un tutto che scorre incessantemente senza una direzione. Con la sua prima esperienza da regista, Kaufman ha voluto rischiare, portando la sceneggiatura su un nuovo livello di scrittura che cerca di discostarsi dai modelli fissi prendendo come riferimento per la narrazione la malattia e il malessere del suo protagonista. Proprio per questo il film appare come estremamente complicato e confuso, senza una linea madre da seguire, ci si perde e non ci si ritrova.
La struttura in tre atti, come già detto, non è una gabbia né una prigione in cui voler incastrare ogni tipo di racconto, ma è semplicemente il modo più efficace e riconosciuto di narrare.
La sua originalità sta dunque anche in questo. Nel saper giocare e giostrare a suo piacimento schemi così fissi, inserendo dettagli e invenzioni che riescono a scombinarli e a ricrearli.
Ma il suo tocco distintivo non sta, solo, in questo.

Confessioni su una mente pericolosa

Come si è visto l'originalità di Kaufman non sta solo ad un livello puramente tecnico di sconvolgimento di paradgmi narrativi.
Così dichiara infatti nel press kit di Synecdoche, New York. <<Il mio approccio è quello di fare film che vi permettono di scoprire cose nuove su diversi punti di vista. Ed è il mio obiettivo per farvi sentire come se fosse un essere vivente non una cosa morta>>.

A mio parere sono tre i punti di forza che lo rendono riconoscibile e unico nel mondo di Hollywood e che, anche se in percentuale diversa, sono presenti in ogni suo lavoro.
Il primo riguarda la presentazione dei suoi protagonisti. Vi è una cura psicologica profonda nel raccontarli, un identificazione nelle loro ansie e nei loro problemi, siano essi di natura sessuale (Human Nature, Essere John Malkovich), amorosa (Eternal Sunshine of the Spotless Mind) o semplicemente di relazione alla vita (Synecdoche, New York). La storia si fonde con i suoi personaggi, immergendosi, anche letteralmente, nei loro pensieri in modo da creare una completa immedesimazione anche per il pubblico.
Il tempo dell’azione è molto spesso dettato direttamente dal tempo del protagonista, se già in Eternal sunshine erano i ricordi di Joel e la loro cancellazione a rappresentare l’ambientazione e quindi lo scorrere narrativo, con Synecdoche, New York siamo totalmente immersi nell’atemporalità di Caden in cui gli anni passano in pochi minuti, tutto attorno a lui cambia senza che se ne renda veramente conto.
Il lavoro di Kaufman va quindi al di là della semplice e sommaria caratterizzazione dei protagonisti, non lasciando nulla di scontato: ogni gesto, ogni parola, ogni sguardo ha una sua funzione e un suo significato. La cura psicologica è dunque fondamentale nelle sue sceneggiature e rivela quel misto di egocentrismo e di ipocondria propria dello stesso Kaufman. 
Craig, Charlie e Donald, Joel, Caden non sono altro che delle proiezioni del suo Io, e proprio per questo la loro descrizione risulta così veritiera e approfondita.
Il suo interesse per la psicoanalisi e la psicologia sono infatti rese esplicite dalla presenza di personaggi come il Dottor Bronfman – che studia il comportamento animale in Human Nature- e il Dottor Mierzwiack in Eternal Sunshine of the Spotless Mind e le sue sperimentazioni nel campo della memoria.
Il secondo elemento distintivo è la capacità di mescolare reale e fittizio, creando uno stato di spaesamento e disorientamento. Se già in Essere John Malkovich la stessa presenza dell'attore del titolo nei panni di se stesso era un chiaro pastiche artistico metacinematografico, con Adaptation la sottile linea che divide realtà da finzione sfuma ai limiti dell’assurdo. Kaufman si mette in scena, difetti compresi, ma soprattutto mette in scena la nascita della stessa opera che stiamo guardando.
Il suo modo di far entrare lo spettatore nella macchina del cinema è sicuramente diversa da quella che già in passato si era vista con Orson Welles, François Truffaut o Woody Allen (a cui però la tagliente ironia a volte rimanda, v. La rosa purpurea del Cairo), il suo è infatti un modo più diretto ma anche più artistico e confuso: mettersi in scena e raccontarsi, pretendendo di essere così poco interessanti da essere protagonisti. In questa mania egocentristica sta la sua forza, Kaufman non si autocelebra, anzi, la sua rappresentazione non risparmia nessuno dei suoi difetti (calvizia, forma fisica, fallimenti amorosi, autoerotismo) ed è questo suo presentarsi nel modo più reale che lo rende così cinematografico.
Ė l’opera in sè e la sua scrittura a diventare protagonista, una piccola costanza nei suoi lavori: da una parte vi è l'opera folle e grandiosa di Caden e della sua Synecdoche, New York che ricorda il lavoro teatrale di Kaufman  Hope Leaveas the Theatre (in cui gli attori inscenavano le prove dell'opera che doveva essere messa in scena); dall'altra ancora Adaptation il cui vero protagonista sembra essere alla fin fine il blocco dello scrittore.
Ultimo dettaglio che rende Kaufman uno degli artisti più originali degli ultimi anni è il suo rapporto con i registi.
Jonze e Gondry grazie al loro background fatto di videoclip musicali e spot pubblicitari si sono dimostrati i talenti vsionari necessari per rendere su schermo le fantasie e i sogni di Kaufman. Proveniendo dall'underground americano l'uno e francese l'altro, hanno saputo fare di necessità virtù e con mezzi lo-fi realizzare ottimi lavori che li hanno portati alla grande produzione hollywoodiana.
La collaborazione con i due è stata sicuramente vincente se si pensa alle ottimi giudizi di pubblico e critica che i film realizzati hanno avuto, ma fin da subito si è capito che dietro il successo e le idee vincenti del film stava quasi esclusivamente la mente di Kaufman, e i lavori successivi di Jonze (Where the wild things are) e di Gondry (L'arte del sogno, Be kind Rewind) ne sono stati una prova, contendendo sì immagini e spunti originali ma senza avere la poeticità e l’approfondimento dei precedenti.
L’eccezione che conferma la regola sembra essere Confessions of a dangerous mind, film del 2003.
Alcuni dei tratti distintivi delle sceneggiature di Kaufman -disgiunzione della personalità, perdita della propria identità, angoscie esistenziali- sono ancora presenti ma George Clooney, regista del film, non ha mai incontrato lo sceneggiatore per discutere insieme del progetto e ha, anzi, riscritto parte dello script senza la sua consultazione. Ciò ha spinto Kaufman ha dichiarare che Confessions è <<un film a cui non mi sento legato>>.
Synecdoche, New York rappresenta infine il grande salto di Kaufman.
La maturità acquisita lo porta sulla sedia del regista, gli anni di gavetta e di osservazione sono finiti e ora al timido scrittore che si aggira sconosciuto durante le riprese si sostituisce l’uomo di spettacolo che sa giocare le proprie carte e che con le sue potenzialità riesce a mettere in scena un’opera tanto complicata quanto poetica.
La scelta dei registi, anche se si tratta di se stesso, è quindi una componente fondamentale per la realizzazione delle sue sceneggiature, creando fiducia e sintonia il risultato non può essere che vincente.

Possono quindi essere le sue scelte registiche, i suo approfondimenti, le sue visioni a caratterizzare un’opera al punto da diventare egli stesso, prima dei registi degli attori, il referente principale per la messa in scena?
Può essere lo sceneggiatore di un film a renderlo così unico e originale?

 L’eterno splendore delle menti candide – Analisi dei protagonisti di Kaufman


Ogni personaggio deve sapere che posto occupa nella storia,
quali sono i suoi precedenti e dove vuole arrivare.
Gramsci

I personaggi si compongono di parole e azioni.
Parola e azione mostrano i pensieri, le convinzioni, le intenzioni.
Nel teatro, dalla Grecia antica all’Ottocento, i personaggi esprimevano i loro pensieri e le loro sensazioni a voce, rivolgendosi quasi direttamente al pubblico. Questi soliloqui erano un espediente che lo scrittore usava per far capire come il protagonista si sentiva ma che già persone illustri come Alfieri invitavano a farne un uso misurato.
Per il cinema la faccenda si complica, McKee avverte:

Guai a voi se usate la voce fuori campo nel vostro lavoro amici miei. Guai a voi. Quella è una scrittura fiacca e sciatta. Qualsiasi idiota può ricorrere alla narrazione fuori campo per spiegare i pensieri del personaggio.

In un film dovrebbero essere le immagini, e dunque le azioni, a mostrare sentimenti e pensieri. Evitare quindi le cosiddette “teste parlanti” -una profusione di dialoghi e parole- ma lasciare spazio al silenzio in modo che la vista possa ricercare la sua verità. D’altronde è questa la forza del cinema: mostrare e far vedere, stupire. Non a caso perfino Steven Spielberg sostiene che un film, per funzionare, dovrebbe essere comprensibile anche senza il sonoro.
L’arte del dialogo è quindi sottrazione. Un’immagine è molto più efficace di una parola.
Un film deve perciò saper equilibrare sia nella stesura della sceneggiatura che nell’interpretazione degli attori questi due elementi, in modo che il risultato finale stupisca più la vista che l’udito.
Lo squalo non sarebbe Lo squalo senza le scene di attacco in cui solo la musica fa da fondo (e qui si dovrebbe aprire un capitolo a parte sull’importanza della colonna sonora nei film) come Eternal Sunshine of the spotless mind non sarebbe il capolavoro che è senza le scelte stilistiche di rappresentazione della fase di cancellazione della memoria di Joel; come Synecdoche, New York non sarebbe Synecdoche, New York senza l’interpretazione caratterizzante di Philip Seymour Hoffman o Eternal Sunshine of the Spotless Mind senza quella strepitosa di Jim Carrey.
Tutto in qualche modo torna ad essere ricondotto alla sceneggiatura, sta quindi allo sceneggiatore rendere su carta ciò che su schermo sarà poi in grado di catturare il pubblico e decretare il successo del lavoro.
Lo sceneggiatore diviene così ad essere non solo colui che pensa alla trama e alla narrazione, ma -almeno per il caso Kaufman- anche colui che riesce a visualizzare stile e messa in scena (vedi voce fuori campo, punto di vista, ambientazione, ecc. ecc.) e soprattutto a rendere i personaggi così unici e speciali grazie a soluzioni che vanno oltre la semplice recitazione o modalità di ripresa.
I grandi scrittori infatti:
Sembrano sempre capaci di osservare piccoli dettagli e i tratti dei personaggi e ascoltano i ritmi dei personaggi. Si impegnano ad andare al di là degli stereotipi e ad aumentare la propria comprensione della gente. E rispettano i loro personaggi, danno loro la libertà di trovare un ampio spettro di pensieri, di azioni e di emozioni.

La definizione della Seger calza a pennello per Charlie Kaufman.
Caratterizzare i propri protagonisti senza cadere negli stereotipi è forse il lavoro più difficile per uno sceneggiatore. Buono o cattivo, imbranato o geniale, bello o brutto, il proprio personaggio deve saper aderire all’ambiente che lo circonda e deve allo stesso tempo risaltare in modo da permettere che il pubblico possa identificarsi con lui, perché in fondo è questo che rende amabile un personaggio: la somiglianza con chi lo guarda, con i suoi desideri.
Lo sceneggiatore deve quindi essere onnisciente per quanto riguarda la sua storia, anche se questa non è temporalmente presente nel film. 
Aneddoti sui metodi registici di Tarantino, raccontano come lui spiegasse agli attori perché in quel momento il loro personaggio fosse felice o sollevato, cosa avesse fatto prima di entrare in scena, i suoi pensieri… costruire in pratica un “cerchio dell’esistenza”, la storia della vita del personaggio che spiega perché si comporti o pensi in una data maniera.
Si crea dunque un sottostrato alla vicenda narrata, un sub plot che risponde alle domande sulle necessità drammaturgiche, sul punto di vista, sull’atteggiamento e sul cambiamento del protagonista nel racconto. Solo così sarà possibile per l’attore interpretarlo nel modo corretto e soprattutto per lo sceneggiatore sapere come la storia e il suo personaggio si possono sviluppare.
Quello che Kaufman fa nei suoi film si differenzia leggermente da questo metodo di lavoro.
In Eternal Sunshine of the Spotless Mind, in Synecdoche, New York ma sopratutto in Adaptation, il sub plot è chiaramente esposto e visibile agli spettatori.  Attraverso la voice-over, l’ambientazione della storia direttamente all’interno della memoria del protagonista, immergendosi nel suo tempo il film parla come il protagonista e si dirama attraverso le sue scelte motivate dal passato.
Kaufman sembra conoscere ogni minimo dettaglio o pensiero delle sue creature e questo può essere spiegato semplicemente con la massima che, che in fin di conti, “uno scrittore non può che scrivere che di se stesso”.
I protagonisti dei lavori di Kaufman presentano infatti caratteristiche comuni che sono riconducibili a lui: sono dei perdenti, ipocondriaci, egoisti, immersi nel loro mondo, incapaci di instaurare relazioni serie e durature, di lasciarsi andare.
E il più simile dei suoi figli filmici non è che lui stesso, il Charlie Kaufman di Adaptation interpretato da Nicolas Cage che a pagina uno così si presenta:

Ho un pensiero originale per la testa, la mia testa calva.
Forse se fossi più felice non mi cadrebbero i capelli.
La vita è breve, devo viverla al meglio.
Oggi è il primo giorno del resto della mia vita… ah… sono un cliché ambulante.
Devo assolutamente andare dal dottore e fargli vedere questa gamba. C’è qualcosa che non va’, un bozzo.
Ha chiamato di nuovo il dentista, sarei dovuto andarci tempo fa.
Se la smettessi di rimandare le cose sarei più felice. Non faccio che starmene seduto sul mio grosso culo. Se non avessi un culone così sarei più felice.
Non dovrei indossare sempre queste camicie fuori dai pantaloni, come se la cosa ingannasse qualcuno… dovrei riprendere a fare jogging. 8 km al giorno. Ma farlo veramente questa volta. O darmi alle scalate in roccia.
Devo rivoluzionare la mia vita.
Cosa dovrei fare?
Devo innamorarmi.
Devo trovarmi una ragazza.
Devo leggere di più, migliorarmi.
E se imparassi il russo o qualcos’altro? O se suonassi uno strumento? Potrei imparare il cinese.
Sarei lo sceneggiatore che parla il cinese e suona l’oboe.
Sarebbe una ficata.
Dovrei tagliarmi i capelli cortissimi, smetterla di ingannare me stesso e gli altri credendo di avere una testa piena di capelli.
Non è patetico?
Sii più sicuro di te.
Non è questo che attira le donne?
Gli uomini non devono essere belli. Ma questo non è vero. Soprattutto oggi. Gli uomini sono sottopressione quasi quanto le donne oggi.
Perché devo sentirmi obbligato a scusarmi per la mia esistenza?
Forse è la chimica del mio cervello.
Forse è questo che non va in me.
Chimica sballata. Tutti i miei problemi e la mia ansia possono essere ricondotti ad uno squilibrio chimico o ad una sinopsi che fa cilecca.
Quindi avrò bisogno di aiuto.
Però resterò comunque brutto.
Questo nulla potrà cambiarlo.

Un lungo soliloquio che descrive il personaggio con tutte le sue ansie e paure e che infrange l’ammonimento di McKee sulla voice-over (<<e chi se ne frega, a me piace così!>> risponderà Kaufman nel finale). Come meglio si può presentare il proprio protagonista? 
La presenza stessa di Charlie è il sub plot della narrazione, dell’adattamento del romanzo della Orlean. Se ci venisse mostrato il film come si è man mano costruito sotto i nostri occhi questo non avrebbe la stessa dirompente forza narrativa che la presenza dello sceneggiatore stesso e della sua vita danno.
Le insicurezze e le paure diventano quindi causa e centralità della storia.
Su di un tema come la delusione Kaufman ha capito che il primo e vero deluso di tutta la vicenda è se stesso, e chi meglio di lui si conosce per potersi descrivere? Così il suo personaggio ci viene mostrato senza nessun filtro migliorativo, con tutti i suoi difetti e le sue ansie -dall’ipocondria all’autoerotismo, dalla grassezza alla calvizie. E se non bastasse il monologo iniziale, le immagini stesse parlerebbero al suo posto: una postura timida e repressa, un appartamento semivuoto e non ancora ammobiliato, un abbigliamento non vistoso e non alla moda.
L’interpretazione e l’azione si uniscono poi alle immagini per rafforzare queste caratteristiche: nella prima scena, a pranzo con la produttrice cinematografica interpretata da Tilda Swinton, Charlie suda copiosamente, è evidentemente intimidito e non sa come relazionarsi con la bella donna che ha davanti. L’interpretazione di Cage è forse fin troppo caricaturale, l’opposto di quella che invece si concede con il fittizio fratello gemello Donald (il cui nome è un richiamo al più pasticcione Donald Duck, paperino) che rappresenta oltre che il suo contrario, il desiderio non così nascosto di essere: aver successo con le donne (conquista con facilità la truccatrice di Essere John Malkovich), affabilità e sicurezza di sé, e a suo modo, nonostante il soggetto della sua sceneggiatura The 3 così strano, successo con il lavoro. Lui è ciò che ama, non ciò che ama lui, in questo sta il suo ottimismo e la sua spensieratezza, una forma positiva di egoismo.
Il personaggio di Charlie rappresenta così nella carrellata degli altri protagonisti dei suoi lavori, il più perdente e insicuro. Ma nonostante questo, nonostante le mille sfaccettature che ne fanno l’opposto dei classici protagonisti belli e dannati del cinema, Kaufman si pone come primo protagonista della storia, più di Larouch, più della Orlean, più dei fiori stessi.
Ė una piccola rivalsa: sul tema della delusione nessuno meglio di lui può tenere la scena.
Così seguiamo le sue paranoie, le sue crisi di creatività alla ricerca -davanti la sua macchina da scrivere, leggendo e rileggendo il libro della Orlean, ai corsi di McKee- di superare il suo blocco di scrittore, di trovare il modo adatto per adattare Il ladro di orchidee.
E ad un tratto, il lampo, la folgorazione: lui stesso, Charlie Kaufman, deve entrare nel film. Collegando la sua vicenda, quella della Orlean alla ricerca dell’orchidea fantasma e quindi dello stupore, quella di Larouch che passa da una passione all’altra (prima le tartarughe, poi gli specchi ottocenteschi, le orchidee ed infine il porno telematico) il tema della delusione è completo e il film prende la piega di un lungo percorso verso la scoperta della vera gioia, della passione più profonda che possa cancellare anni di delusione e frustrazioni.
E così che, nonostante quanto Kaufman si proponesse all’inizio –ovvero che nessuno dei suoi personaggi imparasse qualcosa, evolvesse, si sentisse più vicino alla vita- il finale di Adaptation segue tutte queste direzioni e ritroviamo così la Orlean e Larouch che vivono la loro passione tra sesso e droga (e che porteranno al finale confuso tra le paludi della California che mescola tragedia e surrealismo) e un Charlie che ha saputo far pace con se stesso e con Donald, capace di vivere la propria vita, di concludere la sceneggiatura e di dichiararsi alla donna che ama.
Il sub plot in Adaptation riguarda quindi non solo il protagonista, ma la storia stessa, e ci viene mostrato esplicitamente in quanto è parte integrante della vicenda: senza il blocco dello scrittore, senza il successo di Essere John Malkovich, senza le proprie ansie e il senso di inadeguatezza che lo opprime Kaufman non avrebbe mai potuto scrivere Adaptation così come è stato scritto.
Per Eternal Sunshine of the Spotless Mind la rappresentazione del sub plot e quindi del protagonista è invece presentata in modo diverso.
Anche in questo caso abbiamo di fronte un personaggio principale schivo e timido, che non si espone e non riesce a lasciarsi andare, se non con riluttanza e difficoltà: Joel, interpretato magistralmente da Jim Carrey, è infatti il classico uomo normale -casa ordinaria, lavoro, amici…- sarà Clementine, e quindi l’amore, a spingerlo a migliorarsi, a tuffarsi finalmente senza paura nella vita. Ma il percorso per superare tutte le ansie di un timido non è così facile, e infatti sarà Clementine per prima a stancarsi e, con uno dei suoi tipici colpi di testa (vedi le improbabili tinte per capelli che prova) deciderà di lasciarlo e di cancellarlo letteralmente dalla sua vita.
E quando anche Joel decide di fare lo stesso -più per vendetta che per vera intenzione- l’azione e la storia si spostano all’interno della sua mente, tutte le sue paure, i suoi comportamenti, le insicurezze ci vengono chiariti e spiegati, mentre la sua voce che dialoga irrealmente con Clementine cerca di giustificarsi, di illuminare finalmente i suoi silenzi.
Ė dunque ogni suo ricordo, anche il più imbarazzante e nascosto ad identificarlo ed è proprio grazie al rivivere di questi che capisce di amare ancora, di voler serbare anche il ricordo più doloroso perché è questo a renderlo unico e ciò che è.
Eternal Sunshine of the Spotless Mind è un film che non parla quindi solo di una storia d’amore, ma che vuole dimostrare quanto importante sia il passato di ognuno di noi. E alla fine, non è la delusione, non è la vendetta, ma è l’amore a trionfare nuovamente, anche se, forse, non sarà per sempre.
Anche in questo caso, Kaufman, utilizza immagini e dialoghi per rendere l’azione.
La cancellazione dei ricordi di Joel -che avviene sia con metodi in-camera che in postproduzione- è stata descritta abilmente dagli espedienti stilistici del regista Michel Gondry: tutto attorno a Joel si sgretola, si frantuma, si cancella, i libri imbiancano, le auto precipitano dal cielo, i visi si offuscano. Un processo di decostruzione sta avvenendo, e le immagini ce lo mostrano poeticamente.
Gli stessi soliloqui di Joel mostrano questo disintegrarsi al ritroso nel suo passato, cercando di trovare un senso alla disintegrazione della sua vita e della storia con Clementine. Gli errori, i silenzi, le incomprensioni, le differenze gli saranno chiariti, e cercando di scusarsi e di spiegarsi con Clementine (o almeno con la Clementine dei suoi ricordi) riuscirà finalmente a condividere. Già dal primo giorno, quel giorno sulla spiaggia a Montauk, le cose potevano andare diversamente, potevano avere un inizio mentre ora è il loro addio.
Ma è proprio ricordando i momenti più belli, intimi e romantici come quelli di rabbia e litigi che Joel capirà l’importanza di conservare tali istanti e di amare ancora la sua Clem.
Mentre il tempo narrativo si adatta a quello dei suoi ricordi e alla facilità o meno dei tecnici della Lacuna Inc. di cancellarli, capiamo che è solo seguendoli man mano che l’inizio del film -quei poetici 18 minuti che portano Joel a Montauk- ci può divenire chiaro. Un accordo inconscio, il potere dell’amore, che fa ritrovare ciò che sembra ormai perduto.
Se già con Essere John Malkovich Kaufman aveva ambientato parte della storia all’interno della mente del protagonista -e la fuga attraverso i ricordi di Joel e Clementine ricorda molto l’inseguimento tra Cameron Diaz e Catherine Keener all’interno dell’inconscio di John Malkovich- in Eternal Sunshine questa scelta non è più un surreale quanto originale espediente narrativo, ma è parte stesso della trama che lì si svolge e da lì si dirama.
Adottandone i tempi, gli spazi e le visioni, la mente di Joel diventa un campo aperto per sperimentare e per rendere il film così visivamente unico.
Ma è con Synecdoche, New York che l’immersione nel personaggio si fa totale.
Il punto di vista nel film è quello di Caden, guardiamo il mondo solo attraverso i suoi occhi (salvo rare eccezioni come l’acquisto della casa incendiata da parte di Hazel) e ci troviamo questa volta all’interno non tanto della sua mente o dei suoi pensieri, ma della sua visione e della sua atemporalità.
Caden –componente limite della carrellata di protagonisti perdenti, timidi e asociali- ci viene presentato una mattina d’autunno mentre alla radio si recita la seguente poesia, che incarna alla perfezione il suo destino:
Chi non ha casa adesso non ne avrà mai una,
Chi è solo, resterà solo,
Si siederà, leggerà, scriverà lunghe lettere attraverso la sera
E passerà tra i viali su e giù senza sosta
Mentre le foglie secche vengono soffiate via.
Ė dunque in autunno che la storia inizia, la stagione che più si associa alla morte, l’inizio della fine, in cui i petali si staccano dalle rose, le giornate si fanno via via più corte e gli alberi iniziano a perdere le loro foglie.
La stagione non rappresenterà solo il lungo quanto breve percorso che Caden percorrerà nel film, ma la sua stessa visione delle cose. Affetto da ipocondria, il suo sembra più un malessere esistenziale nel non saper vivere la vita. Senza passione, senza veri slanci emotivi, senza più ispirazione artistica, così è la sua vita, ed è questo vuoto a renderlo inconsapevole del tempo, attimi come anni, e quindi del suo passato e del suo futuro.
Portato dalla paura e dall’ansia a consultare continuamente medici per ogni pretesto o la sua psicanalista interessata più a vendere libri che non ad ascoltarlo veramente, con un’inclinazione maniacale verso la pulizia che lo porterà ad entrare nell’appartamento dell’ex moglie e continuare per mesi a ripulirlo; Caden sembra essere il più problematico e depresso dei personaggi incontrati fin’ora.
Se Joel è comunque consapevole della propria timidezza e riesce a trovare come scoglio da cui riuscire a tuffarsi Clementine, se Craig è sospinto dalla passione per le marionette e da Maxine a migliorarsi mentre Charlie più da un dovere pubblico e dall’amore per Alice, a Caden sembra mancare prima di un qualcosa a cui appassionarsi, la passione in sé.
L’unico sentimento vero sembra essere quello per la figlia Olive, ma che, portata a Berlino con la madre e la nuova compagna Maria, ricorderà sempre come una bambina di 4 anni, nonostante lo scorrere del tempo e il successo di questa e del suo corpo.
L’unico amore, invece, quello per la bigliettaia Hazel ma che solo dopo un lungo percorso di dolore e scelte sbagliate arriverà a maturare e subito a perire.
Oltre a questo, un’apatia quasi assoluta: Philip Seymour Hoffman concede pochi sorrisi al suo Caden. Nemmeno il prestigioso premio McArthur assegnatogli a inizio film sarà salutato come un successo da festeggiare ma sarà invece fonte di stress, di paure ed ansie da prestazione per riuscire a dimostrare di esserselo meritato (un po’ come è stato Adaptation per Kaufman dopo Essere John Malkovich).
Il primo film di Kaufman regista è quindi completamente subordinato al suo protagonista, ai suoi tempi, ai suoi pensieri, alle sue fantasie.
E oltre a Caden, l’unica altra protagonista sembra essere -più della moglie Adele, più della seconda moglie e attrice Claire, più del suo vero grande amore Hazel- la sua opera, incompiuta e interminabile.
Il blocco dello scrittore verrà affrontato con la stessa originalità e genialità di Charlie, mettendo se stesso in scena con un attore che interpreta (e che inquietantemente lo pedina da sempre) la sua vita ancora una volta priva di filtri qualificanti. Un’opera così, che racconta ogni suo minimo e insignificante istante, non può che richiamare i laboratori teatrali degli anni ’70 (Grotowski in primis) e non può che concludersi con la morte del suo autore.
Autore e opera seguono quindi un percorso creativo indivisibile e che il malessere esistenziale del primo non fa che dilatare e annullare i riferimenti temporali. Ė solo grazie alle età dei suoi figli, alle sfuriate delle sue amanti che noi, e lui, veniamo a conoscenza degli anni trascorsi.
Entrambi procedono quasi senza sosta e senza vita, incessantemente. Non ci sono turning point ad effetto che sollevano e fanno proseguire in modo diverso la sceneggiatura, che continua così a fluire e a trascinarsi verso l’ultimo atto in cui ancora una volta è l’amore a dare un po’ di senso al tutto.
Solo con la morte di Hazel, che avviene quasi ironicamente quando finalmente sono riusciti a congiungersi e a vivere il loro amore, Caden capirà infatti che con il giorno più bello e significativo della sua vita si può concludere la sua opera e, dunque, la sua esistenza.

Come abbiamo visto, in questi film non è tanto il regista a mettere in luce il protagonista in modo così realistico, ma è lo stesso sceneggiatore che ancora in fase di scrittura lo rende tale.
Kaufman approfondisce ogni dettaglio psicologico delle sue creature, proprio come se fossero suoi figli, li studia, li analizza e da quelle che sono le loro paure e le loro ansie parte per raccontare la storia.
La trama è quindi subordinata al loro carattere, ciò che è conscio come inconscio non fa altro che far progredire la storia in una determinata direzione. Il tempo della narrazione è a loro adattato, ai loro ricordi, ai loro pensieri e noi stessi siamo immersi nel loro punto di vista. 
La particolarità di Kaufman che ne fa prima di un grande sceneggiatore e regista, un grande scrittore, è la capacità di conoscere alla perfezione ciò di cui vuole parlare. L’esercizio del “cerchio dell’esistenza” lui lo compone sotto gli occhi di noi spettatori, il sub plot acquista in questo modo più spessore del plot stesso ed è quindi grazie al suo genio che i suoi protagonisti diventano così unici e veri.
Prima degli attori, prima del regista, c’è, dunque, lo sceneggiatore.

Cinema come sineddoche della vita vera – La sottile linea che divide il reale dalla finzione

When you complicate things,
 that’s when things are more interesting.
Charlie Kaufman


Sembra che a Kaufman diverta complicare non solo la trama dei suoi film ma anche la loro realizzazione. Grazie agli elementi innovativi e a dir poco originali che da sempre introduce nei suoi lavori è riuscito a crearsi un nome nell’ambiente hollywoodiano, riuscendo a dar vita ad uno stile che va oltre al bizarre weird con cui inizialmente veniva etichettato.
Come già si è visto per l’attenzione psicologica dei suoi protagonisti e le loro caratteristiche fisiche e caratteriali, c’è uno schema comune a cui tutte le opere di Kaufman sembrano rifarsi e il più interessante è, almeno a mio parere, la presenza sempre manifesta del labile confine che divide realtà da finzione.
   Da un lato c’è l’interesse psicanalitico e l’ambientazione nei suoi personaggi a portare il film ad un doppio livello narrativo, il continuo entrare ed uscire dalla mente di John e di Joel in Essere John Malkovich e in Eternal Sunshine of the Spotless Mind rende non solo più soggettivo il risultato finale caratterizzandolo visivamente ma riesce anche a creare identificazione e conoscenza da parte del pubblico che viene così a comprendere ciò che muove e che pensa il suo beniamino.
In Essere John Malkovich a cambiare è poi anche il registro narrativo, quando Craig o Lotte entrano nella testa di John si passa infatti ad un’inquadratura soggettiva dagli occhi di Malkovich e attraverso l’uso della voce fuori campo vengono rese esplicite le sensazioni di chi lo possiede, portando quindi ad un doppio salto di livello: di ambientazione e di narrazione, appunto.
Già in Human Nature la narrazione assumeva un carattere di impossibilità con la storia raccontata anche dal punto di vista del Dottor Bronfman morto, immerso in una paradisiaca luce bianca. Il tono del film diventava quindi più surreale grazie a questo espediente, una classica intervista impossibile (sia per soggetto che per ambientazione) che faceva balzare il racconto dal bizzarro e strano, all’originale e personale, intravedendo la possibilità di svolgere il film in luoghi e scenari nuovi.
Ma è forse in Eternal Sunshine of the Spotless Mind che questo salto diventa ancora più significativo. La maggior parte della messa in scena è infatti costruita direttamente all’interno della mente di Joel, in cui seguiamo il processo di cancellazione dei suoi ricordi e il percorso a ritroso che la sua coscienza compie per capire di amare ancora Clem.
Nel binario accanto, invece, si alternano il lavoro dei cancellatori della Lacuna Inc. e la vita vera dopo la cancellazione (quasi un flash-forward), con i due immemori che inconsciamente si rincorrono, si conoscono e si piacciono ancora come fosse la prima volta.
Estremamente originale, questa doppia linea narrativa si sviluppa quindi al di là della trama su un tema che è quello dell’importanza del passato e della forza di questo, e che viene visivamente e poeticamente ricreata. Questo dividere in due livelli narrativi il procedere del film porta ad una concezione originale della narrazione, con intrecci e passaggi di tempo che portano lo spettatore a vivere attivamente la visione.
Per questi esempi si tratta quindi -più che di un confine tra reale e finzione- una separazione tra reale e possibile in cui gioca un ruolo primario l’ambientazione stessa delle scene.
   Dall’altro lato vi è invece un meccanismo più complesso che si incontra in molte sue opere e che porta l’opera stessa, la sua creazione e la sua messa in scena a prendere posto affianco al protagonista. Si può quindi arrivare a parlare di meta cinema o di meta teatro (per quanto riguarda la sua commedia Hope Leaves the Theatre del 2005), il parlare del cinema nel cinema, del teatro nel teatro svelandone quindi i meccanismi e i retroscena che lo caratterizzano in modo da rendere ancora più sottile quella linea che divide la realtà del quotidiano dalla finzione filmica.
Kaufman utilizza questo espediente diversamente da quanto fatto nel passato o nell’attuale presente, prediligendo la confusione e il bizzarro che l’inserimento della propria opera nell’opera crea.
In passato infatti nomi come Woody Allen e François Truffaut si sono cimentati in questa impresa.
Con La rosa purpurea del Cairo Allen ha voluto giocare sul ruolo che i beniamini di serie cinematografiche svolgevano nei primi anni del sonoro cinematografico. Con una sana dose di ironia, il regista si inventa un vero e proprio universo parallelo in cui gli attori recitano ad ogni proiezione dal vivo e in cui Tom -il protagonista del film del titolo- si innamora della casalinga disperata Cecilia ed esce dallo schermo per coronare il suo sogno d’amore finendo però per creare problemi non solo alla sua vita coniugale ma, soprattutto, anche alla casa produttrice del film e agli altri attori che rischiano il fallimento. Lo stile autoreferenziale di Allen si differenzia da quello pur sempre ironico ma più serioso dei film di Kaufman, se il primo infatti si basa più sulla trama, il secondo bada più al tema da seguire.
Con Effetto notte invece, ci si trova davanti ad una vera macchinazione di film dentro il film. Seguendo infatti la lavorazione di Je vous presente Pamela da parte dello stesso Truffaut nei panni del regista, si entra in un gioco di incastri che sembra avere come scopo finale il far vedere il dietro le quinte della lavorazione e della produzione di un film, di far entrare dunque lo spettatore in un mondo che gli sarebbe inaccessibile. L’intento, seppur con le dovute differenze, è simile a quello di Adaptation, anche se forse Kaufman lo ha fatto con scopi meno filantropi, considerando il suo inserimento nel film come l’unico modo per collegare tutte le vicende dei protagonisti al tema della delusione.
Ė principalmente negli ultimi anni invece, che sono stati prodotti film che si avvicinano molto più all’idea di meta cinema di Kaufman e che ne riprendono vagamente lo stile.
Uno è ad esempio Vero come la finzione, film del 2006 di Marc Forster. Il protagonista è Harold Crick, un uomo più che ordinario -e che assomiglia molto alla carrellata di protagonisti perdenti e stralunati di Kaufman- che inizia a sentire una voce fuori campo che narra ogni suo gesto e che si scoprirà appartenere -dopo episodi divertenti, ricerche approfondite e aver trovato l’amore- a Kay Eiffel, autrice in crisi alla ricerca del finale perfetto con cui farlo morire.
Lo stile, la voice-over onnisciente, il carattere del protagonista e il blocco dello scrittore. Tutti elementi facilmente riconducibili alla forma Kaufman, a partire dal titolo che diventa così un elogio della sottile linea che lo sceneggiatore si diverte ad attraversare.
Simile al suo stile è anche l’adattamento della piecè teatrale Happy Family di Alessandro Genovesi che Gabriele Salvatores ha portato al cinema nel 2010. Ci troviamo infatti di fronte ad uno sceneggiatore che molto ha di Kaufman, un po’ perdente un po’ (tanto) timido, in preda a crisi creativa sulla sua sceneggiatura.
Questa parla di due famiglie agli antipodi, i primi borghesi perfettini sotto le ali protettive di Fabrizio Bentivoglio, i secondi molto più alla mano capitanati da Diego Abatantuono. Con il pretesto del matrimonio dei due rispettivi figli sedicenni le due famiglie si incontrano e si scontrano con lo sceneggiatore a fare da inconsapevole spettatore. Ezio - Fabio de Luigi mette quindi se stesso in scena come protagonista, senza troppi filtri qualificativi e si pone come protagonista quando il sentimento verso la figlia maggiore dei primi pian piano si trasforma in amore.
Ma ancora una volta il vero protagonista è il film stesso e la sua realizzazione. Colpito dal più classico dei blocchi dello scrittore, Ezio non sa come proseguire la vicenda, ed è allora che gli stessi protagonisti interagiscono con lui –in modo molto pirandelliano- facendo valere i loro diritti di personaggi di proseguire verso l’happy end. Solo poi scopriremo che ogni dettaglio è una ripresa della vita del vero sceneggiatore, del suo amore platonico per la vicina di casa che forse grazie al transfert con il film si può realizzare. La linea che separa realtà da finzione è qui dunque molto più labile, vita vera come ispirazione e come modello filmico.
La vita di uno sceneggiatore non è dunque messa in secondo piano nel mondo del cinema, già con Il viale del tramonto si vedeva in questa professione un ché di interessante e di originale da raccontare e nei giorni nostri film che sono di piccolo culto come Sideways scelgono di mettere al centro più che lo sceneggiatore/scrittore stesso, la crisi che questo vive con il suo lavoro, il suo blocco e il modo quindi per riuscire a superarlo.
Un modo come un altro per avvicinare lo spettatore al mondo non poi così dorato del cinema.
Come detto Kaufman più che far entrare lo spettatore nel film, fa entrare la costruzione del film nel film e quindi nello spettatore.
Il suo passare dentro e fuori questo confine viene utilizzato per la costruzione della sceneggiatura stessa ed è la piccola costante riscontrabile in almeno tre dei suoi lavori.
In Adaptation la costruzione della sceneggiatura avviene infatti sotto i nostri occhi, Kaufman alterna momenti di crisi creativa e depressiva profonda a slanci di genialità produttiva che permettono il procedere della stesura.
Nonostante gli insegnamenti di McKee, le riflessioni del gemello Donald e la rilettura maniacale del romanzo della Orlean, Charlie non sa trovare il modo esatto per collegare tutte le vicende: quella della scrittrice, frustrata e disillusa che riscopre la passione osservando e ascoltando le disavventure di Larouch e quella di Larouch stesso, incapace di proseguire fino in fondo con una passione. Come collegare dunque questi disillusi? Come esprimere appieno il tema della delusione?
Solo varcando il confine con la realtà, mettendo se stesso in scena Kaufman non fa altro che collegare tutto, prendendo se stesso come punta estrema ed esemplare della delusione.
Ė quindi grazie a questa scelta che il film e l’adattamento prendono una piega surreale del tutto nuova, mostrando il dispositivo, il “dietro alle quinte” più che della realizzazione del vero e proprio pensamento dello svolgimento.
Ma la voglia canzonatoria di Kaufman non finisce qui. Nel film stesso si scontrano molti elementi reali –come le scene sul set di Essere John Malkovich, gli attori stessi del film che appaiono nei loro panni (Catherine Keener, John Malkovich e John Cusack)- a quelli surreali: Kaufman è invece interpretato da Nicolas Cage, il gemello Donald non esiste nella reale vita di Charlie e la stessa attribuzione a questi della sceneggiatura, come appare nei titoli di testa e di coda, è da prendere come un’ironica presa in giro.
Complicando le cose quindi, queste sono diventate più interessanti, sconfinando tra reale e finzione il film ha acquistato il tocco di originalità che sarebbe mancato ad una didascalica trasposizione in immagini delle parole della Orlean.
Sembra che questo elemento da qui in poi diventi caro allo sceneggiatore, e al suo ritorno nel 2005 al teatro -ritorno dopo gli studi universitari alla NYU- con Hope leaves the Theatre venga trasposto anche al palcoscenico.
Il dramma -rappresentato assieme a Sawbones dei fratelli Coen e ideato da Carter Burwell, il compositore della colonna sonora di Essere John Malkovich e di Adaptation- vede infatti in scena gli attori direttamente con il copione sotto mano, che leggono le loro battute come se stessero ancora provando mentre in sottofondo vi è una musica d’orchestra che ricorda i primi tempi dei radio plays. Oltre a noi, la spettatrice di questa prova è una donna di mezza età chiaramente depressa e un critico teatrale seduto al suo fianco. Entrambi ascoltano e guardano la coppia di attori recitare (o provare?) entrando ed uscendo dai loro personaggi. Mescolando le verità supposte, la donna finito lo spettacolo-prova torna tristemente a casa dove inizia una serie di incontri sessuali virtuali. La trama si fa dunque più confusa richiamando i precedenti lavori di Kaufman e Kaufman stesso.
Ancora una volta, comunque, un’opera nell’opera, la costruzione di questa in fase di prova che rende ancora effimero quel famoso confine: gli attori recitano le loro prove o stanno realmente provando? La donna chi è? Rappresenta noi come pubblico?
Si dice che sono i dubbi che un lavoro -sia esso filmico, teatrale o scritto- fa sorgere a delineare la sua grandezza. Kaufman conosce questo meccanismo psicologico e fa in modo di non dare le risposte, nemmeno alle conferenze stampa: << Una cosa che credo molto piacevole e preziosa a proposito dell’esperienza di essere spettatore è il cercare di decifrare la trama. Quando riesci a creare una connessione, questa è tua, e ciò da soddisfazione.>>
Questa sua affermazione sembra ben aderire al suo ultimo progetto, Synecdoche, New York in cui elementi bizzarri e surreali -la casa incendiata e il diario della figlia che continua a registrarne i pensieri seppure lei ormai viva a Berlino- si scontrano con il clima cupo e angoscioso che la vita di Caden emana.
Siamo di fronte questa a volta alla vita stessa che entra nell’opera e che ci porta quindi a confondere più che mai la realtà dalla finzione.
Dopo aver meritatamente vinto il premio McArthur, Caden cerca infatti di scrivere e mettere in scena una piecè degna del prestigioso riconoscimento. Ancora una volta quindi pressioni esterne ed interne, una crisi creativa difficile da gestire mentre attorno a sé tutto si sgretola e il senso di inadeguatezza si fa sempre più forte.
Ma quale può essere l’opera più grandiosa, quella più significativa e perfettamente sceneggiata se non la vita vera?
Così la rappresentazione non solo degli ambienti in cui Caden si è mosso e si muove, ma anche di se stesso e di chiunque ha incontrato viene messa in scena creando un incastro a matrioska in cui tutto ciò che abbiamo già visto, lì lo ritroviamo. L’opera è in fase di costruzione, cambia ogni giorno (si veda le diverse indicazioni che Caden dà allo scenografo) e viene arricchita dall’esperienza quotidiana: l’abbandono delle due mogli, il tentato suicidio, l’amore non corrisposto con Hazel, la surreale pulizia dell’appartamento di Adele… tutta la sua vita viene riprodotta, ogni persona diventa un personaggio, ogni luogo un’ambientazione.
Caden è il primo dunque a superare il confine che dalla realtà passa alla finzione, la sua vita sembra migliore se vista da spettatore, fino a quando capisce di non aver mai diretto la sua vita, lasciandosi condurre incessantemente dal flusso degli eventi, incapace di amare veramente una donna, con lo sguardo perennemente assorto al passato e verso se stesso e alla sua immaginaria malattia non è degno più di essere nemmeno il regista dell’opera e viene relegato al ruolo della donna delle pulizie dell’appartamento -ma è mai esistita veramente?- di Adele, ruolo che più gli si addice e che più lo incarna.
Solo lasciandosi finalmente guidare capisce che è arrivato il momento di lasciarsi andare, riesce quindi a dichiararsi ad Hazel e a vivere il loro amore anche se per una sola breve notte, il momento più felice della sua vita che conclude quindi il suo lungo lavoro e, forse, la sua vita stessa.
Calvino disse:
Il senso ultimo a cui rimandano tutti i racconti ha due facce: la continuità della vita e l’inevitabilità della morte.

Synecdoche, New York rappresenta alla perfezione entrambe queste facce.
Dunque, se Caden decide volontariamente di confondere le idee allestendo uno spettacolo che non è altro che la sua vita, le nostre sono più colpite dalla mancanza di riferimenti temporali che fa pensare ad una storia flusso di coscienza in stile James Joyce o Virginia Woolf.
Il continuo varcare il confine del reale in modo tanto netto quanto manifesto ricorda molto il mondo onirico.
Sono interessato ai sogni e come ci raccontiamo storie nei sogni. Lasciatemi chiaramente dire che questo film non è un sogno -dichiara a proposito di Synecdoche, New York- ma ha una logica simile a quella dei sogni.
Puoi iniziare a volare in un sogno e nel sogno questo è solo “Oh, sì, posso volare!” non è la reazione che avresti nel mondo vero. Quindi tutto quello che accade nel film dev’essere preso come valore nominale, è semplicemente quello che sta succedendo. Va bene, non è quello che accadrebbe nella vita reale – ma è un film.

Come nei sogni quindi, Kaufman è consapevole di osare e di puntare su elementi surreali e non ammissibili nella realtà, ma è proprio questo che a lui piace e che gli riesce così bene.
Complicare le cose fa dunque parte della sua filosofia, riesce a catturare lo spettatore, a fargli porre domande per cui il film visto verrà ricordato.
Può benissimo essere etichettata come una scelta di marketing ma è invece una scelta stilistica grazie a cui lo sceneggiatore ha potuto fare strada già nel mondo televisivo –le sue sceneggiature hanno infatti da subito interessato i produttori per il loro carattere innovativo.
Lo stile Kaufman si costruisce prima di tutto a livello narrativo, creando una sovrapposizione di voci e di livelli che daranno il tocco in più alla trama: è così che riesce infatti a scombinare e ad aggirare il rigido schema del paradigma in tre atti, più punti di vista, più ambientazioni, meno razionalità.
Se da una parte vi è questa confusione dall’altra vi è invece la perfezione della messa in scena, costruendo l’azione in modo chiaro e portandola visivamente sullo schermo seconda una logica che possa essere percepita come veritiera. 
I ricordi di Joel, la vita di Charlie, il punto di vista di John e del Dottor Bronfman, tutto appare semplicemente reale proprio grazie alla sapienza dei registi di immaginare il loro immaginario, a quella degli attori di sapersi muovere nell’ambiente fantastico della mente del proprio personaggio ma prima di tutto grazie allo sceneggiatore che ha predisposto tutte queste facilitazioni.
Ancora una volta dunque è lo sceneggiatore che permette al film di prendere la strana piega surreale che il varcare il confine comporta.
Se le complicazioni fanno parte della trama da lui scritta, la capacità del regista di saperle mettere in scena deriva dalla logicità che queste devono avere col tutto. Si tratta di scelte consapevoli che servono a rincorrere e presentare il tema che il film sorregge e che si può ricondurre solo ed esclusivamente a Kaufman.
Come già visto i personaggi dei suoi lavori hanno molto della sua personalità, dei suoi pregi e dei suoi difetti, anche per questo la rappresentazione dei loro pensieri, del loro inconscio viene resa così bene sia a livello di sceneggiatura che di messa in scena.
Oltre a questo c’è però da considerare la fervida immaginazione che Kaufman possiede, la sua voglia di sperimentare e di trovare il punto di originalità necessario, un punto che dopo il grande successo di Essere John Malkovich si è spinto sempre più in là.
Il tocco personale, questo confondere realtà e finzione, varcando continuamente il labile confine che separa questi due mondi così diversi tra loro può quindi essere dato solo da lui, dallo sceneggiatore, e tutto ciò che viene dopo (riprese, scenografia, interpretazione, effetti speciali) può essere inserito solo in funzione di quanto è già stato scritto.
<<I do my work. I live a quiet life, and I write. That’s it. If my imagination is particularly rich, that’s a positive thing.>>


Adattarsi a Charlie Kaufman – I film attraverso il rapporto con i registi


   Un film è un’opera collettiva, avida di apporti e di
contributi diversi, a volte anche in conflitto tra loro.
 La sceneggiatura –dopo l’idea, il soggetto- è uno di questi contributi.
Il decisivo.
Age

   Lo stile Charlie Kaufman non potrebbe essere quello che è senza che questi nel suo cammino di sceneggiatore incontrasse registi innovativi e originali come Spike Jonze e Michel Gondry.
Il fatto che entrambi provengano dall’underground di grandi città (Rockville il primo, Versailles il secondo) e che il loro curriculum –prima di questo incontro- si rifacesse quasi esclusivamente a video musicali per band emergenti e della scena indie non è un caso.
   I due fanno infatti parte della nuova generazione di registi (vedi appendice) che prima di approdare al grande schermo ha rivoluzionato i canoni estetici dei clip musicali e degli spot pubblicitari, utilizzando tecniche low-fi per sopperire alla mancanza di denaro delle produzioni. L’inventiva è quindi il loro contrassegno, e si accompagna alla voglia di sperimentare e di stupire.
Le campagne pubblicitarie di Jonze sono già dei cult, come i video surreali e tecnicamente avanzati di Gondry. Servivano dunque due menti così aperte e pronte a mettersi in gioco per portare sullo schermo le visionarie sceneggiature di Kaufman.
   Ma è grazie alla natura dello stile di Kaufman che questo sposalizio avviene così ben. Il suo modo di narrare ha infatti molto dello stile indipendente che esplode negli anni ’90 grazie a registi come Wes Anderson, Sofia Coppola & Co. L’autoreferenzialità, l’ironia, il gusto per il surreale e il fantastico, lo sconfinare tra generi diversi… tutto questo è Kaufman, e nonostante i suoi film siano grosse produzioni cinematografiche di altrettanto grosse case produttrici il suo stile rimane comunque unico e indipendente da pressioni esterne, o quasi.
   In Adaptation vi è difatti una rappresentazione non poi così simbolica del mondo dorato di Hollywood, mondo che a Charlie sembra stare stretto e che, dopo la notorietà improvvisa dovuta al successo di Essere John Malkovich e le aspettative di manager e produttori conseguenti, lo portano al limite della depressione e della frustrazione.
Adaptation è però il film che più è stato svenduto al mondo commerciale. Nonostante infatti le ricchezze e le particolarità dello stile, il terzo atto appare come un grosso compromesso che Kaufman ha dovuto pagare per inserire il guru McKee nella sceneggiatura.

Se c’è del divertimento allora interpreterò questo cattivo per lui, ma a delle condizioni… primo, devo dare la mia opinione sul cast. Secondo, il terzo atto fa schifo e non posso essere un personaggio in un brutto film. Terzo, voglio la mia scena di redenzione.

   E così il terzo atto sembra scritto più dall’anima commerciale di Donald che non da quella artistica e libera di Charlie.
Ma a parte questa eccezione, Kaufman ha da sempre voluto aver la propria indipendenza sia in fase di scrittura che di realizzazione. Il suo lavoro non finiva infatti con la conclusione della stesura del copione ma continuava durante le riprese e la post produzione, a sostegno dei registi -con cui confrontare idee e metodi- e degli attori. Come detto infatti tutti i protagonisti delle sue opere racchiudono scorci autobiografici e chi meglio di Charlie poteva spiegar loro come comportarsi?
<<Non c’era niente di intellettuale nella creazione delle performance. Tutte queste cose venivano discusse assieme e create con gli attori.>>
   La sua immersione in un progetto è così totale.
E questa può ben essere intesa confrontando il lavoro finale di Confessions of a dangerous mind con il resto del suo percorso.
Il film di George Clooney, pur avendo in sé molti degli aspetti cari a Kaufman (la scissione della personalità, un protagonista perdente e sfortunato, un confine non così netto che divide realtà da finzione) manca di quel certo non so ché che caratterizza tutti gli altri lavori.
Questo perché Clooney, a differenza di Jonze e Gondry, non ha mai voluto incontrare lo sceneggiatore per uno scambio di opinioni e ha riscritto buona parte della sceneggiatura senza consultare Kaufman in proposito.
Ciò ha spinto lo sceneggiatore a dichiarare di non sentirsi legato al film.
   Tutto sta quindi nel suo metodo di lavoro. Kaufman parla infatti sempre e solo delle cose che conosce, delle verità che possiede e dei paradossi che esistono nell’esistenza e nei film commerciali: se vuoi raggiungere il tuo obiettivo, l’amore, la strada è lunga e complicata ma poi il lieto fine arriva.
Il mio obiettivo nei miei lavori è di mostrare tutti questi paradossi, perché credo che in questo paradosso ci sia vita. Questo è il mio lavoro, almeno a questo punto, parla solo di questo. È complicato, sai? La vita è maledettamente complicata! Molti registi non sono d’accordo con questo. Vogliono tacere la loro idea per l’uso di massa. Ascolta, non credo sia una coincidenza che i film siano una forma d’arte che utilizza delle lenti. I registi sono gli occhi della società. Noi osserviamo e riflettiamo. Abbiamo bisogno di mostrare quello che è sbagliato e doloroso. Ma una visione veritiera è totale; deve mostrare anche tutte le dannate speranze e bellezze del mondo.

   In un lavoro tanto personale la partecipazione ad esso dall’inizio alla fine è dunque inevitabile. Gli stessi registi hanno capito che per realizzare al meglio la sceneggiatura dovevano prima capire quello che Kaufman voleva rappresentare, il tema dunque, non solo la trama.
La sua narrativa bizzarra e barocca porta i registi a dover sperimentare nuovi metodi per la realizzazione degli espedienti narrativi surreali inseriti nella trama. L’esperienza di Jonze e Gondry ha permesso che questi non venissero snaturati da effetti speciali troppo sofisticati ma con scelte a basso costo o addirittura direttamente in-camera donassero loro una natura artistica ancora maggiore. Così è successo infatti per le scene di cancellazione dei ricordi di Joel in Eternal Sunshine e per le fughe all’interno del subconscio di John in Essere John Malkovich.

   Come visto dunque la collaborazione è indispensabile per la buona riuscita del finale. Ma questo non esclude che pubblico e critica non abbiano da ridire.
A differenza del debutto cinematografico di Jonze (considerato il film dell’anno e il capostipite dell’American New Wave), quello di Gondry è stato infatti un insuccesso, ma piano piano anche Human Nature ha saputo catturare un piccolo ma assiduo gruppo di interessati che vede nella bizzarra storia di riabilitazione di Lila e Puff un seguito di Malkovich.
   Le collaborazioni con i due registi sono poi proseguite rispettivamente con Adaptation ed Eternal Sunshine, ma l’arcano del particolarismo di tutti questi film è stato svelato quando entrambi si sono staccati da Kaufman per produrre e scrivere i loro film.
   Gondry ha perpetuato la strada del surrealismo e del fantastico con la storia ampiamente autobiografica de L’Arte del Sogno, in cui il protagonista sembra essere uscito dalla penna di Charlie ma che nel suo percorso verso la maturazione non ha la stessa forza espressiva e poetica di Joel o di Craig. Per quanto riguarda Be Kind Rewind invece, l’omaggio al cinema è toccante ma il tutto assume poi l’aria di un fastidioso pastiche in cui si cerca di inserire fin troppi elementi bizzarri per stupire e rendersi originali.
   Maggior fortuna, almeno di botteghino, ha invece avuto Jonze che con Where the Wild Things Are ha adattato il celebre romanzo per bambini di Maurice Sendaks. Qui la storia ha più corpo, vi è un cammino in salita che il giovane protagonista compie e che, nonostante gli elementi fantastici, aderisce bene alla realtà.
Nonostante questi loro tiepidi successi, si è capito dunque che il vero fattore x di tutti i film precedenti era da attribuire allo sceneggiatore più che ai registi. Perché Kaufman si differenzia dal resto degli sceneggiatori non solo per il suo stile surreale e bizzarro ma soprattutto per il modo in cui affronta e prende parte al suo lavoro:
L’abitudine per uno scrittore è di consegnare una sceneggiatura e poi sparire. Questo non fa per me. Io voglio essere coinvolto dall’inizio alla fine. E questi registi [Jonze e Gondry] lo sanno e lo rispettano.

   Ma perché i suoi lavori sono così autobiografici e personali? Perché Kaufman va sempre a finire a parlare di Kaufman? La risposta sta nello scopo espresso prima (vedi nota 4): parlando di ciò che si conosce, della verità si arriva a capire che non c’è verità più grande di se stessi, non c’è conoscenza maggiore se non di sé. Tutte le sue idee vanno quindi a raggiungere questo obiettivo che serve qualcosa di emozionale.
E, ad esempio di questo, è curioso vedere come le prime idee dei suoi film siano poi state svolte in modo completamento diverso: Essere John Malkovich doveva infatti parlare di un uomo che capisce di non amare più sua moglie; Human Nature delle relazioni, dei rapporti amorosi; Synecdoche, New York doveva essere un film horror.
Se poi ognuno di questi titoli si sia sviluppato in modo talmente originale e personale è dunque merito di quanto fatto in fase di scrittura. Ogni idea è dunque già scritta, o quasi, ed è proprio per questo quasi, per vedere se ci sono ancora dei miglioramenti da fare che Kaufman vuole essere coinvolto.
Questo coinvolgimento gli permette di imparare e di servirsi dei metodi di lavoro dei suoi amici registi, ed è infatti con Synecdoche, New York che arriva il momento del grande passo, di mettersi per la prima volta dietro la macchina da presa e di dirigere.
Jonze, a cui la sceneggiatura era stata proposta, era impegnato con Where the Wild Things Are e la fretta di mettere in scena la sua sceneggiatura lo ha portato a compiere questo salto.
Così il grande passo ma, a detta di Kaufman:

Sono uno scrittore, prima di tutto e principalmente… ma se ci penso, devo dire che sono un regista prima di tutto e principalmente. E come regista, devo considerare di prendere la visione dal suo inizio alla sua fine. Forse questo è l’unico modo per soddisfare le promesse delle mie sceneggiature. Ciò non significa che non valuto il lavoro dei registi con cui ho collaborato. Lo faccio. Loro sono stati maledettamente meravigliosi. Ma ho bisogno di portare il resto di me stesso da solo alla luce. E lo farò. 

E la sua esperienza di regista è sicuramente un successo e le dichiarazioni dei suoi amici non lasciano dubbi:

Per me, Charlie potrebbe benissimo essere stato regista da tutta la vita. Non c’è mai stato un attimo in cui lui non avesse capito cosa significhi conversare con gli attori o il direttore della fotografia o con chiunque altro –ha detto Philip Seymour Hoffman- in un modo che chiarisse una situazione o aiutasse. Pensava sempre a quale fosse la cosa che doveva accadere, ha sempre avuto empatia per gli sforzi che ognuno affrontava.

E anche per Spike Jonze <<É sembrato non solo naturale ma inevitabile che Charlie diventasse regista ad un certo punto.>>
Per scriverlo Kaufman ha voluto rischiare davanti a critica e pubblico, ma il rischio in questo caso riguardava solamente le sue capacità di regista, non certo quelle di scrittore.
   Synecdoche, New York vuole quindi essere un horror che non affronta le classiche cose che fanno paura al cinema, ma ciò che spaventa davvero nella vita reale (la malattia, la solitudine , la perdita degli affetti, la morte).
Anche per questi temi personali Synecdoche può essere considerato il film più autobiografico di Kaufman –più di Adaptation anche- e che più lo rispecchia in quanto ha potuto seguire il processo di realizzazione veramente dal suo incipit al suo finale e che sembra rappresentare il suo modo di intendere un film, in cui sembra non succedere nulla, o che almeno quanto succede modifichi poco la percezione e il modo di sentire di Caden, in cui la vita scorre senza troppi mutamenti, un giorno dietro l’altro, come nella realtà.
Nessuno meglio di lui poteva quindi dirigere un film talmente Kaufmaniano.
Non so dire precisamente il motivo, ma trovo che il film che ho ricavato da questa esperienza priva di collaborazioni sia davvero molto vicino all’idea che avevo in mente fin dall’inizio. Per questo mi piacerebbe avere di nuovo l’opportunità di scrivere e dirigere i miei film. Il lavoro di regista è molto diverso da quello a cui sono abituato: mi sento ancora un novellino nel lato pratico, nella gestione delle risorse, nella direzione degli attori, ma è un’esperienza che mi ha affascinato e vorrei ripeterla nei miei lavori futuri.
    Si può dire quindi che lo stile Kaufman non sarebbe quello che è se non avesse scelto di collaborare con Jonze, Gondry o con se stesso.
Affidare infatti il proprio lavoro a degli sconosciuti non è mai una scelta facile e si può ben comprendere per un’artista come Kaufman il seguire ogni sviluppo della sua opera fosse fondamentale.
Anche qui ci troviamo quindi di fonte ad una scelta stilistica che va riportata esclusivamente allo sceneggiatore, sia per quanto riguarda a chi affidare la realizzazione della propria sceneggiatura sia per quella di seguirne lo sviluppo in modo da sopperire a mancanze e aiutare nel bisogno.
Si crea quindi una sorta di transfert con la propria opera: se nei suoi protagonisti molto c’è di lui, Kaufman non può abbandonare questo se stesso alla conclusione della stesura.
Questo metodo di lavoro è l’unico che egli intende per decretare la buona riuscita del prodotto finale, senza che questo venga snaturato dai suoi intenti iniziali.

Conclusione

   Nel mondo cinematografico di oggi è consuetudine la divisione dei ruoli. Il regista dirige la troupe, sceglie il cast assieme ai produttori; l’attore interpreta e caratterizza il proprio personaggio; il fotografo si occupa delle inquadrature da tenere e della luce da adottare; il produttore decide e investe nel progetto; lo sceneggiatore, infine, scrive trama e intrecci della storia.
Ma fortunatamente non è sempre così tutto ermeticamente deciso.
   E Kaufman rappresenta una delle più speciali eccezioni a questo sistema.
Il suo lavoro infatti non solo non finisce con la conclusione della stesura della sceneggiatura proseguendo così anche nella fase di ripresa e montaggio, ma ha anche inizio in modo indipendente, solitamente da un’idea propria (fanno eccezione Adaptation, in quanto adattamento, e Eternal Sunshine la cui idea originaria è di un amico di Gondry) su cui concentra la sua attenzione alla ricerca del giusto sviluppo.

Qualche volta lavoro su delle fonti, come mi è successo con Adaptation, molto più spesso su delle idee e sulle identità dei personaggi che racconto, ma generalmente non penso mai a cosa un film dovrebbe essere o su dove deve andare a finire, perché preferisco che il processo di scrittura e la storia stessa mi porti verso un finale che si trovi quasi da solo, senza che io possa deciderlo. […] Non ho un metodo, sono sempre molto insicuro quando inizio una nuova storia e mi ci vuole un po’ per tranquillizzarmi. È più produttivo aspettare piuttosto che cercare o forzare un’idea che non c’è.
Kaufman si differenzia totalmente dunque da molti dei sceneggiatori che affollano Hollywood e che sono solo macchine da scrivere pronte ad adattare, rivedere, scrivere e passare ad altro. Ogni sua opera è un’opera e per questo attaccamento non solo emotivo, ma soprattutto artistico, Kaufman rimane dall’inizio alla fine dentro alla produzione. Charlie è strettamente legato ad ogni suo lavoro, perché questi non fanno altro che parlare di lui, della sue ansie, delle sue paure.
   Come può dunque uno sceneggiatore così autoreferenziale non dover seguire ogni sviluppo di questi suoi figli, di parte di se stesso?
Come sceneggiatore si pone dunque il compito di dirigere l’attore, di fargli intuire ciò che il personaggio rappresenta con quell’empatia che Hoffman gli ha riconosciuto; aiuta il regista e da lui si lascia aiutare per la rappresentazione visiva delle sue visionarie idee; grazie alle sue sceneggiature dettagliate poi anche il lavoro del direttore della fotografia viene facilitato.
   Lo sceneggiatore diventa così nei suoi lavori non solo colui che si occupa della trama e del suo sviluppo: costruendo dei personaggi a tutto tondo, con una profondità psicologica importante e visibile, scegliendo il genere da affrontare, modificandolo e sconfinando e scegliendo infine i collaboratori di cui avvalersi per la realizzazione del tutto Kaufman diventa l’autore principale dei suoi film.
Il suo pensiero visivo totale diventa l’unico referente per la realizzazione del lavoro.

   È comunque e soprattutto il suo stile a renderlo unico.
E non solo per le storie surreali e semplicemente complicate che scrive ma per i punti analizzati in questa tesi: l’attenzione psicologica profonda con cui presenta i personaggi, mettendo in primo piano i pensieri più delle parole, e la scelta di non sottostare alle leggi classiche dei generi cinematografici, sconfinando tra il fantastico, l’horror metafisico, le commedie romantiche e i drammi e creando così un effetto che sta tra realtà e finzione e che in questi due poli si muove.
Kaufman è per questo definibile un artista innovativo, originale e comunicativo che nel processo di scrittura si libera di ansie e paure.
Normalmente comincio prendendo in considerazione un tema ampio, universale, come appunto l’invecchiamento o l’amore o la ricerca o l’identità. Poi mi prendo un periodo per analizzarlo e sfaccettarlo il più possibile, in modo che la gente abbia voglia di ripensare al film e, perché no, tornare a vederlo. […] Cerco di creare qualcosa che contenga l’idea della vita nella sua globalità.

Cosa posso dirvi a proposito del processo di scrittura di una sceneggiatura? Forse solo che siete soli in questo. Prendete ispirazione da dove la trovate. Non so nemmeno cosa significhi questo. Ispirazione? Cosa diavolo è l’ispirazione, in ogni caso? Voi vi sedete e aspettate. È tutto quello che faccio. Mi siedo e aspetto. Non so che cosa. Che le cose migliorino?

   Kaufman è quindi artista completo, sceneggiatore e regista il cui strumento principale rimane la propria mente pericolosa grazie alla quale è Autore.

Dunque, <<Chi è Kaufman?!?>>

"Sono solo un insignificante ragazzo che vuole essere significativo. Voglio essere amato e adorato. Voglio che le donne pensino che sono sexy. E anche gli uomini. Andrebbe bene lo stesso. Voglio che chiunque pensi che sono brillante. E voglio che tutti pensino che non m’interessa niente di queste cose. Ecco. Chi sono."