Steve McQueen non è certo nuovo ad argomenti spinosi.
Con il suo esordio nel lungometraggio cinematografico (Hunger) aveva dato vita alle parole e agli atti di protesta degli indipendentisti irlandesi, focalizzandosi sul martire Bobby Sands. Con ancora Fassbender e il suo corpo protagonista (Shame) ha poi parlato in modo poetico e artistico della dipendenza dal sesso, facendone uscire un film discusso ma per nulla discutibile.
Alla sua terza prova, si lascia avvincere da una sceneggiatura più narrativa raccontando la lunga epopea di Solomon Northup, uomo di colore libero che passò 12 anni in schiavitù sotto diversi padroni per essersi affidato alle persone sbagliate, e non avere nessuno a cui apporre la sua fiducia.
Il tema della schiavitù, come quello degli uomini di colore, è ormai sempre più presente nella filmografia americana, che cerca così di demonizzare il suo passato facendo ammenda.
E così fa anche McQueen che mettendo in scena tutte le crudeltà, tutte le barbarie e la mancanza di diritti che milioni di persone hanno dovuto subire per anni, dà voce a storie silenziose, a persone trattate come bestie. Nel farlo dilata i tempi, non solo della narrazione (che si fa fiume, con 134 minuti di racconto) ma anche di queste torture, soffermandosi sulla pelle martoriata, sulle piaghe, sulle punizioni facendo patire allo stesso pubblico quel dolore. Ma il tutto è permeato anche dal naturale occhio artistico del regista, che riesce con pochi movimenti di macchina, con inquadrature incisive (vedasi gli schiavi stipati come in una scatoletta di sardine) a dare respiro e poesia a una storia dove la tragedia si sente ad ogni passo.
La vita di Solomon è infatti costellata dai vari padroni che lo possiedono, dalle loro mogli, dagli altri schiavi con cui fa amicizia, ma a nessuno di loro è facile dare fiducia, una fiducia che potrebbe costargli o salvargli la vita e che arriverà solo dopo 12, lunghissimi, anni.
A dare corpo e voce a Solomon c'è un intenso Chiwetel Ejiofor a cui fanno fianco attori in stato di grazia come la candidata agli Oscar Lupita Nyong'o, che si immergono nella pazzia dei loro personaggi (Fassbender e Paul Dano su tutti) o nel loro alone salvifico (un imbruttito Brad Pitt e un debole Benedict Cumberbatch).
Da aggiungere poi a queste interpretazioni da brividi, c'è anche una colonna sonora che spazia dai canti folk a composizioni di Hans Zimmer che fanno da contrappunto alle scene più emozionanti.
Con tutti questi lati positivi al suo scudo, perchè allora le parole per 12 anni schiavo non sono più entusiastiche?
Difficile dirlo, forse la pesantezza generale che nemmeno la poesia della natura riesce del tutto a sollevare, forse la sensazione di impotenza di fronte ai soprusi e all'ingiustizia che Solomon subisce per tutti quegli anni, rende noi spettatori dei testimoni che non possono intervenire, che possono solo cercare di capire e di imparare.
E quando l'emozione bussa alla porta, con Solomon finalmente libero e di ritorno alla sua famiglia, le parole ne annullano la grandezza, lasciando inermi e quasi spossati.
E questo è un lato negativo?
Forse.
Perché se Tarantino ha fatto centro parlando degli stessi temi con ironia e sangue, qui il tutto prende una piega che va' oltre il drammatico, che va' verso una realtà difficile da comprendere ma a cui manca quella compattezza che renderebbe il tutto più soggettivamente unico.