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19 marzo 2017

La Domenica Scrivo - Linguaggi

"Esistono talune persone che una volta diventate adulte, dimenticano quanto sia terribile il compito di imparare a leggere.
Trattasi forse del più grande sforzo cui un essere umano possa accingersi, e deve essere compiuto da bambini, L'adulto riesce di rado nell'impresa: la riduzione dell'esperienza a una serie di simboli. Per mille volte mille anni gli uomini sono stati analfabeti e hanno imparato questo trucco -questa magia- soltanto negli ultimi diecimila anni dei mille volte mille."

Io non sono fra questi.
Non ricordo il terribile compito di decifrare parole, segni, scritti alla lavagna o ovunque attorno a me, ma ricordo la magia di saperli decifrare, non dimentico la bellezza che sta nell'avere finalmente la chiave di accesso ad un mondo diverso.
Mi chiedo, però, come fossero quegli anni -pochi- in cui questa chiave non l'abbiamo, in cui a quello che ci circonda, manca qualcosa.
Lo vedo oggi, negli occhi di quei miei cuginetti che imparano a leggere, che sanno decifrare fieramente lo stampatello, per ora, ma non il corsivo, in quella che è una doppia difficoltà.
E mi chiedo, come sempre, chi l'ha inventato questo codice? chi l'ha deciso quell'alfabeto che va poi a comporre il mondo delle parole?
Esiste qualcuno da imputare, accusare, per le strane forme fatte, per quella S sibillina, quella O tonda tonda, quella T precisa precisa?
Chi si è messo, un giorno, a dire: "Meglio mettere tutto in ordine, meglio scrivere, sì, segnare con inchiostro, sangue, linfa, fango, quanto si va raccontando"?



Mi guardo attorno, poi, e trovo altri linguaggi, altri codici, che non posso decifrare.
E non parlo di altri alfabeti, di altre lingue, di cirillico, di greco, di giapponese o cinese che "no, -han detto- non ci stiamo", o forse semplicemente hanno avuto qualcun altro che si è imposto, che è arrivato prima, e ha registrano, catalogato, pensieri e racconti così, in quei segni a noi -o almeno a chi non ha studiato russo o greco- indecifrabili.
Gli altri linguaggi di cui parlo sono anche quelli accessibili con lo studio, ma come dice Steinbeck più sopra, compiere lo sforzo di imparare a leggere da adulti, è un'impresa in cui pochi riescono.
Guardo alle formule matematiche, e provo invidia non solo per chi riesce a risolverle, ma verso chi ci trova una legge, una regola, che regola il mondo, applicabile per dipingere una cucina, per dire, fino a riportare a casa un uomo dallo spazio, come viene mostrato ne Il diritto di contare.
Poi c'è la musica, quella musica che ci provano, da bambini, a insegnarci, sbagliando forse metodo, forse strumento -il flauto dolce- per ammaliarci.
Quei punti, quei svolazzi, imprigionati fra cinque righe, che corrono, saltellano, si rincorrono... quanto vorrei vederli, tutti nel loro insieme, e sentire la melodia formarsi nella mia testa, quanto vorrei saperla leggere la musica, e non aver bisogno di un'orchestra, di uno strumento, a tradurmela, avere la chiave io, di persona, e godermela quella musica nel mio silenzio, in un ossimoro pieno di poesia.

Ci sono poi i pazzi veri, quelli che il loro linguaggio, il loro codice, se lo creano.
E non parlo di file criptati, di quei tentativi un po' banali ma pieni di entusiasmo fatti da bambini per confidare segreti e redarre diari comuni.
No.
Parlo di chi decide di inventarla di sana pianta una lingua.
Come i Sigur Ros, e il loro hopelandic, contaminato sì dall'islandese, ma comunque nuovo, perchè lo sapevano, loro, che la loro musica aveva bisogno di altro, che quell'alfabeto occidentale andava stretto.
O come Otmar Gutmann, il creatore del cartoon Pingu, in cui in realtà non esiste un vero e proprio linguaggio, esistono suoni, onomatopee, becchi che si fanno megafoni e che divertono i più piccoli, ma che allo stesso tempo, li formano, li educano.
Grammelot, si chiama, ed è in realtà uno strumento recitativo: non servono parole, bastano suoni, e per comprenderlo, quel che basta è guardare, aspettare, lasciar scorrere le immagini e i secondi, così la comprensione diventa intuitiva, il bambino sviluppa le sue capacità intellettive.

Infine, ancora una volta, mi imbatto nella poesia tra le pagine di Vanity Fair, in quelle liste che Baricco continua a comporre.
Questa volta parla di mappe, di un museo, addirittura, che raccoglie mappe da tutto il mondo.
Anche qui, si parla di segni, di codici, messi nero su bianco per fare ordine, per mettere un punto e per poter andare avanti.
Tra le tante mappe presenti, le più belle arrivano da lontano, arrivano dalle Isole Marshall, dalla Micronesia.
Non sono fatte d'inchiostro, non sono fatte di disegni, ma di semplici bastoncini di legno, e di conchiglie, imprigionate in un'intelaiatura.
Mostrano il mare.
Lo riducono a due semplici segni, quei legnetti come onde, quelle conchiglie come isole.
Decifrarle, è quasi impossibile.
Perché ogni navigatore dell'isola si costruisce la propria, con il proprio linguaggio, il proprio metodo, la propria memoria. Solo lui lo sa leggere, solo lui lo sa codificare. Copiare, non è possibile, si rischia il naufragio, non si ha la chiave, l'esperienza, per farlo.
Ma è bellissimo pensare che tutto, anche l'ignoto, il profondo, il complicato mare, può essere ridotto a due semplici segni, a una linea e a un punto, che ci permettono di leggerlo, di capirlo, di solcarlo e navigarlo.

L'introduzione virgolettata è trattata dalla premessa de
 "Le gesta di re Artù..." di John Steinbeck di cui ho parlato QUI
L'articolo bellissimo di Baricco lo potete leggere QUI

4 commenti:

  1. Riflessioni interessanti su quel gran mistero che è il linguaggio.
    I Sigur Ros, è vero, se ne sono inventati uno loro, e c'è da dire che gli è uscito piuttosto bene, almeno a sentirli. :)

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    1. Il loro poi oltre che essere una lingua è anche una musica, insomma, ci stanno doppiamente bene in questo post sul linguaggio :)

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  2. nel leggerti mi è venuto in mente il mio approccio coi libri... ovviamente non ricordo minimamente come imparai a leggere, ma ricordo bene la SuperMamma, seduta sul mio letto, mentre mi legge un libro, insegnando a me e a mia sorella, ad amarne altri mille...

    per me leggere è un verbo d'amore, di sentimento puro

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    1. Bellissimo ricordo, davvero, e bellissime parole: hai pienamente ragione, una casa piena di libri è una casa piena d'amore.

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