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5 settembre 2019

Venezia 76 - Un Divano a Tunisi | Blanco en Blanco | Psycosia | Saturday Fiction

Anche oggi si va di carrellata in breve di quanto visto in questi ultimi giorni di Festival. Tra inaspettata leggerezza e qualche confusione di troppo.

Un Divano a Tunisi
Le commedie faticano sempre a trovare spazio alla Mostra. Da qualche anno si batte per questa causa La Giornata degli Autori, con il suo direttore consapevole che leggerezza non significa certo superficialità. La prova sta tutta in questo Divano a Tunisi.



Selma è una bellissima donna che ritorna in quella Tunisi abbandonata da bambina. Torna e tutti si chiedono perché. Perché ha abbandonato Parigi, il bel mondo, per cercare di aprire un studio di psicologa qui, in una città piena di problemi in cui nessuno vuole parlare? La risposta è già nella domanda, ma Selma deve fare fronte a una famiglia che rema contro, a pazienti particolari e a un poliziotto ligio che senza un certificato non vuole lasciarla lavorare. Lo scontro con la diffidenza e la burocrazia è inevitabile, ma serve  far fare qualche sana risata, a godere della bellezza di Golshifteh Farahani e di una colonna sonora italiana che fa la differenza.
Sì, è una commedia leggera, a tratti quasi innocua e con un umorismo non immediato, ma non è banale, e soprattutto ha un finale romanticamente splendido.

Blanco en Blanco



Un fotografo è chiamato a immortalare le nozze tra un padrone misterioso e una sposa bambina. Se questa ha un'aura che fa invaghire, lo sposo non si mostra. Assente, prepotente, costringe quel fotografo ad aspettare e nel mentre aiutare i suoi uomini in quello che diventerà il genocidio degli indiani d'America, scrupolosamente redatto e fotografato.
Sì, il film è anche più pesante della sua descrizione, fatto di ambienti bui e gelidi, di personaggi viscidi e sporchi, di lunghi silenzi e lunghe scene.
Sì, Alfredo Castro come sempre respinge, e il film si fa presto dimenticare, per fortuna.

Psykosia



Dalla Danimarca un film sui suicidi.
Un film su un'esperta di suicidi chiamata ad aiutare una paziente che vuole farla finita. Ma che la trascinerà nel suo vortice di follia. Senza nemmeno troppa fatica.
Si potrebbero celebrare il tris di protagoniste per i loro gesti, i loro sguardi, per un'alchimia che si sente, come si potrebbe elogiare la regia che mescola l'arte e le soluzioni diverse per avanzare nel racconto.
Ma la verità è che questo freddo dramma danese non solo è intuibile dal primo minuto ma con tutta la sua ricercata artisticità finisce per assopire e irritare. Ancora una volta.

Saturday Fiction



Bisogna essere onesti: non è facile seguire/capire il film di Lou Ye. Si parla di una pagina di storia lontana geograficamente e poco conosciuta, si sovrappongono livelli e si confondono i tanti personaggi.
Si parla di doppi giochi, di spie e di coperture, con un'attrice che torna a Shangai per lavorare con l'ex amante ma che è in realtà al soldo dell'Asse per carpire informazioni ai giapponesi che tengono in ostaggio l'ex marito. Si parla di padri che tornano, di amori sbocciano, di allieve sia sul palco che negli intrighi.
Se Gong Li in tutta la sua malinconica bellezza si staglia nella fotografia in bianco e nero meritando tutta l'attenzione, questa cala inesorabilmente, non riuscendo a stare dietro ai passaggi fuori e dentro il teatro, e le indagini in corso.
La carneficina finale resta elegante nonostante il tanto sangue versato, ma uscirne convinti è davvero difficile.

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