Pagine

13 maggio 2020

La Terra dell'Abbastanza

Ho un cruccio che ancora fatico a digerire.
Era il 2015, a Venezia veniva presentato Non essere cattivo, e io che Claudio Caligari non lo avevo mai sentito, io che non mi ero fatta convincere dalle parole di Valerio Mastandrea, ho preferito dormire quell'ora in più.
Almeno per un giorno.
Almeno per quel giorno.
Che tanto i film italiani escono sicuri in Italia, avrei potuto recuperare.
Dicevo fra me e me.
L'entusiasmo generale, la sancita nascita di due star come Alessandro Borghi e Luca Marinelli mi hanno fatto rodere non poco.
Ma ho aspettato, paziente, la sua uscita in sala.
Ho chiesto scusa al signor Caligari, andandomi a recuperare i suoi unici altri lavori (Amore Tossico e L'odore della notte) arrivando al cinema di fiducia preparata, capendo gli omaggi e le citazioni a se stesso.
Innamorandomi di quel film, piangendo calde lacrime.
A Venezia sono riuscita a chiedere scusa lo scorso settembre, presentandomi in quella piccola sala che ospitava la proiezione del documentario Se c'è un aldilà sono fottuto, che racconta la vita, i progetti, i film realizzati da Caligari, concentrandosi sull'ultimo, incompiuto ma poi terminato.
E vedendo per la prima volta quella Sala Grande in piedi 4 anni prima, ad applaudire un regista che non c'era più, una madre che teneva duro, c'ho pianto ancora. E tanto.



Ora, ho un altro cruccio.
Quello di non aver visto in sala, di aver tentennato, posticipato e rimandato, la visione de La Terra dell'Abbastanza.
Colpa mia, come sempre.
Che vivo di pregiudizi verso il cinema italiano, verso quei film ambientati nelle periferie, che raccontano le storie degli ultimi e che inevitabilmente mi mettono addosso un senso di pesantezza, mostrandomi tutta quella bruttezza, che mi respinge.
Questo cruccio si somma al fatto di non poter vedere Favolacce, il secondo film dei fratelli D'Innocenzo, su grande schermo, quando a Berlino non l'ho messo in calendario per far posto a quei titoli più difficili da reperire.
Che tanto i film italiani escono sicuri in Italia, avrei potuto recuperare.
Dicevo fra me e me.
Ma questa è una storia per domani.


Oggi conosco finalmente Mirko e Manolo.
Amici per la pelle, quasi fratelli, che condividono sogni e speranze per un futuro nella ristorazione, un presente in cui mancano i soldi, manca la stabilità, ma che li vede ridere e scherzare finché tutto cambia.
Investono qualcuno, un uomo, un pentito.
E quella che sembra una disgrazia, agli occhi del padre di Manolo è la possibilità di svoltare: entrare nelle grazie del clan dei Pantano, fare i sicari, i lavori sporchi, la bassa manovalanza per loro.
Guadagnare, finalmente.
Rispetto e denaro.
Anche se il primo, in un mondo sporco che lo sporco te lo butta in faccia, è difficile da trovare.
A rimetterci è l'amicizia, con Manolo ormai freddo e spietato, con Mirco invidioso e inizialmente titubante, a voler proteggere una madre che non sa come proteggere lui.
O forse no, forse questi ragazzi che non s'accontentano, che riflettono troppo, non mostrano davvero le loro carte, le loro emozioni.
Gridano nella notte, gridano dietro sguardi spenti.
E nessuno li ascolta.
E loro non ascoltano.


Sono la prima ad accusare certo cinema italiano di raccontare sempre storie di mafia, di camorra, di clan. Di mostrare periferie imbruttite, case fatiscenti, famiglie alla sbando. E giovani che cercano come possono di restare a galla.
Sono la prima "leggermente" stanca di certi racconti, distanti dai miei canoni estetici e pure d'interesse.
Ma devo fare mea culpa, devo chiedere scusa anche ai Fratelli D'Innocenzo, perché il loro sguardo riesce a illuminare Andrea Carpenzano e Matteo Olivetti e il mondo in cui si muovono, riesce a rendere diverso questo racconto non fuori dal comune, quasi fosse già tristemente noto. Con quel finale troncato in fretta e di proposito a rendere il tutto più difficile da digerire.
A Mirco e Manolo ci si affeziona, a loro e al loro romanaccio ingombrante come fossero dei nuovi Cesare e Vittorio.
E si riesce pure a rivalutare Max Tortora, se non è un complimento questo!
Chiedo scusa, allora, e aspetto di sentire le loro Favolacce.

Voto: ☕☕½/5


6 commenti:

  1. Sapevo io, ero certo che ti sarebbe piaciuto (forse perché vicino al cinema americano?), comunque sul cinema italiano pregiudizi anch'io, però in certi casi bisogna avere fiducia nel nostro cinema, che quando vuole e può è grande ;)

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Più che sul cinema italiano in generale, sulle storie di mafia/camorra e periferia. C'è altro da raccontare, e invece sembra il nostro chiodo fisso. Per fortuna in mezzo a questi racconti c'è chi si distingue, ho fatto bene ad ascoltarti ;)

      Elimina
  2. Video al Festival di Flaviano qualche anno fa. Mi aveva incantato la regia, bellissima, ma alla solita storia di provincia e criminalità avevo storto il naso. Nonostante lo sguardo fresco.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Di queste storie devo prenderne a piccole dosi o mi stanco anch'io, qui fortunatamente c'è lo sguardo fresco e intelligente a fare la differenza.

      Elimina
  3. Questa passione dei D'Innocenzo per Max Tortora non se spiega. :)
    Però guardando questo film magari mi ricrederò su di lui...
    La visione di Favolacce m'ha incuriosito abbastanza anche nei confronti de La terra dell'abbastanza.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Sembra un altro mondo, anche se le vite tristi e il bisogno di riscatto sono simili.
      Strano ma vero, gli preferisco questo.
      Tortora per fortuna nelle loro mani si trasforma.

      Elimina