Once Upon a Time -1998-
Sono passati 15 anni da quell'esordio, da quell’Amore Tossico che faceva presagire una nuova voce nel cinema italiano, capace di raccontare lo sbando di una gioventù, entrarci dentro, tanto da creare un film neorealista quando il neorealismo sembrava ormai passato.
E invece, appunto, di anni ne sono passati 15.
In mezzo tante idee, tanti progetti, tante sceneggiature, via via però infrante, naufragati, chiuse in un cassetto.
Finché una di quelle idee, uno di quei progetti, una di quelle sceneggiature, prende inaspettatamente il volo, prende vita, e Claudio Caligari torna sul set, torna a dirigere nella sua Roma, nelle sue borgate.
Niente droga questa volta, bandita a professionisti che devono essere lucidi, niente attori di strada, niente neorealismo: ci si ispira a quel cinema americano tanto amato da Caligari, omaggiando il suo Martino Scorsese, immergendoci in notti di cui davvero si sente l’odore.
Sono le notti di poveri diavoli alla ricerca di denaro, che rubano e rapinano senza sensi di colpa, che si muovono in branco, in auto, alla ricerca della prossima vittima.
Dalla loro periferia popolare, al centro della Roma bene, dove inseguire madame ingioiellate, mariti in abito elegante, e privarli di tutto quello che hanno: pellicce, ori, denaro, tutto quello che poi il ricettatore di turno può rimettere su mercato.
A muoverli è solo in parte il bisogno di soldi per mantenersi, a muovere Remo, è il senso di sfida, di onnipotenza, e così il gioco si fa più duro, la sua tecnica diventa più collaudata, come la ricerca del partner giusto, e dalla strada, le rapine passano agli appartamenti, con quei borghesi legati e zittiti ad assistere e aiutare i malviventi.
Sono notti difficili, in cui Remo si ritrova preso dentro un giro inarrestabile, con il lavoro, non amato, di poliziotto che lo richiama al nord, salvo poi farsi espellere e ricominciare di nuovo, sempre più audace. Troppo.
Queste notti ce le racconta lui, ci fa da voce guida, ci mette in mostra tutta la sua coscienza ma anche l’incoscienza, e così facendo Caligari si ispira anche ai noir francesi, oltre che americani, esaltando al massimo quella faccia proletaria di un grandissimo Valerio Mastandrea, che passa dal comico al drammatico guadagnandoci: non solo per la carriera, ma anche per la vita, conoscendo e amando come pochi quel regista che gli ha dato fiducia.
A completare il cast sono degli altrettanto inediti Marco Giallini e Giorgio Tirabassi, con una comparsata di Little Tony che stempera quell'atmosfera tesa e buia che sa passare dal serio al grottesco.
Insieme danno vita a un film decisamente maschile, solido, che dimostra ancora una volta tutta l’abilità di un regista che sa tirare fuori il meglio dai suoi attori, e che non si sa se sa usare meglio la penna (che confeziona una sceneggiatura compatta e avvincente) o la macchina da presa (con carrelli e movimenti sapienti).
Ma a quanto pare non basta dimostrarsi ancora una volta abile, una voce fuori dal coro, che nel periodo delle commedie e dei drammi, strizza l’occhio oltreoceano.
Non basta, si diceva, perché di anni per vedere nuovamente Caligari su un set, ne passeranno troppi.
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