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4 settembre 2020

Venezia 77 - Final Account | Quo Vadis, Aida

Final Account

Parlare dell'Olocausto al cinema è sempre rischioso.
Il rischio è quello di ripetersi, di saturare un argomento andandolo a raccontare con pietismo e moralità giusto per la Giornata della Memoria. 
Per avere attenzione, per smuovere davvero, bisogna avere l'idea giusta, l'angolazione giusta. 
Prendiamo Jojo Rabbit che campeggia qui sopra, con Taika Waititi a mostrare con un'ironia volutamente stridente cosa significa crescere nel mezzo di un ideologismo estremo. 
Il documentario di Luke Holland parte da un'idea simile. 



Dal 2008 il regista, i cui nonni sono stati sterminati in un campo di concentramento, incontra e intervista non i sopravvissuti a quei campi, ma chi in quei campi lavorava. Guardie, SS, giovani hitleriani. 
Cerca tramite loro di capire come è potuto succedere, di chi sono le colpe. 
I racconti pur noti sono quelli che riescono sempre a smuovere, raccontati da chi li ha visti, da chi li ha vissuti. Fumi densi e dolciastri che impestavano l'aria, affamati che si nascondevano nelle stalle. 
Ma tutti scaricano le loro colpe. 
Tutti hanno fatto pace con la loro coscienza: era il periodo storico, era la pressione sociale, era così. 
Non ero un nazista. 
Ma ero un SS. 
Esiguivo gli ordini. 
Scavando, proseguendo con le domande, la verità viene a galla. E lo vedi il senso di colpa, la pace che non c'è, il nazismo che c'è ancora, dietro gli occhi di questi anziani ora inermi. 
C'è chi va a parlare nelle scuole e si scontra con neonazisti, c'è chi rifarebbe tutto. 
Pure loro sono stati marchiati, un tatuaggio più discreto e a suo modo utile (il gruppo sanguigno), pure loro non possono dimenticare. 
Le loro parole che fanno male e devono essere riportate, registrate e ricordate è l'approccio che mancava, che serviva, per non dimenticare questa pagina di Storia. 
Così si perdona il didascalico di Holland nel riportare numeri e cifre che saranno sempre poca cosa rispetto a questo tipo di testimonianze. 


Questo Vadis, Aida? 

Ce lo si chiedeva proprio quassù: com'è possibile che nessuno si sia opposto, che un genocidio sia stato perpetrato senza che nessuno muovesse un dito? 
La stessa domanda la si poteva porre nel 1994, in Bosnia. 
In quella guerra che sembra già dimenticata, ma che troppo poco è stata raccontata. 
A porci rimedio è Jasmila Zbanic che ci mostra una piccola pagina di Storia che sarà ora impossibile dimenticare. 
Quella di Srebrenica piccolo paesino considerato zona sicura e protetto dall'Onu che viene prima occupato dai serbi e poi epurato. 
L'Onu proprio come il popolo tedesco, si attiene alle regole. 
Tratta, consegna, se ne va. 
Niente può l'insegnante e traduttrice Aida contro la burocrazia, lei che cerca di salvare almeno la sua famiglia, che ce la mette tutta per imporsi e nasconderli. 


Se il film si svolge fra corse e traduzioni, fra situazioni che sembrano paradossali e hanno solo 30 anni, l'ultima parte è una stoccata difficile da digerire. 
In un presente in cui le cicatrici si nascondono e gli appartamenti si ammodernano, Aida torna a casa. 
Trattenere lacrime di rabbia e dolore è impossibile per una guerra combattuta oltre l'Adriatico, in cui chi doveva portare la pace e la sicurezza ha voltato le spalle. 
Quo Vadis, Aida? è così il film da vedere per non dimenticare la storia più recente che non doveva e non dovrà ripetersi.

4 commenti:

  1. Ciao Lisa.
    Sono il genere di film che scuote molto la mia curiosità.
    Concordo con te quando scrivi che quando si affrontano questi temi bisogna stare attenti a non cadere nel facile pietismo da giornata della memoria.
    Mi ricordano molto i film di Oppenheimer sul genocidio Indonesiano del 1965 e quello di Pahn invece su quello Cambogiano ,raccontati sia dal punto di vista dagli assassini che da quello delle vittime.
    Le prospettive si invertono anche se il risultato purtroppo non cambia e credo , spero manco il nostro personale giudizio.

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    1. Ciao Max!
      Oppenheimer è un chiaro riferimento al documentario di Holland, vedere queste vecchie guardie realizzare finalmente senza maschere quello che hanno fatto e prenderne coscienza vale tutto il dolore che si prova.
      Così, questo tipo di cinema, ha un suo senso altissimo.

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  2. Visioni belle toste, mi sa.
    Riguardo al primo, dopo che l'hai accostato a Jojo Rabbit, un po' mi hai incuriosito.

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    1. Jojo Rabbit resta di un altro -più ironico, più dolce- livello. Qui la visione non è leggera ma di certo non appesantisce.

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