In ritardo che qui o si è in sala o si prenotano le visoni successive, arriva in formato diario raggruppato il rendiconto di quanto di bello visto fin'ora al Lido.
E di bellezza, ce n'è davvero tanta.
Madres Paralelas
Ad Almodóvar si vuole sempre bene.
Ma questa volta ammetto che non tutto mi è tornato. Ci sono due storie in Madres Paralelas, e non corrono parallele. C'è una gravidanza comune, fra due donne diverse, che si incrociano, e c'è uno scavo sulla storia sanguinolenta della Spagna, che occupa l'inizio e il finale di questo nuovo film.
Nel mezzo, c'è Penelope Cruz.
In tutta la sua bellezza, in tutta la sua intensità.
Madre single, nipote devota, amica fedele e pure qualcosa di più. La sua Janis ha deciso di tenerlo il bambino che aspetta, anche se il padre non vuole fare parte del quadro. Anche Ana è sola, una madre che mette la carriera davanti alla gravidanza di una figlia minorenne, come può aiutarla? Seguiamo il loro rapporto, nascere, crescere ed evolvere in modo naturale e sensuale, fino a scoppiare. Ed è lì che si torna a parlare dello scavo di una fossa comune, di un passato che può rimarginare le ferite presenti.
Le due storie, però, assieme non funzionano, tra punti deboli, necessari ambienti svuotati dalla vita che Almodóvar solitamente imprime per esigenze pandemiche.
Non ci si affeziona troppo a questo film, forse più sbrigativo, meno sentito del solito. O sarà che arriva dopo quel gioiellino di Dolor Y Gloria che ancora commuove.
The power of the dog
Me lo dico sempre: o il libro, o il film.
Questa volta ho fatto un'eccezione. Perché il libro era incensato e consigliato, perché il film aveva un cast notevole, a partire da Jane Campion alla regia passando per un cast che vede protagonisti Benedict Cumberbatch, Jesse Plemons e Kirsten Dunst.
Come resistere?
Ma spezzare il mio credo ha portato male, perché pur condensato in 2 ore, il film manca del respiro, della solidità, che il romanzo di Savage aveva.
Diviso in brevi capitoli che fanno intuire il difficile rapporto fra fratelli così diversi, un Phil gelido, saccente e supponente contro un più umano George, che si sposa di nascosto, che porta in quella casa che era un santuario per soli uomini una moglie che teme Phil, un figliastro che si fa uomo, proprio per difendere la madre.
La storia, la conoscevo.
Anche se i punti di vista qui vengono tagliati e selezionati, lasciando la bontà di George da parte, lasciando la storia di Rose ai margini per concentrarsi su quello che passi speronati, fischi e suonate di banjo possono fare ai nervi di una donna, all'atmosfera claustrofobica di una casa all'apparenza così grande e accogliente.
La resa, però, fa la differenza.
Con un ranch e la natura che lo attornia a togliere il fiato, con mani ruvide, tagliate, dettagli, che si imprimono.
Anche se certe scene per sottolineare il sottinteso del testo, rischiano di essere così intense da sfumare nell'eccessivo.
La Campion nel suo primo film maschile trova un Cumberbatch che si staglia sul resto del cast, riuscendo a risultare credibile, lui così British, nei panni di un cowboy tutto d'un pezzo, che grida, che osserva soprattutto. A dargli del filo da torcere una Dunst provata che con uno sguardo fa sentire quello che prova, i brividi, la fragilità, il senso di smarrimento. Ma è quando tutto si carica sul giovane Kodi Smit-McPhee che la storia prende un nuovo respiro, che gli indizi disseminati in modo a tratti forzato prendono un senso.
Non pienamente soddisfatta, mi rendo conto che a parlare è la me che il romanzo di Savage lo ha amato e immaginato in modo diverso, il coro di voci manca, e un punto di vista oggettivo per me risulta impossibile.
È stata la mano di Dio
Come si fa a descrivere un'altra Grande Bellezza?
Una bellezza diversa, poi,
quella che non ti aspetti da un Sorrentino che cambia marcia e stile, che mette da parte la colonna sonora ingombrante, facendo parlare i suoi personaggi in una sceneggiatura densa di scherzi e battute.
È un Sorrentino più intimo questo, un Sorrentino più personale che racconta la sua storia, ricamandola quanto basta, infarcendola di personaggi felliniani pieni di vita.
Vita, sì, prima che la morte incomba lasciando orfano il protagonista, proprio come orfano lo è Sorrentino che con un notevole coraggio dà vita alla morte dei genitori. Trattenere le lacrime è impossibile, per un Fabietto che cerca la sua strada, che sogna il cinema, che si muove in una Napoli dove Maradona è il Dio che l'ha salvato.
In un cast dove Toni Servillo non manca è gigioneggia come solo lui sa fare, in cui Luisa Ranieri mozza il fiato senza problemi, è il giovane Filippo Scotti che si imprime, a fare il verso, quello giusto, al Chalamet di Guadagnino in un finale poetico sulle note di un altro napoletano DOC.
Si ride, si piange, si inneggia alla vita, si supera la morte, si dichiara amore al cinema, capace anche di questa magia.
Cosa chiedere di più ad un film?
Un'altra grande bellezza ci è stata regalata.
Les Promesses
Siamo in quella Parigi di periferia, fatta di case-casermoni e di corruzione.
Siamo nel mondo della politica, quella delle promesse da fare, da mantenere, da tradire.
Siamo al seguito di una sindaca che in due mandati non è riuscita a risolvere il problema di uno di questi condomini-casermoni, sfruttato da chi sfrutta migranti affidandogli pochi metri quadri a prezzi esorbitanti, mal tenuto, mai curato, da responsabili irresponsabili.
Un progetto c'è.
Ma per farlo approvare serve combattere e scendere a compromessi. Con i piani alti della politica e con piani inferiori di quei condomini. In una corsa contro il tempo in cui buoni e cattivi si confondono.
Potrebbe essere una versione minore e francese di House of Cards.
Dove non c'è la corsa alla Presidenza in gioco ma l'elezione a sindaco, dove Isabelle Huppert è una donna agguerrita, che si riscopre assetata di potere nonostante gli ideali sbandierati, e dove il suo numero due, capo dello staff, è la parte umana, integra, a darle sostegno o a voltarle le spalle una volta che cade. E sì, Reda Kateb con la sua presenza scenica riesce a mettere in ombra perfino la Huppert. In questo gioco di potere, di accordi e cambi di piano, la tensione non manca.
Ma una certa freddezza è innegabile a fare di Les Promesses un film che non brilla per il lato tecnico (pure la fotografia gelida non aiuta) ma che almeno regala un bel finale, lieto in parte, con cui far pace.
A me, di Grande bellezza, m'è ampiamente bastata la prima.
RispondiEliminaQuesta ha un piglio diverso, meno sorrentiniano, che potrebbe farti far pace con Sorrentino 😉
EliminaI primi tre, assolutamente, con tante attesa soprattutto per Sorrentino!
RispondiEliminaSorrentino è già in vetta alla mia classifica, non piangevo così da un po'.
EliminaIo aspetto Almodovar e Jane Campion, dato che sono due dei miei registi preferiti
RispondiEliminaTra Netflix e uscita in sala, dovrebbero arrivare a breve!
EliminaSorrentino si conferma un grande regista.
RispondiEliminaUltimamente ho visto *L'amico di famiglia (2006)* con una splendida Laura Chiatti.
Credo sia l'unico suo che ancora mi manca, ora non ho più scuse per recuperarlo.
Elimina