Pagine

11 dicembre 2021

The Beatles: Get Back

Andiamo al Cinema su Disney+

Le vedreste mai 60 ore di prove di un gruppo chiamato a comporre un album in due settimane?
Le ascoltereste mai 150 ore di registrazione di tentativi, errori, prove e riprove, discorsi e conversazioni, battute e battibecchi di quattro amici musicisti?
No?
Sicuri?
E, allora, le vedreste mai 8 ore sapientemente montate che riassumono e tengono il meglio di queste ore di girato e di registrato, a raccontare la fine della band più grande di sempre -i Beatles-, a mostrare come certi capolavori sono nati, l'alchimia ma anche gli screzi tra loro?
Se Get Back vi ha già folgorato, rispondereste come me: vedrei anche il resto delle 52 ore!
Se avete ancora dei dubbi, ricredetevi.


Perché quella che per anni è stata la balena bianca del mondo musicale, un materiale conservato in attesa di vedere la luce dopo il breve documentario Let It Be che Michael Lindsay-Hogg ha realizzato con lo stesso materiale a disposizione e da lui girato nel 1970, ora è disponibile.
Peter Jackson c'ha messo 4 anni a districarsi e ha impegnato il suo lockdown a farne più di un semplice film, uscendosene con una miniserie in tre episodi dalla lunghezza monumentale di 150 minuti circa ognuno, in cui la Disney per la prima volta ha accettato di tenere profanazioni e parolacce.


Se l'impresa spaventa, assicuro che i 468 minuti totali passano in un istante.
Sì, una volta schierati, una volta capiti i protagonisti, sembra proprio di essere lì con loro, a cercare pure di aiutarli a trovare la parola giusta, il cognome giusto, l'accordo o l'attacco.
E lo dice una che un tempo alla fatidica domanda "Beatles o Rolling Stones?" rispondeva decisa: "Stones!", per poi crescere, passare dai tumulti dell'adolescenza alla poesia essenziale e perfetta che i Fab Four hanno creato, pur apprezzando anche la fase giovanile da boyband e quella più psichedelica.
Li ritrovo qui, senza quindi conoscerli come i veri fan da sempre, ma con la voglia di riscoprirli.


C'è Paul, leader nel bene e nel male, compositore impressionante, collante e un tutt'uno con John.
C'è John che spezza la tensione, la noia, con battute, vocine e vocioni, e sì, c'è Yoko Ono perennemente al suo fianco, ombra silenziosa impossibile da non notare.
C'è Ringo, che scherza con le telecamera e con la figliastra di Paul, che osserva, si butta, sempre indietro, ma mai risentito.
E infine c'è George, il mio George. 
Il Beatles che preferisco, quello della Something che preferisco fra tutte (anche se domani potrebbe essere Across the Universe, e quello dopo Let It Be, e ancora Hey Jude...) quello più spirituale, quello più risentito pure, che capisce di poter dare di più, che non ci sta più.
Ci sta ancora però, torna dopo una breve pausa che lascia sotto shock, anche se la ferita non si rimarginerà facilmente.


E poi ci sono i momenti da brivido.
C'è il riff di Get Back che nasce e conquista, ci sono le cover proprie e altrui come un gioco, c'è la prima prova di Let It Be a emozionare presentata con un semplice "ho scritto questo l'altra sera", c'è infine quel concerto, l'ultimo dei Beatles, sopra un tetto fra le strade di Londra, con i fortunati a fermarsi, a vederli, a salire sui tetti vicini. 
E la polizia a fare irruzione, con un Paul che se la ride e diventa ancora più affascinante, George, il mio George, che riaccende il suo amplificatore.


Li vedi, li segui, per 8 ore.
E alla fine ti sembra di essere stata in quell'enorme e inutile studio ai Twickenham Film Studios, e poi in quella fumosa stanza verde della Apple Records, in cui un Billy Preston passava di lì e si ritrova a suonare in quell'album, in quel concerto.
Sono registrazioni grezze, a cui Peter Jackson dà forma, monta e screma, grazie anche ad un restauro magnifico, soprattutto, tessendo per noi una storia, regalandoci i momenti migliori. 
Ma la sensazione, sui titoli di coda che scorrono veloci, e che ce ne siano molti altri ancora da scoprire all'interno di 21 giorni appena.


L'album della fine, quello che ho in casa e che risuona da giorni sul vinile, ha ora una magia in più.
Non suona come quelle registrazioni, prodotto com'è stato poi da Phil Spector visto che solo nel 2006 Paul lo ha riportato all'origine, denudandolo di cori ed effetti.
Ora, lo ha fatto per noi anche Peter Jackson, regalandoci l'impossibile: una macchina del tempo e il potere dell'invisibilità, la possibilità di assistere a prove, a creazioni, alla nascita di capolavori assieme a quattro, vecchi, amici.


Voto: ☕☕☕☕/5

6 commenti:

  1. Beatles o Stones? Io da sempre Beatles.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Una parte di ke apprezzerà sempre il rock degli Stones, ma ora risponderò senza indugi e per sempre Beatles, visto anche questo documentario.

      Elimina
  2. L'entusiasmo aveva preso pure me, all'inizio, poi la noia purtroppo ha prevalso. Per ora sono ancora fermo a metà visione. Fosse stato per me, avrei ridotto tutto a un episodio di un'ora. C'è da dire che Peter Jackson avrà tanti pregi, ma non il dono della sintesi. E poi è proprio fissato con le trilogie. XD

    RispondiElimina
    Risposte
    1. C'è da apprezzare il fatto che Peter Jackson abbia ridotto 60 ore a circa 8, un lavoro di sintesi non male per uno come lui.

      Il secondo episodio è un po' uno spartiacque, ma l'ultimo con l'intero concerto si fa vedere senza pause, vedrai 😉

      Elimina
  3. Lunghetto sì, ma è comunque tutto molto interessante ;)

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Io ci ho perso la testa, continuo a pensarci e ad ascoltarli!

      Elimina