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11 febbraio 2022

Gli occhi di Tammy Faye

Andiamo al Cinema

Li guardi gli occhi di Tammy Faye e ti ci perdi dentro.
Intorno, meglio.
Così carichi di trucco, così sotterrati da ciglia finte, mascara, ombretto e eyeliner permanente.
Li guardi, e ti chiedi: cosa nascondono?
Nascondono davvero una fede incrollabile, che la mette in comunicazione con Dio, così tanto da farle trovare l'amore, il marito ideale, da professare la sua fede on the road e sotto tendoni provvisori e infine, attraverso un canale televisivo?
O nascondono una donna che sa quello che vuole: l'amore, appunto, che mai ha ricevuto da una madre che di lei si vergogna -simbolo indelebile di un divorzio com'è- un marito, ma solo per poter consumare quell'amore senza peccare, e poi il volere un marito forte accanto, soddisfatto, in grado di battere i vecchi cialtroni predicatori, fondare una sua trasmissione, un suo canale, costruire un suo impero?


Ma li guardi meglio, e quegli occhi camuffati nascondono anche ferite: nell'orgoglio, per anni di distanza coniugale e di tradimenti, per una madre che sempre la giudica e non la ammira nonostante i successi raggiunti.
L'amore, allora, Tammy lo ritrova nel suo pubblico, quello che intrattiene e che stimola, per cui parla di fede, sì, ma anche di metodi contro la disfunzione erettile, e sì, pure di AIDS e di omosessualità, che se Dio ci ha creato a sua immagine, come può sbagliare quando si parla di amore?
Tammy Faye è tutto questo: una contraddizione di fede e di messaggio, di contenuto e forma.
Diverso è il marito, prevedibile nelle sue mosse omofobiche, nel suo perpetrare frodi, nel suo orgoglio agli occhi dei grandi della Chiesa, che predica per ricevere denaro, che mostra la sua Tammy come una statuina per spremere ancora più soldi.
Da devolvere?
Non solo. 
Da tenere, da usare.


La loro storia è di quelle che in America ha fornito materiale per anni a giornali e servizi televisivi: l'ascesa e la caduta di una coppia che solo a vederla, per come appariva, attirava su di sé i riflettori.
Ce la racconta ora un film che è di quelli classici, di quelli che Hollywood produce come biografie con lo stampino pronte per sbancare agli Oscar.
La carta vincente, in questo caso, si chiama Jessica Chastain.
Irriconoscibile e trasformata in una Tammy che sembra Moira Orfei, camuffa pure la voce, alta e simile a quella di Betty Boop, e cerca così di vincerla la statuetta, uscendo dai soliti ruoli, abbracciando come Margot Robbie un ruolo che cancella la sua bellezza per farne vedere la bravura.
Ma basta al film?


Come con King Richard, io dico di no.
Perché il film non può basarsi solo sulla sua interpretazione e su un Andrew Garfield fuori fuoco, troppo giovane per il ruolo, nonostante si impegni a non farcelo pesare.
La costruzione veloce, troppo veloce dell'impero, la veloce discesa nella depressione e nella depravazione, vengono trattate in modo… veloce, appunto.
Senza scalfire davvero nelle due ore di durata, senza approfondire lì dove doveva essere approfondito.


Ed è un peccato, perché la storia è di quelle interessanti, quelle che di sicuro un documentario tratta meglio (non a caso, ci si basa su quello di  Fenton Bailey e Randy Barbato, del 2000) e che con una sceneggiatura ben strutturata, più coraggiosa e originale, poteva fare la differenza.
Insomma, a questo giro, non siamo dalle parti di Tonya Harding, anche se la prova dell'attrice, l'universo raccontato, è simile.

Voto: ☕☕½/5

2 commenti:

  1. A me invece è piaciuto parecchio. Classico, è vero, totalmente retto dalle spalle della Chastain, ma sono spalle talmente grandi che è impossibile non rimanere catturati dalla sua Tammy Faye e, per contro, dallo squallore di un Garfield che io non ho trovato così imperfetto, con quella faccetta da bravo ragazzo frustrato.

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  2. ne ho parlato anche io oggi, il film mi è piaciuto Jessica Chastain è straordinaria

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