Do you guys ever think about dying?
Se lo chiede Barbie, il film dell'estate, chi sono io per non parlare di morte a fine luglio?
Di suicidio, per la precisione, argomento non allegrissimo affrontato in modo diverso da due film molto diversi.
On the count of three
3, 2, 1, Bang.
Spara e moriamo.
Questo il patto che fanno due amici stanchi di vivere.
Affetto da bipolarismo uno, depresso e inguaiato più del solito, l'altro.
Val fa evadere dal reparto di psichiatria in cui è rinchiuso Kevin e che acconsente a morire con lui. Ad aiutarlo a morire e farsi uccidere a sua volta.
Due piacciono con una fava.
Ma, piano.
Aspetta.
Non così in fretta.
Se è l'ultimo giorno della loro vita, perché non sfruttarlo appieno?
Perché non vendicarsi, dello psichiatra che ha rovinato la vita a uno e del padre violento che l'ha rovinata all'altro, perché non togliersi qualche soddisfazione, correndo ancora su delle moto, salutando quella compagna con cui si è litigato
Sono diversi, Val e Kevin, tanto uno è imprevedibile e aperto nelle sue confessioni, tanto l'altro tiene tutto dentro e resta indeciso.
Troppo indeciso, perché chi ha voglia di morire dopo una giornata così?
Perché non continuare, non vivere sempre come se fosse l'ultimo giorno?
Il dramma, va da sé, è in agguato.
E trasforma una commedia dall'umorismo molto nero in un film d'azione dove non mancano gli inseguimenti e i colpi di scena.
Riuscendo in un miracolo: rimanere in equilibrio, senza sfruttare un espediente come la malattia mentale e senza scadere in facili retoriche.
Divertendo, pur a denti stretti visto il tema, facendo sussultare e pure commuovere nel finale.
Il merito va a una sceneggiatura calibrata e ai protagonisti, a Jerrod Carmichael al suo esordio alla regia, ma soprattutto a Christopher Abbott che nonostante ruoli importanti (vedi Girls, vedi Catch-22) ancora non è esploso come meriterebbe.
Meglio così, da un lato, meglio vederlo risplendere in piccoli film indipendenti che sa scegliersi bene.
Bridgend
Galles, 2007.
Uno dopo l'altro, suicidi di giovani e giovanissimi si susseguono in un piccolo paesino di campagna.
Cosa c'è dietro?
Cosa succede alla popolazione?
Che risposte dare a genitori sempre più preoccupati?
Il regista Jeppe Rønde affascinato dal caso, cerca di indagare, di intervistare e di informarsi dagli abitanti e se ne esce qualche anno dopo (nel 2015, sì, mi portavo dietro questo film da parecchio) con un film che ha scatenato polemiche a Bridgend.
E li capisco gli abitanti, che vedono sfruttata così male la loro tragedia.
Perché ricama, Rønde, e tanto, un dramma che resta senza spiegazione.
Mostra dei giovani che parlano fra loro in una chat segreta, che si sfidano e si alternano nel togliersi la vita.
Ci cala nella situazione grazie a Sara, nuova arrivata in pase, figlia dell'ispettore chiamato a fare luce sui casi di suicidio.
Insomma, il posto ideale per un padre single e assente in cui lasciare la figlia adolescente.
Che presto, infatti, stringerà amicizia con chi è pronto a morire, innamorandosi di uno e poi dell'altro, correndo, bevendo, festeggiando e infine partecipando a un altro funerale.
Anche Bridgend lascia senza risposte, non indaga né si impegna a scavare di più.
Si fa pura estetica, con la regia che insegue giovani, ne scritta i corpi, le emozioni, neanche fossimo sempre dentro un videoclip.
Hannah Murray splende come solo una protagonista di Skins sa splendere, mentre il giovane Josh O'Connor mostra già l'intensità che lo contraddistingue, ma pure loro ricordano la difficoltà di riprese in cui le ferite, le sfide, erano reali.
Rendere misterioso, affascinante ed estetizzante il suicidio non è cosa buona.
Non così, almeno, dove la storia latita e la natura non può sopperire.
Voto: ☕☕/5
Nessun commento:
Posta un commento