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28 agosto 2023

Il Lunedì Leggo - La Casa Bianca e La Casa Grigia di H. Bang

Nel lungo viaggio a spasso per la Danimarca, non sono stata all'isola di Als.
Un'isola nel tempo contesa fra Germania e Danimarca, in cui è cresciuto lo scrittore Herman Bang, considerato l'Oscar Wilde danese.
Fascino dandy, omosessualità dichiarata e scandali vari hanno caratterizzato la sua vita, che tratteggia a modo suo in due piccoli volumi che raccontano la sua famiglia, l'ambiente che l'ha cresciuto.
Lui resta un nome, un figlio, non amato dal padre, protetto da una madre che lo vizia, che lo aiuta, resta un occhio che registra e che analizza i rapporti in quella casa su un'isola e in una Copenaghen dove la nobiltà sta decadendo, poi.


Una Casa Bianca, prima.
Bianca su un'isola dove una madre non sa stare. Malinconica e eccessiva, infantile e impulsiva, mostra i chiari segni di quello che oggi potrebbe essere definito squilibrio mentale, bipolarismo anche.
Ma siamo alla fine dell'800 e se un marito pastore protestante preferisce isolarsi nel suo studio che avere a che fare con lei, lei trova l'appoggio di una servitù e dei figli.
Tine è la sua confidente, la sua cuoca e la sua dama di compagnia.
Forse anche qualcosa di più.
La accompagna alle feste, nelle lunghe passeggiate al cimitero, la sveglia e la porta a letto.
Bang racconta un anno dentro questa casa bianca, sancito dai ritmi della natura, dai raccolti e dalle feste religiose, e racconta di un paese intero, di vicini bisbetici, di zitelle taccagne, di zie giudicanti.
Ma c'è sempre lei, Stella, al centro. Che legge poesie, che le impara a memoria, che divora libri e che chiede ancora. O forse semplicemente altro.
Che cade in periodi di buio, che sorride con gli occhi tristi.
Scritto quasi come una poesia, dove non mancano gli aforismi degni di Oscar Wilde, Bang tratteggia come un'impressionista una donna e una vita, con pennellate dense e sicure, con colori vivide e ombre che incombono.
Per cercare di decifrarla almeno da lontano.

Diverso, in tutto, La Casa Grigia.
Che diventa una cronaca familiare dentro un freddo palazzo di Copenaghen ora abbattuto.
Quella madre c'è ancora, con il marito ospite dei suoceri.
Ma il patriarca dei Hvide al centro, medico ora in pensione, il cui giudizio poco viene tenuto in conto, il cui altro figlio dilapida la reputazione e le finanze. Freddo e meschino, autoritario e immerso nel suo mondo, si addolcisce solo al fianco di quella madre che lotta ancora con la sua malinconia, con il suo matrimonio infelice.
Le poesie sono poche, gli aforismi pure, sono le conversazioni qui a farla da padrone in questo palazzo scuro. E ad affossare il ritmo.
Di feste e di cene, di pranzi e di visite, dentro questo gelido palazzo non c'è traccia dello stile così ricercato presente nel volume precedente. Ci si stanca più del dovuto in mezzo a nomi e titoli, a mezze conversazioni e dibattiti inconcludenti.
Si resta fuori, questa volta, non partecipi e lontani dalla vividezza conosciuta su un'isola ora lontana, che quella madre rimpiange.
La malinconia, la sensazione di fine di un'epoca si respira ad ogni pagina, dove qua e là spunta una riga, una frase, una parola da sottolineare comunque.

Diversi e distanti pur parlando della stessa famiglia, i volumi non mi hanno immerso nel mondo della Danimarca che resta sullo sfondo, nonostante le strade e i fatti storici citati, ma mi ha fatto conoscere un'altra famiglia infelice, un'altra voce altalenante.
Quella di uno scrittore esule e nostalgico, che di certo continuerò ad approfondire. 

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