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6 agosto 2019

Orange is the New Black - Stagione 7 (e ultima)

Mondo Serial

Il momento di dire addio a Litchfield e alle sue detenute è arrivato.
Troppo tardi?
Troppo presto?
Difficile rispondere.
Perché anche se il calo dopo 6 anni si era fatto sentire, qualcosa da dire -dicendolo un gran bene- lo si aveva ancora.
Pensare poi che tutto quello che abbiamo visto -dall'ingresso di Piper, alle morti eccellenti, dalla rivolta alla rivoluzione della prigione stessa- sia avvenuto in appena 2 anni, fa riflettere e fa capire come non sia stato facile chiudere il cerchio, mantenere l'equilibrio e il livello passato.
Ci sono pro e ci sono contro, allora.


Partiamo dai pro.
C'è che c'è una varietà di voci mai così mista, fatta di ogni colore di pelle, ogni situazione economica.
Con Piper che si defila nello sfondo a favore di compagne ancora dietro le mura della prigione a combattere per un po' di decenza, e che torna un po' più protagonista mostrando come anche una come lei fatichi a stare in regola tra libertà vigilata e bollette da pagare.
C'è soprattutto che si dà voce a chi voce non ne ha, a un nuovo tipo inumano di prigionia: quella degli immigrati legati. La politica di Trump, crudele e paradossale, viene messa alla berlina, mostrando la mancanza di rispetto della legge, con bambini stessi a finire davanti ad un giudice.
E si continua a dar voce a un sistema carcerario che non funziona, con le galline della sempre sopra le righe Suzanne (che urla sfondando le casse del mio computer) a fare da immensa metafora.
Ci sono poi personaggi che crescono e diventano quello che non ti aspetti: l'odiosa Fig per istinto di maternità apre gli occhi e il cuore, Caputo affronta l'inevitabile uragano #metoo portando una nuova riflessione nel coro, e poi sempre lei, Taystee, che combatte come può una sentenza a vita, che si fa forza e dà forza.


I contro, però, non mancano.
E sono imputabili a quanto negli anni lo show è cresciuto, dando spazio a innumerevoli personaggi. Riuscire a raccontare e chiudere il loro arco è quindi difficile, se non impossibile.
Gli episodi dimenticano il loro formato a flashback per guadagnare tempo, ma il risultato è che spesso le storyline sono veloci, mal gestite e mal inserite.
Qualche esempio?
Le tresche Alex-McCullough e Nicky-Shani per non farci mancare le barbarie etniche, l'addio di Doggett che sembra solo un modo per far versare qualche lacrima in più assieme alle malattie mentali di Morello e Red.
E sì che si era sfoltito il cast, che la parte di detenute finite in Ohio torna solo per il gran finale cercando nuovamente di dare spazio a tutte finendo così per far capire che i tanti buchi, le tante situazioni (quella irritante fra le irritanti Daya e Aleida, per dire) che resteranno in sospeso.
A volte volutamente (vedi Maritza), come un'ennesima denuncia, nel mostrare che a sentenza scontata la prigione resta.
Se la scrittura ne risente e così anche la dimensione degli episodi, resta un impegno che sfocia anche nella realtà con la Poussey Washngton Foundation e delle lacrime sincere in dei titoli di coda particolarmente toccanti, che fanno capire che nonostante i pro e i contro, Litchfield ha lasciato il segno.


Voto: ☕☕½/5

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