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24 maggio 2020

La Domenica Scrivo - Di imprese sportive, di karma beffardi e soprattutto di The Last Dance

Il 2020 doveva essere l'anno del mio ritorno allo sport.
Lo sentite, vero, quanto sa essere ironico il karma.
Perché io e lo sport non siamo mai andati troppo d'accordo.
Era un appuntamento di quelli più attesi quand'ero ancora giovane, facciamo bambina, con gli allenamenti e le partite e i tornei di pallavolo a scandire le mie settimane.
Ero pure brava, giocavo ogni partita.
Finché un gemellaggio non ha fatto di me la numero 7, e la panchina non giustificava quegli allenamenti sempre più faticosi, sempre più intensi.
Ho provato un anno di danza moderna, e da qualche parte c'è una VHS con cui potermi ricattare fino alla fine dei miei giorni, sempre se mi si riesce a scorgere nell'ultima fila (e no, non avevo le caviglie fragili -cit.).

Che c'entra Michael Jordan ora?
Il suo momento arriva, ma serviva un'immagine iniziale acchiappa click

Poi è arrivato l'exploit dell'atletica leggera, specialità salto in lungo con un secondo posto d'istituto di cui ancora vado fiera, il salto in alto con un salto alla Fosbury che ha reso fiero il mio allenatore, e visto che la società non disdegnava di far partecipare a più gare possibili pure gli 80 metri che mi sfinivano, pure gli ostacoli che mi terrorizzavano, pure la marcia, con un quarto posto su cinque partecipanti che la dice lunga.
Poi, anche qui, dopo i tentativi nemmeno portati a termine di lancio del peso e salto con l'asta, ho capito da sola di non avere le carte giuste per andare avanti.
Questione di mentalità?
I tentativi di corsa assieme al giovine l'hanno decisamente dimostrato anni dopo.
Che competitiva lo sono, che i minuti di meno o di troppo mi fanno imbestialire, ma la testa non riesco a staccarla, non riesco a farla rimanere ancorata al qui ed ora, sta sempre quel passo avanti, sempre con quell'ansia in più che non va.

Coperte a ricordare le mie fatiche, negli stessi gloriosi anni dei Bulls

Dicevo che il 2020 doveva essere il mio ritorno allo sport dopo 18 anni di inattività, se si escludono le passeggiate con il cane.
Fate pure i conti di quanto la pallavolo, la danza e l'atletica hanno inciso.
Perché l'età avanza e certi dolori a 30 anni (si, si, ok, 32) non sono poi così normali.
Già da settembre mi ero messa sull'attenti.
Mi ci ero messa anche il settembre scorso, e anche a gennaio 2019, ma questi sono altri discorsi.
A settembre, dicevo, ho iniziato a cercare lo sport per me.
Ho provato yoga, due lezioni in due scuole diverse.
Dalla prima sono uscita con il mal di testa, causa voce gracchiante di un Maestro che invitava a rilassarsi e ad ascoltarlo.
Convivenza d'intenti impossibile.
Dalla seconda mi stavo facendo convincere, peccato che gli orari e la posizione della palestra non fossero favorevoli.
Ho provato una lezione di ginnastica dolce, ma anche qui il traffico di una statale sapevo già che avrebbe resi vani ogni tentativo di rilassarsi.
Ho provato una lezione di stretching ma pure qui gli orari non erano il massimo.

Una costume momentaneamente appeso al chiodo

Finché per il mio compleanno non sono andata alle terme, mi sono messa a nuotare, a muovermi in acqua e mi sono sentita nel mio elemento.
Sguazzavo felice e mi sono decisa: complice un black friday che scontava l'iscrizione, con la vicinanza e l'orario perfetto -il dopo pranzo- a venirmi incontro mi sono iscritta ad acquagym.
Sì, a 32 anni a fare acquagym con l'età media delle mie compagne di corso che oscilla tra i 50 e i 60, facciamo pure più 65 anni.
Ma sono comunque molto più coordinate, più brave, di me.
Ora, facciamo altri conti:
mi sono iscritta a fine novembre, ma di mezzo ci si sono messi malanni, vacanze di Natale, i più ovvi inconvenienti femminili, e con il 2020 che mi voleva nel pieno dell'attività, mi ritrovo con all'attivo appena una decina di lezioni. Poi è arrivata la quarantena a chiudere tutto, a spegnere i miei sogni di gloria, di rimessa in forma per la mia schiena e le mie ginocchia doloranti.

Sì, ora si inizia a parlare di The Last Dance

Doveva essere il mio anno?
No.
Lo sport, allora, ho preferito seguirlo.
Se vogliamo dare uno sguardo al passato l'avevo già fatto con il tifo sfegatato al Real Madrid di Iker Casillas, un brevissimo excursus nella tifoseria del Cittadella qualche anno fa (ne ho parlato QUI, e pure quest'anno la serie A sembra(va) vicina) e... beh, basta.
In casa, grazie al cielo, lo sport non è contemplato né praticato.
Ma ci si è messa Netflix, ci si mettono tutti ma proprio tutti a parlare di The Last Dance, la serie che racconta l'ultima -ma, ovviamente, non solo- annata dei mitici Chicago Bulls di Michael Jordan e mi dico, che faccio?
Di basket non ho mai capito nemmeno le regole tra secondi da seguire e rispettare, passi da contare, falli impercettibili ai miei occhi.
Tentenno.
Poi le parole del Cannibale e di Cassidy mi rincuorano.
Mostro il trailer al giovine, che appese nella sua cameretta ha ancora le figurine di quegli anni mitici dell'NBA (con un amore speciale verso i Lakers) e lui va in visibilio.
Inizia a bombardarmi di informazioni, di video sulle schiacciate più belle di Jordan, delle sue azioni migliori... Fermo lo spoiler appena in tempo, e ci buttiamo su The Last Dance.
E... mio Dio!
Ora vorrei seguire tutta l'NBA, vorrei andare al palazzetto/stadio, quello che è, e tifare e godere di questo spettacolo.
Vorrei conoscere tutto e di più, dei Chicago Bulls ma anche degli Utah Jazz, dei Detroit Pistons, dei Lakers, ovviamente, dei Boston Celtics..
Finisco in un vortice in cui la cronologia di wikipedia è una continua risposta alle domande che gli episodi messi a disposizione settimana dopo settimana mi fanno nascere.


Perché la forza di The Last Dance è quella di raccontare un'impresa sportiva non parlando solo di sport.
La forza è anche quella di avere protagonisti pazzeschi, tra giornalisti sportivi preparatissimi e ovviamente la squadra dei Bulls fatta non solo di un Michael Jordan bigger than life, ma pure dell'eterno numero due come Scottie Pippen, che numero due è contento di esserlo. Di scapestrati, beoni ma in campo fortissimi come Dennis Rodman, di un allenatore lungimirante come Phil Jackson, di gregari come Steve Kerr che nella sua semplicità ha avuto tutte le mie attenzioni.
La loro intesa dura anche a distanza, di anni e di spazio, con la memoria precisa e probabilmente ancora ferma a quegli anni di gloria, ai piccoli errori, ai fattori determinanti di una gara, impressi nella loro mente.


Sentire parlare Michael Jordan di sé è come assistere a una seduta di auto-analisi, una leggenda vivente consapevole di esserlo, consapevole dei suoi meriti, dei suoi limiti, che ha bisogno di una motivazione per andare avanti, per dare il meglio di sé, per vincere. E se non ce l'ha, se l'avversario non lo sfida a dovere, se i giornalisti non montano un caso su di lui... bè, se lo crea da solo.
Lui sì ancorato al qui ed ora (tranquilli, Fat Boy Slim c'è).
Potrà per questo struggersi di non essere il nice guy che ci si aspetta, si potrà accusarlo di trash talk e di non aver mai voluto prendere una posizione politica, lui, eroe nazionale afroamericano.
Ma Michael Jordan è Michael Jordan.
Per buona pace dell'ex cittadino di Chicago Barack Obama.
È uno sportivo, è un giocatore di basket.
Di quelli inarrivabili.
E solo al sentirlo parlare, preciso e spietato, si capisce come ha fatto ad arrivare così in alto.


A fare di The Last Dance il fenomeno che è, è la storia di per sé, con drammi familiari, fughe a Las Vegas, avvelenamenti, ritiri e ritorni, ad essere una trama degna di dover essere raccontata.
Gli inizi difficili sono comuni alla squadra intera, con futuri campioni partiti dal basso, da ghetti, periferie, da situazioni di guerra o lutti incolmabili. E il basket come traino per uscirne, per superarli.
Uniti da un uomo come Jerry Krause, che viene descritto come il cattivo della situazione, come il manager geloso, invidioso, in secondo piano, ma che ha avuto la lungimiranza di crearla, questa squadra.


La serie in 10 episodi racconta così l'ultima annata di questa squadra pazzesca, quella della stagione 97-98 con l'obiettivo di ripetere il three-peat.
Nel farlo, si va però avanti e indietro nel tempo, mostrandoci poco per volta gli inizi di ogni giocatore chiave, le vittorie e le sconfitte passate, il primo ritiro di Jordan, il suo darsi al baseball, (sì, si vedono pure i dietro le quinte di Space Jam) e il suo ritorno glorioso.
Il lavoro di ricerca e montaggio lo immagino come un qualcosa di monumentale.
Ore e ore di riprese d'archivio, di interviste di oggi da incrociare, e di domande su cui ovviamente tornare.
Interviste che svelano più di quelle riprese di allenamenti e gare, la forza dei suoi protagonisti.
E quindi mettere un ordine, creare la narrazione, trovare il filo comune puntata dopo puntata.
Potrebbe tranquillamente essere il lavoro della mia vita.
Anche se di basket non mi intendo.
Jason Hehir e la sua di quadra, dimostrano così di essere all'altezza dei Bulls, riuscendo a deviare qua e là dalla realtà dei fatti, creando i cattivi della situazione narrazione, il pathos verso vicende e gare da cui sono passati vent'anni, e anche più.
E questa è decisamente un'altra vittoria per Michael Jordan.

Un'ultima vittoria? Diventare un meme

7 commenti:

  1. Cioè parliamo di Michael Jordan! Un mito, anche cinematografico, penso che se capita vedo sicuramente ;)

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    1. Visto che era l'unica parte che conoscevo, speravo in uno spazio maggiore a Space Jam, ma quel poco che si vede esalta lo stesso.

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  2. Ho provato il basket e l'ho mollato perché ero una pippa. E quando vedo gente come Jordan mi conferma che non era proprio la mia strada.

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    1. La battuta viene spontanea, non eri neanche un Pippen, allora :)
      Il basket anche senza capirlo, continua ad affascinarmi, l'entusiasmo sembra davvero contagioso fuori e dentro il campo.

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  3. Bellissima mini, per chi è uno sportivo e per chi non lo è. C'è dentro un sacco di vita.

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    1. Anni che sembrano avere un copione da quanto imprevedibili sono.
      Ci si appassiona davvero con facilità.

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  4. Sono la conferma che anche chi di basket non ci capisce e continua a non capirci niente, può essere stregato da questo racconto.
    Gli elementi per farne un documentario ottimo c'erano già tutti, ma il montaggio, le interviste, rendono davvero il tutto qualcosa di unico.

    L'entusiasmo chissà se reggerà, le Olimpiadi potevano esser un buon test, ma tocca aspettare.

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