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12 gennaio 2021

SanPa - Luci e tenebre di San Patrignano

Mondo Serial

Ciao sono Lisa e sono true-crime-dipendente.
Me lo avrete già sentito dire, lo so.
Se sono di nuovo qui è perché ci sono ricascata. 
Speravo di avere tutto sotto controllo, speravo che quella settimana all'anno in cui mi lasciavo sfogare passandola in fissa su storie di crimini, assassini, rapimenti e casi irrisolti, mi lasciasse libera di vivere la mia vita per gli altri 358 giorni.
Invece no.
Invece la mia già debole volontà deve fare i conti con il nemico #1: Netflix.
Che ha da subito capito cosa intrattiene laggente e rifornisce di dosi settimanali di seriacce che potrebbero essere soap opera ma sono girate meglio e documentari true crime.

La mia dipendenza è iniziata in età adolescenziale con le prime dosi trovate nella libreria di casa piena zeppa di Patricia Cornwell, John Grisham e Jeffery Deaver.
La prima forma di cura l'ho avuta grazie ai professori di liceo e l'amore per la lettura indirizzato verso generi diversi. 
Più alti? 
Diciamo diversi senza scontentare nessuno.
Poi è arrivata la TV, con la dipendenza da crime ad incontrare quella per le serie e ci sono stati CSI (al singolare, però, non ho mai tradito Las Vegas), NCSI e Criminal Minds ad impestare certe ore buche, ma lentamente si è fatto strada un gusto più selettivo e sono arrivare serie TV più… diverse, restiamo con il termine diverse.
Infine, tutto è ripartito con Making a Murderer.
Con il caso di Steven Avery a fare da apripista, a lasciare sgomenti i più fino a finire -vanamente- all'attenzione dell'allora Presidente Obama.
Poi si è andato a scavare nelle vite di innocenti dietro le sbarre (The Innocence Project), di serial killer che confessano in bagno (The Jinx), altri che accusano una scala (The Staircase), proprietari di zoo che te li raccomando (Tiger King), arrivando fino a prendersi gioco del modo in cui i documentari true crime sono fatti (American Vandal).
Ma ci si casca continuamente.


E quindi rieccomi qui.
Davanti a voi a dichiarare la mia ennesima ricaduta.
Questa volta con un moto d'orgoglio tutto italiano.
Orgoglio?
Vabbè, ci siamo capiti.
Di che parla SanPa lo sanno ormai tutti.
Non lo sapevo io, troppo piccola quando Vincenzo Muccioli era presenza fissa in TV, troppo poco cosciente di quello che davvero significava quella battuta, quella minaccia, quel rimprovero quando saltava fuori il nome San Patrignano negli anni '90.
Le sue luci e soprattutto le sue ombre, vengono qui dissezionate.
Lo si fa come fanno i veri e bei true crime, andando a scavare e scovare immagini d'archivio, andando ad intervistare i diretti interessati, andando a rovistare incartamenti di tribunale.
Non è San Patrignano in sé ad essere sotto processo, è Vincenzo Muccioli.
Un uomo grande in tutti i sensi, che si è inserito in un buco dello Stato, quello di chi si buca. Tossicodipendenti lasciati allo sbando, al più messi a riempire carceri, lasciati in mano a genitori sempre più disperati.
Il metodo San Patrignano testato su un centinaio di giovani che finiscono per costruirla, per viverci e infine per gestirla questa struttura di recupero, sembra funzionare.
E tutti se ne stanno zitti.
Finché il metodo San Patrignano non mostra crepe e soprattutto catene, non mostra l'impreparazione di persone senza alcuna competenza educativa chiamate a rieducare gli altri, e San Patrignano esplode: ci sono morti, ci sono suicidi, ci sono fughe, ci sono denunce e ci sono processi.


Il tutto viene raccontato in appena 5 episodi.
Ma, da ossessionata, da invasata, da drogata di docuserie crime, nonostante l'entusiasmo generale, nonostante l'appassionarsi di molti e gli elogi per come questa vicenda è stata raccontata, io ho un po' da ridire sulla struttura della serie.
Su quegli episodi troppo lunghi, sulle domande che restano sospese, su un ritmo che non incalza e inizia a incedere solo a metà.
Gli americani che sanno come farle queste cose, gestiscono tempi, ricostruzioni e ritmi in modo… diverso, restiamo con diverso, con climax finali che neanche mettono in discussione la possibilità di mettere in pausa.
Qui ci si prende più seriamente, ed è un bene, si lasciano parlare testimoni che sono più che testimoni, Walter Delogu e Fabio Cantelli nelle loro confessioni e condivisioni fanno dei trattati di filosofia, alle loro parole, alle loro sofferenze, dal loro passato si resta ammaliati.
Ne esce meno bene chi Muccioli lo difende a spada tratta, senza nemmeno metterlo in discussione cosa che la serie chiede di fare (parlo di Red Ronnie, ovviamente) e la figura di Muccioli stessa con i suoi segreti, con i suoi vizi, con le scappatoie che trova e cerca, con i modi difficili da definire e certe uscite che fanno rabbrividire (sì, mi riferisco a quella sullo stupro) che mette sotto una nuova luce tutto il suo operato, tutte le sue buone intenzioni.
Come probabilmente in quegli ultimi silenziosi giorni ha fatto pure lui.


In SanPa non c'è un giudizio, non c'è una voce che prevale, forse solo quella della coscienza di ognuno di noi, spettatore sensibile.
Come dice Fabio Cantelli:

"Ci sono delle regioni della vita dove vita e morte sono così strettamente a contatto, quasi intrecciate l’una con l’altra, che concetti come libertà, volontà, male, bene vanno rivisti e bisogna avere il coraggio di non usarli come assoluti".

Così, anche se SanPa per una  true-crime-dipendente come me non è stata la dose da orgasmo alla Trainspotting, è una serie che richiede l'attenzione che sta avendo, che gioca bene le sue carte (a partire dalla sigla che omaggia Narcos) e che ha scelto benissimo i suoi protagonisti.

Voto: ☕☕/5

5 commenti:

  1. Il pregio maggiore è quello di evitare qualsiasi tesi precostituita. Una docuserie chirurgica che per tanti ha riaperto vecchie ferite. I ragazzi dei primi anni '80 si ritrovarono in una lotteria al contrario: con le strade e le piazze, anche di provincia, inondate da tonnellate di eroina. La sofferenza nel volto di Fabio Cantelli è stata anche la mia: non sono riuscito a vedere più di una puntata al giorno.

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    1. Cantelli è di certo il miglior testimone possibile, più che un'intervista la sua sembra una seduta di psicanalisi e capisco come possa esserlo anche per chi era giovane in quegli anni.

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  2. Stranamente con me non è riuscita ad attecchire subito, non ci ho trovato il ritmo e la spinta giusta. Poi dal terzo episodio e i risvolti più drammatici ho iniziato ad appassionarmi di più.
    Benvenuto nel club, cerco di stare distante dal genere per un po', ma la mia Lista Netflix è già piena zeppa di docuserie su sparizioni e omicidi.

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  3. Ai tempi in cui leggevo i romanzi di Patricia Cornwell ero anch'io un dipendente di true crime. Poi mi sono disintossicato. Senza l'uso di catene, preciso. :)

    Questa serie comunque non l'ho vissuta tanto come un true crime, quanto come un racconto di dipendenze. Dalle droghe, ma anche e soprattutto da una figura paterna autoritaria, in apparenza rassicurante, in realtà disturbante.

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    1. Non è effettivamente true crime al 100%, più investigativa soprattutto per me che di queste vicende non sapevo niente e ad ogni episodio scoprivo nuovi pezzi.

      Il dibattito che ha fatto nascere ha dimostrato come le ferite sono ancora aperte, e forse avrei tolto spazio all'acchiappa-pubblico Red Ronnie per far parlare altri usciti e vissuti a SanPa.
      Chissà che non lo facciano più avanti.

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