Quanto ne sapevo di un mito del cinema come Humphrey Bogart?
Poco.
Quanti suoi film mi sono vista?
Pochi.
Per questo mi sono lasciata tentare da Jonathan Coe, scrittore di cui ho letto quasi tutto (Bournville, arrivo!) e che nella sua carriera si è lasciato andare a tre biografie, quella corposa sullo scrittore B.S. Johnson, e nei primi anni della sua carriera, quelle su James Stewart e su Bogie.
E forse un campanello d'allarme doveva suonarmi: è il suo quarto scritto, in cui esce dalla comfort zone della narrativa. Io mi aspettavo una biografia in cui l'autore, il suo stile, riusciva a fare capolino. Una biografia preziosa perché impreziosita dalle curiosità, dagli aneddoti, dal vissuto di chi ha fatto ricerca e di chi ha deciso di dedicare un volume biografico al suo mito cinematografico.
Insomma, uno scrittore che decide di prendersi una pausa per raccontare una storia vera, non dimenticando però la sua penna.
Invece, no.
È un compitino in cui prendono spazio curiosità e fatti conclamati, riprendendo dietro le quinte dalle autobiografie o dalle biografie di colleghi e compagni di set.
Si ripercorre la carriera di questo attore rude sbocciato tardi, imprigionato dai contratti che un tempo le case di produzione facevano con gli attori, impegnandoli su set sempre uguali, in ruoli sempre uguali, a regole ferree che solo se brillavi, se diventavi una stella, potevi contrattare.
Lette ora, certe storie e certe dinamiche, fanno sorridere.
Nel pieno di uno sciopero che forse sta per finire, negli anni '40-'50 l'attore era un lavoro come un altro, in cui non si potevano rifiutare titoli, o si rimaneva in panchina.
Il successo, Humphrey lo costruisce piano piano, grazie ai registi, grazie, ovviamente, a Casablanca.
Poi c'è la vita privata fatta di grandi bevute, di matrimoni fallimentari e di grandi amori che lo rimettono in sesto.
E pure qui, si sorride a pensare come la sua violenza, i suoi modi burberi, la sua dipendenza dall'alcool, lo avrebbero portato a una cancellazione immediata, oggi.
Un tempo, invece, era parte del suo fascino: delle copertine a lui dedicate, del suo modo di vivere e lavorare che creava un'aurea di mito, ma anche di personaggio da evitare.
Jonathan Coe ripercorre la sua carriera in modo cronologico, soffermandosi sui suoi film principali per raccontare della vita ad set, dei fuori scena curiosi che oggi troviamo su Wikipedia. Giudicando frettolosamente i suoi ruoli minori, si arriva alla fine con qualche lacuna importante da colmare ma con poca concretezza in più.
Un ritratto didascalico in cui la personalità viene accantonata.
Billy Wilder ha ricevuto un trattamento migliore, un romanzo addirittura che diventerà un film diretto da Stephen Frears e interpretato da Christoph Waltz.
Bogie si deve accontentare di un ritratto sommario, in cui brilla lui ma non chi lo descrive. Che fa capolino solo sul finale, in cui Coe si mescola agli oratori di un funerale prematuro, facendo finalmente sentire la sua voce.
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