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28 settembre 2024

Sconsigliati: Happiness - Showing Up - Alcarràs

Con molto tempo libero e troppo caldo per mettere piede fuori di casa, quest'estate ho smaltito la lunga lista di titoli in sospeso che sta lì, nell'agenda-segna-film.
Titoli non così di richiamo, titoli che non attiravano ma spiaceva non vedere, titoli che chissà come mi ero segnata e che nemmeno mi andava di mettere in una Promessa.
Ma allo stesso tempo, mi sentivo in colpa a depennare.
Ora, se qualcun altro li avesse in lista, questi tre titoli sono quelli che non consiglierei di recuperare.
O per lo meno, non con chissà quali aspettative.

Happiness

Ho sempre faticato a voler bene a Philip Seymour Hoffman.
Colpa dei personaggi che decideva di interpretare.
E che interpretava benissimo.
Unti, viscidi, poco amabili.
Qui siamo al suo apice, probabilmente.
Il film è del 1998 e porta tutti gli anni che ha, e visto oggi con la cultura fin troppo attenta a non offendere nessuno, beh, sembra di un passato ancor più lontano.
Perché si ride -a denti molto stretti e con molto imbarazzo- di pedofilia e stalkerismo, di sesso malato e di offese e di famiglie decisamente imperfette.


Film corale che mostra tutte le ipocrisie dell'America bianca che vuole apparire perfetta, la commedia caustica di Todd Solondz si ispira a un certo Altman e non è facile da digerire.
Come lo giustifichi un padre che preferisce il tuo amichetto a te, per i suoi giochi?
Come lo capisci un uomo timido che insulta le donne e a cui piace essere insultato?
Come la interpreti la gelosia fra sorelle, una con marito-figlio-casa apparentemente da copertina, l'altra che si innamora di chi la insulta e l'altra ancora che si invaghisce di chi la deruba?
In una girandola di scontri fra questi personaggi che si urtano e fanno a gara per essere il meno peggio, c'è gran poca felicità.
Il tempo non ha aiutato Happiness a invecchiare come si deve, meglio sospendere il giudizio anche su un finale felice nel senso più pruriginoso del termine, per un teenager, che visto oggi fa scattare parecchi allarmi.


Showing Up

Qualche anno fa mi ero recuperata l'intera -breve- filmografia di Kelly Reichardt in attesa del suo First Cow, additato dalla critica come uno dei migliori film del 2019.
Non è scattato il colpo di fulmine, devo ammetterlo.
Pur trovandoci bei film, un occhio attento.
Ci ho riprovato quest'estate, e ci ha ritrovato pure la sua protetta Michelle Williams.
Qui nei panni dell'artista che fatica ad emergere, ceramista e scultrice cosa che -visto il lavoro che mi mantiene- dovrebbe rendermela più affine.


In realtà pure lei non riesce a fare della sua arte -di scultrice, non di chi scrive di cinema- un lavoro, fa da segretaria alla scuola d'arte in cui insegna la madre, aumentando il suo senso di frustrazione nei confronti dei colleghi più sicuri di sé, che ce la fanno, della vicina di casa che è anche la sua padrona di casa che la casa non gliela sistema.
Tiene tutto dentro, Lizzy (nome che sì, mi fa scattare qualcosa), non si apre agli altri, in un conflitto passivo/aggressivo non certo facile, con la sua Mostra personale alle porte ad aumentare la tensione.
Che esploderà, com'è ovvio che sia, in un'apertura in cui prendersi cura di uccello salvato, di un fratello bisognoso di cure più serie, di genitori e conoscenti che continuano a non capirla.
Si mostra l'arte, con le sue contraddizioni.
Si mostrano i processi artistici, l'insoddisfazione, l'invidia, gli ostacoli e le apparenze di un mondo che fa da metafora a quello del cinema.
E se Michelle Williams se la cava come sempre egregiamente, in panni stropicciati, gattari e reali, io mi ritrovo a sbuffare contro un'idea di cinema così naturale da sembrare finto, così ruvido da infastidire, e a capire che no, l'idea di cinema di Reichardt è diversa dalla mia.

Alcarràs

Acclamato a Berlino nel 2002, vincitore dell'Orso d'oro, da allora nel mio radar.
Fra i tre titoli e quello che in un triello finirei per salvare, non fosse per l'obiettivo sociale che si pone.
Per la denuncia che fa e per l'impegno che Carla Simón ci mette nel mostrare come l'agricoltura fatica ad andare avanti oggi e viverci è quasi impossibile.
Una famiglia vive da generazioni circondata da campi di peschi. 
Vive di quei raccolti, vive raccogliendo e vendendo pesche.
Ma con i prezzi del mercato che scendono, la manodopera che costa, sopravvivere diventa impossibile.


I più furbi vendono, sradicando i loro alberi e sostituendoli con pannelli solari. Creando discussioni e divisioni, con la famiglia ulteriormente in crisi perché nessuna carta può confermare un accordo verbale sulla terra che lavorano. Non è loro, come promesso da un patriarca vecchia scuola, solo la casa gli appartiene, una casa in cui i più giovani si stancano di essere sporchi di terra , i più piccoli non capiscono i confini mentre gli adulti litigano su come sopravvivere e andare avanti, a testa alta.
Insomma, Alcarràs è un classico film da Festival, impegnato e militante nel denunciare i ricchi che sempre vogliono arricchirsi, i poveri che sempre verranno sfruttati.
Con il cambio generazionale a riuscire a comprendere un pubblico più ampio e gli attori non professionisti a rendere più reale il lavoro sporco, la rabbia e l'attaccamento verso quella terra.
Il fatto è che si fa fatica a scendere a patti con questa famiglia e le sue contraddizioni, con i silenzi, con le urla, la loro testardaggine, la mancanza di rispetto e di ascolto.
Costruito come tipico da film di festival, di scena in scena, di naturalità in naturalità, colpisce ma no rimane visto sullo schermo di casa.
Lasciando con un senso di rabbia che fa meno bene del previsto, aumentando il senso di colpa.

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