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16 dicembre 2025

The Mastermind

Andiamo al Cinema su Mubi

Fatico a capire il mio rapporto con Kelly Reichardt.
Mi ci struggo da quando nel 2019 mi sono messa a recuperare la sua breve filmografia in vista di quel First Cow che per molti critici era stato il film dell'anno.
Un film splendido lo avevo trovato anch'io, pieno di umanità e semplicità, da come scrivevo. E avevo apprezzato anche il suo esordio, il suo film a episodi, un po' meno le uscite nella natura dell'Oregon che tanto gli sta a cuore.
Ma com'è che a pensarci, dopo anni, tutti questi film mi fanno sbadigliare? 
Com'è che è rimasta una sensazione di lentezza, di estrema lentezza, rispetto all'entusiasmo e agli apprezzamenti di cui scrivevo? 
Colpa del mio primo approccio con Reichardt, che come si dice, non si scorda mai? 
Colpa dell'ultimo titolo affrontato, decisamente ostico nella sua lentezza?
Più che interrogarmi su di lei, mi interrogo sulla mia memoria, che solitamente si aggrappa ai sentimenti, ai colpi al cuore, e invece si ferma alle immagini polverose e ai personaggi silenziosi e si costruisce una nuova idea di quei film. 
Colpa anche di The Mastermind


Il film con cui Reichardt prova a conquistare i cuori dei più giovani assicurandosi come protagonista il beniamino Josh O'Connor che avrebbe tutte la carte per piacermi, per essere il tipico film di Reichardt che osserva il personaggio e il mondo in cui si muove, in questo caso un Massachusetts di sobborghi dove comunque la natura autunnale si prende i suoi spazi. 
Un film al quale pensava da tempo, collezionando ritagli di giornali d'epoca che di rapine d'arte tanto audaci quanto elementari parlano e che ha avuto nel colpo al Louvre il migliore del marketing possibile.
Come il suo esordio, è un heist movie non molto interessato alla parte heist, alla rapina, ed è un road movie non molto interessato alla strada percorsa dal protagonista ma alle tappe interiori in cui si ferma per capire come andare avanti.
È ancora una volta uno studio del personaggio: J.B. che sembra un solitario ammiratore dell'arte e che è in realtà un padre di famiglia, è quindi un padre di famiglia che è anche un disoccupato non molto intenzionato a trovarsi un lavoro ma piuttosto a organizzare una rapina, è quindi un organizzatore di rapine che però non le sa organizzare così bene, affidandosi alle persone sbagliate ed è un marito che ancora si affida ai genitori e un ladro con le spalle coperte proprio da un padre, giudice temuto.


È un uomo pieno di contraddizioni J.B., che sembra mosso dal suo ego, per quanto stropicciato, da un valore dell'arte che passa per un artista non certo altisonante ma con un legame personale, dal cercare il suo posto in un mondo confuso com'è quello del 1970, dove continuano le proteste in strada, che non sembrano riguardarlo.
Un'epoca ricostruita sapientemente, dai colori alla pasta di una fotografia calda e viva, con le comparse a creare quadri di sfondo quasi documentaristici in cui si muove, come fuori posto, J.B.
J.B. assomiglia all'Arthur di Alice Rohrwacher, che definisce l'arte che ruba, che giudica gli altri, ma non ha la stessa malinconia, lo stesso cuore buono e spezzato a muoverlo, anzi. Le donne della sua vita -la madre, la moglie- sono lì a sostenerlo economicamente mentre la sua grande mente organizza una rapina che non può che finire male, che non può che finire in una fuga in cui ancora una volta non riesce a dare una definizione di sé. Uomo per bene, di buona famiglia, che finisce ricercato dalla polizia e arrestato per l'unico crimine che non ha commesso: interessarsi al mondo.


La colonna sonora jazz è l'unica tratto heist di The Mastermind, incalzante e onnipresente visti i silenzi di J.B. nella sua fuga senza meta, che raccontata una rapina più impacciata che rocambolesca, e una fuga lenta e stanca e impossibile dalle proprie colpe e dalle proprie mancanze.
Spossa, il jazz come lo svolgimento del film, e nonostante il bene che si vuole a O'Connor che il ruolo lo centra sempre, nonostante la presenza di volti tipicamente indie che un po' mi respingono (Alana Haim, Hope Davis, John Magaro, Gaby Hoffmann e Bill Camp), a fatica si arriva a un finale, beffardo.
Com'è che Reichardt la ricordo più per i passi falsi che per quelli convincenti? 
Forse perché fanno più male e più tediano?

Voto: ☕☕½/5

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