Andiamo al Cinema
Sul perché continuino a funzionare i biopic musicali se n'è scritto e se ne continua a scrivere.
Per farla breve: richiamano tipi diversi di pubblico e quindi più pubblico. Dai fan sfegatati di quel cantante ai fan sfegatati dell'attore chiamato a interpretarlo, il che significa il più delle volte due generazioni diverse. Mettici poi che per ruoli simili che richiedono impegno e trasformazione la candidatura all'Oscar è quasi scontata, e anche quella pubblicità aiuta ad aumentare gli spettatori e quindi l'incasso e quindi il ritorno monetario per le case di produzioni che continuano a produrli.
Dopo Bob Dylan, quindi, abbiamo Bruce Springsteen.
Due tipi diversi, con due anime diverse e due stili musicali diversi.
Per mia fortuna, sono più fan di Bruce che di Bob e preferisco Jeremy Allen White a Timothée Chalamet dai tempi di Lip Gallagher.
Di Bruce conosco le hit, mi sono emozionata leggendo interviste, guardando il suo spettacolo teatrale su Netflix e ora, sì, anche per questo film pieno di difetti.
Sembrava avere il cuore dalla parte giusta Scott Cooper, che non vuole ripercorre la vita di un cantante dalla storia già di per sé perfetta per un film: gli inizi in una New Jersey molto popolare, il successo, i soldi, ma i piedi sempre ben piantati per terra, ma solo una fase. La più sentita e la più misteriosa.
Quella che tra il 1981 e il 1982, dopo 5 album, dopo tour sold out, con la consacrazione a rockstar a un passo, Bruce ha bisogno di fermarsi. O forse no. Forse proprio fermarsi, tornare nel suo New Jersey, isolarsi in una casa in riva a un lago per cercare nuova ispirazione, lo porta in quei posti della sua mente che non lo fanno stare bene.
La sua infanzia, principalmente, con un padre che affoga nell'alcool i suoi problemi nascondendo un malessere mentale più profondo che sembra radicarsi anche in Bruce, incapace nel presente di mettere radici, di mettere su famiglia, di rispettare patti e di trovare la sua voce. È convinto di trovarla, attraverso le immagini di La rabbia giovane, attraverso i racconti di Flannery O'Connor, di riportarli in modo autobiografico registrando con l'aiuto di un amico e delle tecnologie degli anni '80 da solo, in cameretta, Nebraska. Ma come riportarla quella magia, quel dolore, se in sala di registrazione vengono snaturati? Come rispettare le aspettative di una casa discografica che si aspetta hit e tour e promozione, quando quello che si vuole è gridare il proprio dolore, forse per ricevere aiuto?
Racconta questo Scott Cooper, ma lo fa nel modo sbagliato.
Lo fa con un montaggio che porta fuori dalla magia della creazione e della registrazione delle tracce di Nebraska o di una Born in the USA accantonata, lo fa soprattutto prendendo il pubblico per mano. Continuamente.
In modo così plateale da far sentire stupidi: non l'hai capito che stiamo assistendo a qualcosa di grande? E allora eccoti gli ammiccamenti dei tecnici, dei musicisti, con abbracci e "dammi un cinque!".
Non l'hai capito come si sente Bruce? Allora inserisco una moglie lì per fare la bella statuina e ascoltare Jon Landau spiegare per filo e per segno come si sente Bruce, cosa può fare lui, produttore che ce l'ha a cuore e che non vuole spremerlo come fanno i produttori di oggi.
Jeremy Strong sembra ormai ripetere sempre la stessa faccia da Kendall Roy ad ogni personaggio che è chiamato a interpretare, incapace di sbattere le palpebre e di far uscire una qualche emozione, forse è per questo che vengono inserite le scene in cui le sue emozioni le deve spiegare a Grace Gummer, che il ruolo di moglie di un produttore discografico già ce l'ha nella vita reale sposata com'è a Mark Ronson.
E se Odessa Young si ritaglia anche troppo spazio per una storia d'amore che ha in scene da cliché romantico (e il luna park, e le corse in macchina, e il fare all'amore, e i concerti) poco romanticismo, vengono sacrificati Paul Walter Hauser e Marc Maron, tecnici di registrazione di diversa formazione che da soli, in poche scene, fanno emozionare alla ricerca ossessiva di quel suono, di quel modo di riprodurlo che Bruce tanto chiede.
Jeremy Allen White per quanto a tratti somigliante, per quanto si impegni, scivola in continuazione nell'effetto Tale e Quale Show, ma è il rischio di ogni biopic con un attore già famoso in cui siamo pronti a sottolineare "sì, qui è identico"/"oddio, qui si vede proprio che hanno usato le lenti colorate", con la vicenda personale di un amore impossibile con Faye a non aiutare a entrare in un film in cui la musica e il passato di Bruce dovrebbero essere il vero focus.
Plateale è anche il modo in cui Bruce ci tiene a divulgare il suo messaggio verso una maggiore attenzione verso la salute mentale, che se non passa attraverso anni in cui poco si parlava di questi problemi, arriva a metterlo nero su bianco la didascalia finale.
Forse avere Bruce sul set non ha aiutato a lasciar andare né Jeremy né Scott, con le scene di un passato doloroso altrettanto didascalico e un finale che più esplicativo nel fare pace con quel passato non c'è.
Con il rilascio della versione "elettrica" di Nebraska, Bruce ha dimostrato di aver avuto ragione a voler tenere il punto, anche se io lo preferisco più rock e meno folk.
La magia che si respira in quella casa in riva al lago, in quella sua ossessione per trovare le parole, le storie e il suono giusto per esprimere il suo dolore si perde allo stesso modo in una produzione più grande, troppo grande, e pensata per quel tipo di pubblico. Un film meno acclamato, meno grande, più essenziale e scarno sarebbe stata la sua giusta natura.
Voto: ☕☕½/5



Mi è sembrato proprio la negazione del Tale e Quale Show, non so come potesse essere più essenziale di così, lavora tutto di sottrazione, forse mi rendo conto però che il mio essere molto calato nella storia visti i miei trascorsi musicali, mi fornisce un punto di vista diverso, a me è piaciuto parecchio anche per la prova di Lip, che non imita ma interpreta. Cheers
RispondiEliminaI biopic musicali più grande piaga del cinema dopo la Marvel.
RispondiEliminaSostanzialmente condivido. E nemmeno io amo i biopic musicali.
RispondiElimina