29 gennaio 2025

A Complete Unknown

Andiamo al Cinema

Freddie, Elton, Judy, Elvis, Amy, Whitney, Bob, Billie...
Sembravano finiti i tempi d'oro dei biopic musicali.
Dopo l'exploit che era stato Bohemian Rhapsody e i cloni a spuntare come funghi ad attingere a questa vena d'oro, i flop, gli insuccessi, una certa stanchezza nel raccontare storie di personaggi famosi uniche ma allo stesso tempo sempre con lo stesso stampo, sembrava finalmente giunta al termine.
Ci pensa invece Bob Dylan, o meglio, James Mangold a fare da defibrillatore.
A cercare di risuscitare un genere che sembrava destinato al viale del tramonto ma che in fondo il suo pubblico sempre lo trova, tra i fan dei musicisti di cui si va a fare il ritratto e tra i fan dell'attore o dell'attrice che lo vanno a interpretare.
Non è un caso che il prossimo in ordine di uscita sarà su un certo Bruce Springsteen interpretato da un certo Jeremy White Allen.
Così come non è un caso che siamo ancora a parlare di Bob Dylan, dopo Haynes e dopo Scorsese, e di un certo Timothée Chalamet.


Il pubblico in sala, per A Complete Unknwon, si divide quindi fra sessantottini anagrafici o nell'animo che il menestrello lo venerano per quel suo caratteraccio e quella sua poesia popolare, e le giovani che ansimano al vedere il fisico gracile di Chalamet su grande schermo.
Chi non appartiene a nessuna di queste due categorie, come la sottoscritta, non si può che ritrovare a sbuffare.
Non tanto per la regia di James Mangold, elegante e calibrata, che ci porta in anni '60 fumosi e caldi, in una New York dove la scena musicale e intellettuale è in fermento, con artisti che si credono tali e che tali diventano, seguendoli con i suoi carrelli, entrando in studio di registrazione come in stanze d'ospedale con una religiosità che rende il film solenne. E nemmeno per la sua scelta, saggia, di raccontare Bob che diventa Dylan, lasciando un alone di mistero sul suo passato prima di attraversare l'Hudson e lasciandolo lì quando abbandona il folk che lo ha consacrato. Un frangente, di una vita lunga e produttiva, una scintilla iniziale che corrisponde già ad amori travagliati e amicizie importanti.


Una scelta sensata per evitare di fare un lungo film biografico che tutto mastica in fretta ma allo stesso  tempo un film che fatica a trovare un angolo sicuro a cui appigliarsi.
È la storia d'amore che si prende e si lascia con Sylvie Russo, a importare di più?
O quella con Joan Baez?
È il rapporto paterno, fraterno e infine parricida con i cultori del folk Pete Seeger e Woodie Guthrie?
O è la crescita da sconosciuto a star, di uno che l'essere star non sa come gestirlo?
È un po' tutto questo, sembra, condito da tantissimi momenti musicali perché la musica di Bob i fan la vogliono sentire, l'interpretazione a copia carbone di Chalamet le fan la vogliono apprezzare.
Va meglio con i tanti comprimari di spessore.
Da quelli femminili anche se Elle Fanning sembra fuori posto negli anni '60 e accanto al gracile Chalamet, e Monica Barbaro che funziona per la sua anonimità nei panni della fascinosa Joan Baez, la cui nomination agli Oscar è un tantino esagerata soprattutto se a discapito di Margaret Qualley.
E se le giovani sospiravano per lo sguardo intenso e la faccia da schiaffi di Timmy/Bob, apprezzo la trasformazione fascinosa di Boyd Holbrook in Johnny Cash (di cui Mangold già ci aveva raccontato i travagli) e quella invisibile di Edward Norton in Pete Seeger, passando per una cottarella che non passa per Scoot McNairy nemmeno in una stanza d'ospedale.


In un film biografico che saggiamente si limita a una parte di biografica da raccontare, c'è molto di cui annoiarsi.
La storia scelta -la nascita di una star e la trasformazione di quella star- non riesce ad avere peso, ma ha l'eleganza. Una storia che si cerca in mezzo ai momenti videoclip di concerti e incisioni e ispirazioni notturne, cercando anche una profondità che in un periodo di minacce nucleari e guerre a venire, si ferma su gelosie e tradimenti, amori da copertina (letterali) e amori da scriverci album interi (anche qui, letteralmente).
Forse non posso essere oggettiva, con un film così distante dai miei gusti.
Non sono fan di Bob, come cantante gracchiante o come persona antipatica di cui qui si sottolineano i difetti, via via crescenti in tanti episodi da voler e dover toccare per forza -leggende come sono diventate nel rock-, e non riesco ad essere fan di uno Chalamet che sembra sempre crederci troppo, in una sovraesposizione che mette a rischio la sua credibilità su schermo. Infine, non sono certo fan del genere biopic musicale se non ha un guizzo, una scintilla di originalità nel suo racconto.
Che qui non c'è, che qui non ho trovato, in mezzo all'eleganza -ancora, che diventa quasi un difetto- di James Mangold, alla fotografia a grana spessa di Phedon Papamichael.


Non sono forse il pubblico adatto per un film che in America si è celebrato più del dovuto per un cantante leggendario, questo sì, celebrato ancora in vita.
Ma tra Mangold e Haynes, con Scorsese a fare da contrappunto con il suo documentario, resta il fatto che il miglior film su Bob Dylan è quello in cui Bob Dylan appare di sfuggita, sul finale, quello in cui il protagonista si chiama Llewyn Davis ed è un biopic musicale che non vuole e non può esserlo.
A dirla lunga, quindi, su un genere che non vuole morire.

Voto: ☕☕½/5

1 commento:

  1. L'attrice che interpreta Joan Baez ruba la scena ma comunque si parla di Dylan, la storia si ripete ;-) Concordo, i Coen avevo azzeccato tutto senza bisogno nemmeno degli occhiarli da solo. Cheers!

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