4 giugno 2014

Stranger Than Paradise

Once Upon a Time -1984-

Dopo la visione del per me convincente -per quanto lento- Only lovers left alive, mi sono sentita in dovere di recuperare parte della filmografia di Jim Jarmush, regista del quale a suo tempo avevo visto solo Broken Flowers, apprezzato ma anche leggermente messo da parte nella mia memoria.
Si inizia così con quello che sotto molti punti di vista è il suo vero debutto, e i segni ci sono tutti: una trama ridotta all'osso, un bianco e nero che sa più di economicità che di radicalchicchismo, troupe assoldata nel cast, attori che si prestano alla colonna sonora, scenari e ambienti quanto mai scarni.


Tutti questi segni sono però necessari per raccontare i tranche de vie di Bela, detto Willie, che si trova suo malgrado ad ospitare la cugina appena arrivata a New York da Budapest, che rovina così i suoi piani di nullafacenza e scommesse ai cavalli. La ragazza non è però senza cervello, anzi, dalla mano lesta riuscirà ad essergli parecchio utile, e poco a poco, nei 10 giorni di convivenza, il loro rapporto, pur nella freddezza generale, cresce e si affiata.
Passato un anno, e vinti parecchi soldi tra scommesse e trucchi con le carte, Willie e l'amico Eddie decidono di partire per Cleveland e andare a trovare Eva, che troveranno ospite di una zia ancora immersa nella cultura ungherese.
Insieme, decideranno poi di partire alla volta della più calda Florida, dove in modo impensabile, le loro strade si divideranno.


Ha tutto il sapore dell'opera teatrale, Stanger Than Paradise, della registrazione di brevi momenti suddivisi dallo sfumare in nero che, in poche e semplici scene con ancora più pochi e semplici dialoghi, inquadrano i protagonisti nella loro vita.
Cenare, guardare la TV, fumare una sigaretta, leggere un fumetto... gesti semplici che Jarmusch inserisce nel suo film, che grazie alla naturale simpatia di John Lurie acquista quella marcia in più riuscendo a passare senza troppi problemi dall'iniziale cortometraggio al lungometraggio, pur avendo un ritmo lento e trascinato.
La vera accelerazione si ha però nell'ultimo atto, quando le vie del destino e del denaro portano i tre protagonisti a sfiorarsi senza mai toccarsi, con il fato che sembra farsi beffa di loro e che li divide in modo ironico e imprevedibile.
A livello tecnico, con i veri e propri quadri dove la macchina da presa solo raramente si muove (tranne nel capitolo introduttivo di New world, con un piano sequenza suggestivo in una New York degradata e sporca), con la fotografia che vira verso quel bianco e nero che rende sempre un po' più poetico e chic il tutto e con quella musica malinconica e blues (I Put a Spell on You di Screamin' Jay Hawkins) che ben si presta ad accompagnare viaggi in auto, Jim Jarmusch mette le basi per un suo stile che saprà sicuramente crescere, ma che ha già un'impronta personale forte e marcata.


5 commenti:

  1. Jarmusch non lo sopporto, questo film poi è uno dei suoi peggiori.. Decisamente non un cinema per tutti.

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    1. Il fatto che mi siano piaciuti e abbia trovato interessanti sia questo che Only lovers left alive ci mette abbastanza in disaccordo. Mi concedo altri due film ma spero di non cambiare opinione... Come mai questa mal sopportazione nei suoi confronti?

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  2. Ricordo che nella sua particolarità, mi piacque abbastanza.
    Ma sono passati un sacco d'anni

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    1. Gli anni li porta ancora benissimo, la sensazione di debutto c'è ma rende tutto più genuino!

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  3. Questo commento è stato eliminato dall'autore.

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