Siamo alla fine, la Mostra chiude i battenti domani con i suoi premi da consegnare, ma di film da vedere, di film in concorso, non ce ne sono più.
Aspettando sempre domani per tirare le somme, c'è da dire che ci si è abbastanza ripresi dopo le primi visioni non così eccellenti, anche se, a ben guardare, l'ultima pellicola dell'edizione è forse una delle meno convincenti della sezione.
Ecco quindi le ultime impressioni quasi a caldo su quanto visto oggi:
The Postman's White Nights
Il filone forse più riuscito in questa edizione della Mostra di Venezia è sicuramente quella dei documentari.
Dopo la vittoria lo scorso anno di Sacro GRA sembra che il festival non abbia più paura del genere, mettendolo in tutte le sue forme fuori e dentro il concorso.
Così arriva anche Andrej Konchalovsky, che mescolando realtà e finzione ci mostra un angolo di mondo dove il tempo sembra essersi fermato, dove la vita scorre ad un altro ritmo, decisamente lento.
Sulle rive di un lago nel nord della Russia ci sono infatti un manipolo di case in legno che ancora resistono, con gli abitanti del posto che vivono di misere pensioni e di pesca, e il cui unico contatto con l'esterno è rappresentato dal loro postino, che quotidinamente porta dalla città lettere, cibo e giornali.
E' lui il protagonista del docufilm, un ex alcolista seguito durante le sue commissioni giornaliere e durante le sue notti in bianco, funestate da strani incubi. La sua vita tocca quella di tutto il paese, aiutando chi ancora affoga nella vodka e soprattuto legandosi e cercando di legarsi ulteriormente alla ritornata Irina, anche attraverso il figlio che accompagna nelle esplorazioni.
Nel suo lento incedere, il film fa subito affezionare ad un personaggio così semplice ed emotivo, simpatizzando per lui e per il suo sentimento, anche se rompere delle tradizioni, una quotidinità che ci è mostrata in tutta la sua forza rituale, non è così facile.
Le immagini si susseguono in tutta la loro potenza e poesia davanti i nostri occhi, e se gli interpreti sono il più naturale possibile, è impossibile non vedere un messaggio politico e sociale nel film, soprattutto con quel finale, in cui modernità e fissità si incontrano.
Good Kill
C'è ancora bisogno di questa retorica americana nel mondo del cinema?
C'è ancora bisogno di un film che a ormai più di 10 anni da quel fatale 11 settembre vada ancora ad esplorare dinamiche di guerra e cerchi di denunciarle nonostante l'opinione pubblica e lo stesso pubblico sia ben preparato a riguardo?
La mia risposta sarebbe no, proprio no, soprattutto se un film che si propone di questi obiettivi è poi tanto inutile quanto poco sopportabile come l'ultimo di Andrew Niccol, che sembra passare da progetti esaltanti a tonfi e scivoloni.
Tornando a collaborare con Ethan Hawke, gli offre un ruolo che non solo sa di già visto ma che è zeppo di cliché: un pilota dell'aereonautica che non vola più, le cui missioni giornaliere consistono nel guidare i droni dalla comodità di Las Vegas sopra obiettivi iracheni su cui far fuoco, i sensi di colpa che crescono, gli ordini che si aggravano, l'alcool come rifugio e la redenzione finale, sia lavorativa che matrimoniale.
Basta, non se ne può più.
Perchè oltre al tenente Tommy Egan, anche il film spicca per i suoi cliché, con l'arrivo di una recluta coscienziosa e ribelle che guarda caso fa gli occhi dolci a Egan, con un capo schietto e sincero, con una moglie insoddisfatta.
Il quadretto è completo, e anche se Good Kill ci mostra dal dentro le guerre 2.0 combattute a 11.000 chilometri di distanza, la sua realizzazioe è così approssimativa e così priva di vere sorprese che non c'è né scandalo né emozione.
Hawke appare più stiracchiato del solito, January Jones non esce dal ruolo della moglie frustrata e legnosa con cui l'abbiamo conosciuta in Mad Men, la stelletta in ascesa di Zoe Kravitz (figlia di Lenny) appare non usata al suo meglio.
Tutto fa quindi gridare alla noia e al già visto, e il concorso si chiude tra i fischi.
Nessun commento:
Posta un commento