Fotografie e pazzia.
Si può ridurre a questi minimi termini il film di Rick Alverson che sui minimi termini sembra costruito.
Scene che sono quadri a camera fissa, interrotti solo qua e là da brevi movimenti di macchina.
Storia che è una somma di viaggi, di tappe e di presa di coscienza sulla pazzia, su dove davvero si annida, su come non la si combatte.
E poi ci sono le interpretazioni che giocano con questo contrasto, con la fissità del protagonista Tye Sheridan -che sì, ha sempre quella faccia un po' così, da cane bastonato o da ragazzo inquietante- che si contrappone all'esuberanza di un altrettanto inquietante Jeff Goldblum e un eccessivo -francamente troppo- Denis Lavant.
Detto questo, di che parla The Mountain?
Anche la trama si può ridurre all'osso in un giovane orfano che segue l'ex medico della madre di ospedale in ospedale, facendogli da asistente fotografo alle sue lobotomie.
Sotto, a scavare, ci sono tensioni sessuali di mezzo, c'è il bisogno di un padre e di una madre, di un compagno e di ammirazione ad unirli. C'è la consapevolezza, forse inconscia, di essere a loro volta malati.
Ma, stancamente, il film procede senza troppi scossoni, piazzando gli sfoghi alcolici di Denis Lavant qua e là, sfoghi a loro modo pieni di poesia, ma decisamente fuori luogo.
Si spinge troppo sul lato artistoide, quindi, si perde in genuinità e soprattutto in forza di racconto. Non bastano le immagini, non bastano i numerosi quadri pieni di bellezza o la bellezza di Hannah Gross a risollevare dalla noia e pure dal fastidio un film che presto si dimenticherà, come fortunatamente si sono dimenticate certe pratiche mediche inutilmente dolorose.
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