1 settembre 2014

Venezia 71 - Hungry Hearts | The Cut | Jackie & Ryan | Nobi

Più in ritardo rispetto al solito arriva la sintesi di quanto passato sugli schermi della mostra oggi. Ieri è stato un giorno di pausa forzato, e quindi si è recuperato -con sveglia all'alba- il secondo film italiano in concorso, un'altra storia romantica e musicale, più epopee quasi agli antipodi per come raccontate.
Di questi, diciamolo pure, solo i primi due si salvano a pieni voti.

Hungry Hearts
La coppia che non ti aspetti è quella formata dall'italiana Alba Rohwacher e l'americano Adam Driver. Da sempre legato ai ruoli indie (vedi la serie Girls o il film Frances Ha di prossima uscita), l'attore è stato ingaggiato da Saverio Costanzo nella sua trasferta newyorkese, in un film che, almeno nella primissima parte, assomiglia proprio alle classiche commedie indie, leggere e con quello stile pop/vintage che tanto piace.
Ma l'allegria di un amore che nasce nel luogo meno romantico possibile -e nel momento meno romantico- viene presto a scemare, perchè con la gravidanza imprevista, la futura madre Mina inizia a proteggere in modo pericoloso il suo bambino: niente medici tradizionali, niente medicine tradizionali, solo cibo biologico prodotto in casa e soprattutto niente carne e derivati animali.
Con queste scelte estreme, che coinvolgono anche un'ossessione verso lo smog cittadino e le radiazioni esterne, il rapporto con Jude si incrina, portando entrambi a nascondere i loro metodi per nutrire al meglio il figlio. Mina non fa però che peggiorare, e quando un pediatra -visto di nascosto- conferma a Jude che il figlio non cresce e rischia seri danni di salute con questa alimentazione, non si può che arrivare al peggio, con raggiri e menzogne che non aiutano Mina ad uscire dalla sua condizione.
Costanzo giostra l'importanza dell'argomento con molta sensibilità, non puntando il dito, ma mostrando conseguenze e danni, usando la sua macchina da presa come un occhio esterno che osserva, che inquadra i momenti felici passati e lo sfociare in una situazione carica di ansie e di segreti reciprochi. Lo fa con inquadrature e angolazioni ricercate, che spiano i corpi pericolosamente magri, i momenti di tensione e gli sguardi sempre più persi e privi di amore dei protagonisti.
Il risultato è quindi convincente, e anche se l'inglese della Rohrwacher non è dei migliori, la sua interpretazione colpisce, perchè ben presto vi pruderanno le mani. Driver si conferma, se necessario, sempre bravo e naturale.
Interni e costumi da copiare.


The Cut
Un'epopea che più classica non si può, sia nel racconto fiume che negli stilemi utilizzati non certo al loro meglio.
Fatih Akin torna alla regia e a Venezia facendo partire la sua storia nel 1915, con lo scoppio della I Guerra Mondiale alle porte, e l'invasione turca che costringe alla schiavitù e alla morte milioni di armeni. Tra questi c'è Nazaret, marito e padre devoto, che verrà catturato e costretto ai lavori forzati per più di un anno, fino a che la sua condanna non arriva, da cui si salverà solo e fortuitamente, dando inizio così ad un vagabondaggio senza fine e senza voce, strappatagli con quel taglio che doveva portagli via la vita.
Alla ricerca della sua famiglia troverà nel deserto morti e moribondi come lui, e solo per miracolo scopre che le sue due figlie sono ancora vive, e vagano anche loro da qualche parte nel mondo.
Parte così una seconda parte del film, più leggera, quasi, che vede Nazaret andare di viallaggio in villaggio, fino a Cuba e negli Stati Uniti per ritrovare quel po' di famiglia che resta, e qui Akin si perde -anche se in fondo si era perso già prima- trasformando sempre più il suo protagonista in un eroe, e ricorrendo in modo ridonandate ai simboli di nostalgia che una sciarpa cucita a mano e una canzone ricordano.
Nulla da eccepire sul livello tecnico, con ottime scelte fotografiche particolarmente suggestive, ma il genere implica un melenso eccessivo, e un finale che dopo 138 minuti appare fin troppo frettoloso.
Nota a parte: bravo l'attore protagonista, Tahar Rahim, ma il suo non invecchiare a fronte degli anni che passano e di quanto subito, lascia perplessi.


Jackie & Ryan
Il folk è decisamente tornato di moda, non solo nella musica e nei vestiti, ma anche al cinema.
Dopo i fratelli Coen che con A proposito di Davis seguivano la parabola in discesa di un cantante sfortunato, anche Ami Canaan Mann, figlia d'arte, approda alla Mostra nella sezione Orizzonti con la sua opera seconda.
E colpisce.
Vero che l'argomento trattato non è dei più originali, ma a dare forza a questa storia d'amore tra due anime sole sono le interpretazioni sentite di Katherine Heigl (che dopo un serie di commedie anonime arriva al dramma) e di Ben Barnes, e ovviamente di una colonna sonora di quelle d'eccezione, che spazia dai grandi classici del country/folk americano fino a canzoni originali di grande impatto.
Il protagonista è Ryan, musicista di strada che passa di città in città, di marciapiede in marciapiede raccimolando elemosine, con la paura però di far sentire le sue di composizioni. Finchè non incontra Jackie, madre in procinto di divorziare, ex stella della musica ritornata nella città natale senza molti soldi e con problemi legali al seguito.
L'incontro tra i due è inevitabile, come lo scoccare di una scintilla, ma nulla di prevendibile, tutto avviene lentamente e naturalmente, con aiuti reciproci e uno scambio inevitabile che li porta entrambi a cambiare.
Folk è anche l'ambientazione, con il freddo Utah a fare da sfondo, equilibrata e sicura la regia, che non si perde in ghiribizzi inutili ma che nella sua semplicità arriva ovviamente al cuore.
Da comprare, o scaricare, la colonna sonora: basta la canzone finale per convincersi.


Nobi (Fires on the Plain)
Tsukamoto è il responsabile del mio pregiudizievole rapporto con il cinema orientale.
Il suo Tetsuo, visto ai tempi dell'Università, aleggia ancora come un trauma non da poco nella mia mente, e anche se, lentamente, questi pergiudizi cerco di metterli a tacere, spiace ammettere che questo Nobi non aiuterà di certo a farmi cambiare idea sul suo conto.
L'epopea in questione a cui si rimandava, è quella di un povero soldato che fin da inizio film è costretto a fare la spola da un comandante che lo trova troppo malato per lavorare, a un ospedale che non ha posto e tempo per lui. Ma questo è davvero solo l'inizio, perchè l'uomo dovrà ben presto cavarsela da solo in mezzo alla giungla, una volta che il suo intero plotone viene ucciso dal fuoco nemico. Parte così una lunga e sfiancante marcia alla ricerca di casa, con incontri fortuiti e sfortunati nel mezzo che lo vedono sempre uscire vivo, ma provato, con il cibo che scarseggia e gli amici a cui appoggiarsi che si fanno pericolosi.
Immersi con lui nella giungla, non si può non inorridire davanti lo splatter plateale di morti e mutilazioni, con la macchina da presa che va spesso e volentieri in soggettiva, con i volumi e il ritmo che incalzano aumentando l'azione.
Ma manca qualcosa, forse anche solo un senso, non per forza una morale, per tutto questo.
E il finale di certo non lo dà, facendo del racconto un altro racconto, dell'uomo un uomo ancora provato, segnato, impazzito.
Si esce interdetti, quindi, un po' stomacati, e non solo per quanto di truculento visto.



5 commenti:

  1. Come ti dicevo, sono curiosissimo per Hungry Hearts. Anche il film musicale con la Heigl mi attira. :)

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    1. Credo che potrebbero conquistarti entrambi, e anzi, per Hungry Hearts ti consiglio anche la lettura de Il bambino indaco da cui è tratto, se ne parla un gran bene :)

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  2. Guarda che Tsukamoto è giapponese, mica coreano.

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    1. La fretta e la stanchezza(e Kim Ki-duk che non si scorda)mi han fatto passare da orientale a coreano. Grazie per la segnalazione, ho corretto.

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  3. Su Hungry Hearts non sono molto d’accordo per quanto riguarda gli interni da copiare ma per il resto sì (come si potrebbe evincere dalla mia non richiesta opinione http://sabatopizza.blogspot.it/2015/12/hungry-hearts-di-saverio-costanzo-2014.html). Un film notevole e angosciante. Costanzo muove ottimamente la macchina da presa, le sue scelte di regia – a tratti coraggiose – sono oltremodo calzanti. Molto bravi i due protagonisti, la Rohrwacher in particolare, anche quando non dice niente dice molto.

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