28 gennaio 2018

La Domenica Scrivo - Solitudine (di Paesi solitari in cui né si nasce né si muore, di solitari per scelta, dello star bene da soli, o quasi)

C'è un'isola in cui si vive, ma in cui non si muore né si nasce.
È un'isola, anzi, un arcipelago, in cui nessuno ha abitato per anni. Solo dall'Ottocento qualcuno lì c'è andato, e ha deciso di fermarsi.
Questione di denaro, ovviamente, di giacimenti da sfruttare e di uomini da lasciare lì, a lavorare e vivere.
Sono isole quasi in capo al mondo, più vicine al Polo Nord che non ad altri Stati, ufficialmente norvegesi, in realtà luogo di nessuno, in cui non ci sono state guerre, non ci sono stati fatti storici degni di nota. Solo qualche paese -città sarebbe un eufemismo- nato e cresciuto, ognuno con lo stile dei lavoratori che c'andavano ad abitare, sovietici, quindi, perlopiù.
Sono isole in cui si andava e si va a vivere alla ricerca di pace, fuggendo da qualcosa più che andando incontro ad altro, in quella solitudine tipica del nord, del freddo e della neve.



Il sole non si vede per almeno tre mesi, durante l'anno, altre persone pure.
Anche se, nel mentre, proprio questa sua solitudine, questo suo essere in capo al mondo, particolare, incontaminato, solo, ha fatto di questo luogo un'attrazione turistica, con più voli giornalieri a collegarlo alla terraferma, con attività culturali nate per intrattenere almeno un po', per unire nella solitudine.
Sono le isole Svalbard, dove non esiste un cimitero, nessuno qui può essere sepolto, forse solo dichiarato disperso, in quelle distese di ghiaccio e neve dove gli orsi polari la fanno da padrone, e dove non si può nascere, con le donne, arrivate all'ottavo mese di gravidanza, trasferite altrove.
Un luogo a sé, fatto di abitanti temporanei, nessun bisogno di visto, nessuna scadenza, se non quella della vita, delle decisioni prese o da prendere, dei contratti di lavoro a cui adempiere, della vita vera, quella normale, fatta di più sole, di più persone, a chiamare.
Un sogno?
Un incubo?
Non il desiderio di tutti quello di vivere isolati, di vivere al buio, di vivere sconnessi a quello che si definisce normale. Meno di tremila abitanti, sempre fluttuanti, però ci sono.
E con il freddo rigido, con la luce che non c'è e la natura inospitale che non invita a scoprirla, non si può che restare in casa, in compagnia di sé o di poche altre persone, in una solitudine che può essere un conforto, può essere una condanna.
Sono sempre punti di vista.

C'è chi dalla società, dal mondo, si ritira.
Ci sono tanti Christopher McCandless nel mondo, che senza andare in luoghi estremi, si distaccano, si perdono o forse si trovano semplicemente. Prendere Christopher Knight come esempio, 27 anni vissuto fra i boschi, per scelta.
La solitudine non era un problema, non aveva amici, non era socievole, e un giorno, senza un vero motivo, fra i boschi del Maine si è incamminato e non è più tornato indietro, vivendo di furti nelle case vacanze lasciate vuote, accumulando ogni sorta di bene, cercando cibo, per più di vent'anni. Ma Knight non è McCandless, non si è allontanato contro una società che non lo rappresentava, non si è isolato per meditare, per ritrovare se stesso e scrivere pensieri e poesie.
Semplicemente, voleva stare solo.
E stando solo, si è ritrovato libero, anche se in una concezione diversa, senza nessuno a cui fare riferimento, a cui badare o tenere, a cui fare da pubblico o di cui essere attore.
Solo.
Semplicemente.
Certo, poi Knight è stato arrestato, colto in fragrante in uno delle centinaia di furti portati a termine, certo, bene bene non stava, un uomo solo che nei boschi ha vissuto per tutti quegli anni, e chi (Michael Finkel) lo ha intervistato non c'ha ricavato nessuna lezione di filosofia, nessun insegnamento di vita se non: dormite abbastanza.
Ma la scelta, radicale, fa riflettere.

Io, di mio, da sola sto bene.
Basto a me stessa.
Non a caso, sogno di andare in vacanza alle isole Svalbard, in crociera al Polo Sud, e in viaggio di nozze a Capo Nord.
A Venezia sono in grado di passare giornate senza rivolgere la parola a qualcuno, se non sporadici grazie alle maschere che passano il mio accredito, ai baristi che mi danno da mangiare.
L'ho imparato in una vacanza non certo memorabile, in compagnia di amiche che non erano amiche, che parlavano un'altra lingua, che erano fin troppo diverse da me. Lì, in una spiaggia francese che dava sull'oceano, mi sono voluta bene.
Oggi, a quella solitudine torno volentieri, ma oscillo, come un pendolo, dal piacere di stare sola, davanti allo schermo, davanti alle pagine di un libro, e il senso di colpa per non uscire, per non condividere qualche ora di sole, qualche parola, in più. È una solitudine diversa da quella delle isole Svalbard, da quella di Christopher Knight. Meno estrema, con il giovine che tanto poi torna da lavoro, con gli amici che comunque nel weekend si vedono, anche se spesso conto gli episodi che avrei potuto vedere, le pagine che avrei potuto leggere, senza la loro compagnia. Ma è una solitudine in cui mi piace cullarmi, di cui mi piace lamentarmi.
Forse, è solo il destino di chi decide di perdersi in altri mondi, in galassie lontane o semplici estati del 1983, una solitudine in realtà affollata di personaggi, di sogni altrui, di avventure a cui partecipare.
Una solitudine vissuta in altri mondi, creati, scritti, diretti, e che per questo, fanno sentire meno soli.

Un bellissimo reportage di Paolo Giordano sulle isole Svalbard lo si può leggere QUI
La storia di Christopher Knight QUI
Quella delle mie avventure, dei personaggi con cui condivido la solitudine, ogni giorno, qui.

2 commenti:

  1. Praticamente a Fortitude...ma non so se mai ci andrei, ok la solitudine e il freddo? ;)

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    1. Bravo che mi hai ricordato Fortitude, non l'avevo messa in lista, ma me ne avevano parlato e ora la curiosità è ancora più forte. La vedrò. E magari ci vado pure, il freddo non lo temo, o al massimo me ne lamenterò :)

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