4 giugno 2019

When They See Us

Mondo Serial

1989. Central Park.
Mentre un gruppo di amici corre, urla, fa festa, una donna viene stuprata.
Quegli amici, o almeno 5 di loro, proprio perché urlavano, correvano, facevano festa, vengono accusati di quello stupro.
Il particolare che manca è che quel gruppo di amici aveva la pelle scura. Afroamericani e ispanici. Tutti minorenni, dai 14 ai 16 anni, in una normale sera in cui uscire e divertirsi.
Succede che il caso di stupro in questione sia l'ennesimo in una città calda come New York, succede che i procuratori e i detective decidono di fare 1+1, unire casi lontani (per orario, per luogo all'interno del parco) e incastrare tutto iniziando ad interrogare quei minorenni, senza genitori, senza avvocati, privandoli di sonno e cibo, picchiandoli anche. Estorcendo, insomma, una confessione.
Cinque confessioni, tutte diverse, in cui ci si accusa e ci si scagiona a vicenda, senza nemmeno conoscersi, ricostruendo fatti dettati e trascritti dalla polizia stessa.
Le accuse sono pesanti, le prove fisiche non ci sono, solo quei video e quei testi firmati e controfirmati che bastano alla giuria per dichiararli colpevoli.



È il 1989, si diceva, e questi 5 ragazzi si vedono strappati dalle loro famiglie, dalle loro comunità, accusati e perseguitati fuori e dentro il carcere, con una campagna mediatica sostenuta anche da Trump, che spese 89 mila dollari per pubblicare un appello a favore della pena di morte.
Il materiale, è quello caldo e politicamente schierato che non poteva trovare mani migliori di Ava DuVernay per essere trasformato in una miniserie. Razzismo, ingiustizia, discrepanze economiche permeano tutto il racconto, tutta la storia vera di un fatto di cronaca che si fa metafora, esempio lampante di come le cose (non) vadano negli Stati Uniti.
Se i primi 2 episodi si concentrano su quel prima, su quel 1989 fatto di interrogatori e confessioni, di arringhe e giudizi, gli ultimi due passano al dopo: il difficile reinserimento nella società, con una fedina penale sporca e mille porte chiuse in faccia, e la vita in prigione, dove guardie chiudono gli occhi, giudici mandano un 16enne in un carcere d'adulti.


Il messaggio è forte e chiaro, e fa male.
Un male difficile da rendere a parole per l'ingiustizia a cui si assiste, doppia se si pensa che il vero colpevole era stato lasciato libero di colpire ancora.
Un male che si trasforma in lacrime di dolore e di rabbia, in un ultimo episodio da incastonare in cui la vicenda di Korey Wise, la sua lunga battaglia per la verità e la sopravvivenza dietro le sbarre è quanto di più traumatico si possa seguire.
Vicende che parlano di ingiustizia o di giustizia sommaria, che mostrano un sistema che non funziona, non comunica guardando ai numeri e alla propaganda, hanno una facile presa su chi guarda, resta coinvolto e indignato, ma anche questa volta Ava DuVerney e Netflix fanno di più.
Come il più educativo 13th, si punta a un racconto a tutto tondo, in cui le famiglie, madri, sorelle e fratelli prendono parte, si punta su una ricostruzione fedele e rispettosa dei fatti, con attori miracolosi, nella loro versione adolescente come adulta, con Jharrel Jerome a meritarsi applausi e lacrime a scena aperta. Gli unici nomi noti (Vera Farmiga, Felicity Huffman, Joshua Jackson e Michael K. Williams) servono a sostenere le loro spalle.
Gioca bene le sue carte, la DuVernay, tra raccordi temporali e momenti chiave, gioca al meglio in quel finale in cui il sogno di Coney Island, i fantasmi di Korey, gli tengono compagnia in isolamento.
Vista come un prodotto di finzione, come una ricostruzione fedele, When They See Us è inappuntabile.
Vista come messaggio politico e di denuncia, con stoccate a Trump stesso, con la comunità e il senso di giustizia chiamati in causa, When They See Us è un proclama che non può lasciare indifferenti.
Tra rabbia e dolore, chiede ed esige cambiamenti.


Voto: ☕☕☕☕½/5

7 commenti:

  1. Perché ci sono di nuovo tutte queste serie da vedere? Non che sia un male, ma stanno spuntando diverse cosine tutte insieme. Di questa ho visto un pezzettino del trailer sul paginone di Netflix, mi ha fatto pensare a “The night of”, ed ora che mi dici che ci recita anche il grande Michael K. Williams, i gradi di separazione diminuiscono. Ti ringrazio per l’ottima analisi, i drammi carcerari mi prendono sempre a calci sui denti, ma alla fine finisco sempre per vederli, sono un po’ masochista. Cheers!

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    1. Non dirlo a me: ho almeno tre titoli in attesa e che non posso toccare senza il giovine, con altrettanti pronti a partire/tornare sulle varie piattaforme. È il cambio di stagione, e come sempre mi trovo impreparata.

      Ho pensato spesso a The Night Of durante questa visione, soprattutto nella seconda parte, ma essendo una storia vera, essendoci di mezzo un'ingiustizia sociale ancora più forte, sa fare ancora più male. Prepara lo stomaco e i denti, di pugni ne arrivano parecchi: ho passato l'ultimo episodio in lacrime.

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  2. Gli States, a differenza dell'Italia, fanno film mostrando la loro sporcizia morale.
    Noi, imitiamo gli americani solo nei difetti.

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    1. Non sono d'accordo, se penso a Sulla mia pelle, o anche solo al recente Il Traditore, anche noi italiano sappiamo lavare i panni sporchi su schermo.
      Il marcio purtroppo c'è ovunque, e certi autori sanno raccontarlo per denunciarlo.

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    2. Forse sull'assassinio di Moro il film "Buongiorno, Notte" di Marco Bellocchio, ma la ricostruzione più che reale è fantasiosa.

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  3. A questo punto hai alzato "leggermente" le aspettative. ;)
    Adesso che ho completato la visione di qualche altra serie e ho la testa per iniziarne una nuova, questa sembra la candidata ideale!

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    1. Più che la testa, prepara lo stomaco. Raramente sono stata così male con una serie TV, forse solo con Sorry for your loss... ho alzato ancora di più l'asticella?

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