È una pianta che serve a dare la felicità, ma non si chiama Maria.
Si chiama Little Joe, è geneticamente modificata in modo da rilasciare dietro le debite cure, sostanze capaci di far star bene.
Ripeto, non si chiama Maria, si chiama Little Joe.
Come Joe, il figlio di Alice, figlio di cui si prende cura da sola, il marito se n'è andato in campagna e lei oberata e amante del suo lavoro, si sente in colpa ad abbandonarlo in continuazione.
Ma il lavoro le piace, quasi quasi è quello che la soddisfa di più nella sua vita fatta di cibo pronto e operazioni tecnicamente non etiche da difendere pur di rendere pronto il suo Little Joe in tempo per l'annuale fiera.
Non ha tempo per l'amore, nemmeno se arriva da un collega dedito come Chris.
Non ha tempo nemmeno per Joe, che cambia, inizia a cambiare proprio quando lei porta a casa un Little Joe.
È la pianta stessa che lo sta cambiando, come sostiene quella collega poco stabile?
È l'adolescenza che si fa sentire, che porta a scontri e mutamenti?
Quella pianta che deve dare la felicità, non più blu ma rossa, ora la si guarda con sospetto. Cosa è in grado di fare pur di propagarsi?
Il film di Jessica Hausner è studiato tutto sui non detti.
E sullo stile.
Lo si capisce già dai titoli di testa e si prosegue con quelle inquadrature pulite e geometriche, con la macchina da presa che prosegue i suoi carrelli oltre i protagonisti che parlano creando un senso di straniamento reso ancor più evidente da una colonna sonora volutamente ingombrante.
Che vuole dirci la Hausner con le sue scelte registiche?
Vuole trasmettere quell'angoscia, quei dubbi, che poco a poco la stessa Alice sente crescere nel vedere quella pianta che tanto protegge cambiare i suoi colleghi, chi le sta intorno?
O è lei che bene non sta, che immagina cose, che non vuole vedere la realtà dei fatti e rimettendo in discussione il suo ruolo di madre e di lavoratrice?
Il dubbio, resta.
Resta sospeso anche in quel buio e in quella voce improvvisa che risponde.
Little Joe invece si dimostra un film strano e straniante, stilosissimo e curatissimo.
Asettico pur con i suoi lanci di colore rosso, elegante nel suo minimalismo.
Emily Beecham con grazia e freddezza regge il film dall'inizio alla fine, premiata a Cannes è messa in ombra solo dal nome di Ben Whishaw che a conti fatti poco si vede, poco dà, se non altri brividi.
Che una pianta che deve dare la felicità provochi invece angoscia, può succedere.
Anche se si chiama Maria.
Che lo dia un film significa che è quello strano, ma giusto.
Voto: ☕☕☕/5
Lo avevo segnato ai tempi di Cannes, mi ispira moltissimo!
RispondiEliminaMoolto particolare, così tanto che ammetto che possa piacere come essere trovato pretenziosissimo. Mi dirai ;)
EliminaAnche io devo vederlo in questi giorni perché mi attira moltissimo, soprattutto per lo stile che si evince già dai fotogrammi.
RispondiEliminaStile da vendere e ammirare, vedrai!
EliminaConsiderando che la regista è quella di Lourdes, con cui è riuscita a dare un senso all'esistenza di un brano di Al Bano e Romina, non faccio fatica a credere che sia un film strano. :)
RispondiEliminaLourdes ancora mi manca, ma se è riuscita in una tale impresa dovrò recuperarlo!
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