14 novembre 2015

Dheepan - Una Nuova Vita

Andiamo al Cinema

Io e il Festival di Cannes siamo sempre andati d’accordo.
Soprattutto ultimamente, premiando entrambi Amour e La Vita di Adele, amando poi particolarmente anche The Tree of Life, e guardando più indietro, almeno fino al 2000, le sue Palme d’Oro le ho sempre appoggiate e approvate senza riserve.
Qualcosa si è incrinato però lo scorso anno, con quel Winter Sleep che mi ha fatto letteralmente dormire, che con il suo ritmo lento e infinito, mi ha stremato, nonostante le bellezze della Cappadocia.
Ovvio quindi che la scelta di premiare una storia dura di immigrazione e ambientazione, di una famiglia in fuga dalla guerra che non trova certo la pace una volta entrata in Francia, non mi entusiasmava particolarmente.
La fiducia a uno come Jacques Audiard la davo comunque, anche se forse sono stata la sola a patire un po' le tragedie che si susseguono in Un sapore di ruggine e ossa.


Ma veniamo a Dheepan, che rispetto al film precedente, abbandona il sole della costa Azzurra, mette da parte nomi di prestigio nel cast: siamo in Sri Lanka, la guerra, i morti, non hanno fine, e in un campo di rifugiati, i destini di tre disperati si uniscono. Ad unirli i tratti e le età simili a quelli di volontari di cui non conosciamo la sorte, e prendendo i loro passaporti, possono riuscire ad entrare come rifugiati in Francia, a Parigi.
Dheepan è un ex soldato, che per gli orrori continui ha abbandonato la divisa, Yalini è invece una giovane senza famiglia che vuole raggiungere la cugina a Londra, e per farlo non disdegna di prendere l'orfana Illayaal e farla passare come sua figlia.
Attraversato il mare, arrivati a Parigi, saranno costretti ad integrarsi, che purtroppo significa anche umiliarsi, diventando venditore ambulante, costretti in un monolocale di fortuna, finché l’assegnazione in un alloggio nella periferia con tanto di lavoro come custode, non peggiora le cose. Certo, una casa c’è, i soldi pure, l’educazione anche, ma vivono in un ghetto dove la guerra continua, anche se per strada, anche se tra bande. E basterà poco per far riaffiorare paure e follie, che allontanano e avvicinano questa famiglia provvisoria alla ricerca di un equilibrio.


Con una messa in scena secca, dura e senza troppe edulcorazioni, Audiard non ci risparmia niente, mettendo insieme un film che è un film politico.
Ed è proprio questo il suo difetto ai miei occhi, difetto che offusca un ritmo che non si perde, una fotografia che sa ferire (vedi la scena delle lucine blu, soprattutto) e una secchezza della messa in scena fa male, ma è un male necessario, che fa capire anche a chi sente distante il problema dell’immigrazione cosa veramente l’immigrazione è, facendo capire soprattutto che le soluzioni cuscinetto, il ghettizzare questi stranieri, non può portare a nulla di buono, ma farà solo prevalere i classici “cattivi”, con l’inevitabile delinquenza e spaccio di droghe come conseguenze.
Ma è nel finale che Audiard si fa più politico, scivolando.
Dall’inferno che ci ha descritto, inferno che letteralmente brucia, si passa a un impossibile paradiso al di là de La Manica, dove tutto sembra perfetto, pulito, ordinato.
Una stoccata alla sua Francia e al suo modo di affrontare il problema emigrati?
Probabile.
Una stoccata che la Francia stessa ha fatto prevalere con l’assegnazione della Palma d’Oro, ma una stoccata che lascia basito il pubblico, lascia basita anche me.


2 commenti:

  1. Non sei la prima che sento perplessa.
    Resto comunque molto curioso.

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    1. A lasciare un po' cosi sono i minuti finali, il resto é un resoconto secco e duro di una realtà che sembra cosi distante e invece...

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