Andiamo al Cinema
Le città di pianura sono città in cui c'è poco da fare.
Ci sono i bar, in cui trovarsi, in cui andare, in cui bere, ancora, in cui bere l'ultima che però forse non è l'ultima, è l'ultima in quel bar, che deve chiudere e allora se ne cerca un altro, che però poi deve chiudere e allora se ne cerca un altro, ancora…
Serate che non vogliono finire in città in cui altro non c'è da fare.
È la vita di molti, nelle città di pianura, di chi in queste città, in questa pianura, in questi bar e in queste bevute, si perde. O forse si trova, non avendo un altro posto dove andare, non avendo una casa a chiamare, una vita diversa a cui aspirare.
È un po' la vita di chi ho visto passare nel bar di famiglia, è un po' la vita di parte della mia famiglia, che esce di casa senza una meta precisa, senza un orario di rientro preciso, e che poi la vita la vive avventurandosi come viene, vivendo alla giornata, o meglio alla serata.
Carlobianchi e Doriano sono così: due beoni, due amici da sempre, da sempre insieme, da sempre a bere. Altro non hanno da fare. Si muovono di bar in bar, sul viale dei ricordi, disturbando il giusto, senza importunare. Approfittare quello sì, appena si può, in piccole o grandi truffe che hanno il sapore delle zingarate.
La serata (che diventano almeno tre) in cui li seguiamo, è però una serata speciale. È quella prima del grande ritorno di un amico scappato in Argentina, un amico che per loro è stato un mito, un idolo, di cui ancora ricordano le prodezze e di cui ancora vantano l'onestà, pur nelle truffe. Una giornata pianificata sul viale dei ricordi, in cui rivivere tutto, progettando il Grande Giorno di Genio, un nome che dice tutto.
In quelle città di pianura che si ritrovano a percorrere in sua attesa, c'è Treviso, con il suo minuscolo aeroporto trappola per turisti, c'è Venezia, anche, con i suoi bacari e le sue calli, e ci sono le strade che costeggiano mostri edilizi e ville antiche da preservare e una natura fatta di campi e boschi. C'è una certa desolazione, una certa malinconia, una certa mestizia, anche, in case e confini e campi e villette e cementificazione.
Nel loro vagare, nel loro vivere la vita così come viene, sbagliando aeroporto e perdendo quell'amico alla ricerca dell'ultima bevuta, del bar giusto, della giusta mangiata, incontrano Giulio, che la vita invece non sa come viverla.
Troppo impegnato dentro a compiti e esami e revisioni universitarie per vivere davvero, troppo timido e chiuso e diverso dai suoi amici per non mettersi a ballare, a bere, a fare l'amore, a non approfittarne, dei segnali che Giulia gli lancia, rimandando ancora e ancora a un'altra vola. Anche se chi sa se ci sarà un'altra volta.
Come li metti insieme, due così con uno così?
Il film di Francesco Sossai ha il sapore dei piccoli film capaci di fare il balzo. E infatti lo sta facendo, complice l'ennesima, riuscita, campagna di Lucky Red, che l'ha fatto uscire prima nel nordest in cui è ambientato, poi in tutta Italia e che grazie al passaparola sta riempiendo le sale.
È un film fatto di strade, di discorsi, di momenti e bevute che si alternano.
Di ricordi anche, e storie di vita e leggende non tanto metropolitane, quanto di piccole città, che si susseguono, che portano dentro la vita di Carlobianchi e di Doriano e di Genio, che vediamo con gli occhi curiosi, un po' spaventati e un po' invidiosi di Giulio, che lentamente si lascia andare, affascinato da uno stile così distante dal suo ma forse capace finalmente di scuoterlo. E portarlo anche là dove aspettava di andare da anni, in quel Memoriale del Brion che diventa una grande metafora.
Impossibile, per me, non sentirmi chiamata in causa, ad osservare quei luoghi e quei non-luoghi che conosco bene, che ho percorso e che ho incrociato e che ho pure rimandato. Sono riusciti a girarci anche Dune 2 al Memoriale, ma io che ci abito a venti minuti di distanza, ancora non ho trovato il tempo di andarci.
Si rimanda, a quella prossima volta che chi sa se ci sarà, e allo stesso tempo si continua, senza sapere quando finire, perché finire, dovendo berne ancora una, l'ultima?
È la vita di pianura, che si riempie così, tra nostalgia e malinconia, senza invecchiare o forse invecchiando troppo presto.
Nei suoi dialoghi estemporanei, nella sua filosofia da bar, nei suoi scambi tra il serio e il comico, la sceneggiatura regala perle, così come fanno Sergio Romano e Pierpaolo Capovilla, interpreti schietti e grezzi, che fanno sentire l'odore, il peso, l'unto di quelle bevute.
La colonna sonora non è da meno fatta di stornelli che sembrano quasi lamenti, in un dialetto cantilenato che fa sorridere non appena si decifrano le parole, per non parlare dell'entrata in scena de I Belumat con la loro musica da balera parodistica, piccoli idoli della mia adolescenza che hanno fatto sussultare il cuore.
In mezzo a tutto questo Veneto, c'è Filippo Scotti a fare da equilibrio: per età, per modi, per stile. È il suo sguardo quello a cui aderire, quello con cui cambiare il punto di vista e che riesce a cambiare la storia, il film. In meglio.
Andrea Pennacchi ha quel ruolo da Pennacchi, un po' specchietto per allodole, un po' volutamente in disparte, tanto da cambiare volto, nei flashback che lentamente mostrano una storia, in mezzo a queste bevute, mostrando le ragioni di queste bevute e portando i pezzi del racconto al loro posto.
Ha un ritmo lento, Le Città di Pianura, di quei film che chiedono pazienza, di quelli in cui è facile perdersi, ma in cui alla fine ci si ritrova sentendo l'importanza del percorso, della strada fatta.
Costruisce piano, Sossai, mattone dopo mattone, lasciando vuoti e lasciando l'armatura a vista, realizzando una storia, un film, che a fatica si scrolla di dosso.
Sono le piccole storie, le piccole città, le mie per davvero questa volta, quelle che nascondono una grande bellezza.
Voto: ☕☕☕½/5
P.S.: Patriottica non lo sono di natura, ma questa piccola rinascita del cinema locale, del cinema veneto, mi rende un filo fiera della mia terra.
Più pulp, più comico, più veneto, ora che Le città di pianura sta conquistando il suo pubblico, spero che lo trovi anche un film più piccolo e più indipendente come Brenta Connection, che se lo merita.
Quindi lo hai apprezzato, ma anche per questioni "affettive" ;). A me non ha convinto del tutto. Non male ma niente di che. Una curiosità: nella scena finale del gelato sbagliato ("mi aspettavo l'amaro e invece alla fine è dolce") hai visto anche tu una specie di manifesto programmatico del film?
RispondiElimina