27 giugno 2025

28 Anni Dopo

Andiamo al Cinema

28 anni fa mi innamoravo di Cillian Murphy.
Diciamo che in realtà sono 23 anni, perché era il 2002 e usciva 28 giorni dopo noleggiato in una spinta di coraggio perché "ehi, è il regista di Trainspotting!" finendo terrorizzata non solo per le scene in sé ma con la realtà che copiava gli attacchi degli infetti grazie ai cani che tornati dalla loro passeggiata si sono messi a grattare la porta di casa neanche volessero mordermi e contagiarmi.
Mi innamoravo non tanto per il suo nudo integrale con cui viene presentato (anche se come imprinting non è male, tenendo conto che passa il 30% del film svestito -queste sono le analisi dell'internet che approvo), dicevo, non tanto nella sua versione barbuta e spaesata che si risveglia dal coma trovando una Londra vuota e desolata, non tanto per il suo Hello?! ripetuto allo stremo, ma per la sua versione ripulita e umana che decide di prendersi cura di Frank e Hannah nonostante le ovvie ritrosie dell'istinto di sopravvivenza di Selena.
Mi innamoravo di nuovo di Danny Boyle, soprattutto, nonostante qui alle prese con un horror, con il suo stile esagerato e diverso, che sperimenta e che sperimentava con nuove tecnologie digitali a rendere più veloci, più fluide e più adrenaliniche le riprese, fatte all'alba di una Londra che doveva ancora svegliarsi e che vista oggi sembra in pieno lockdown, ma anche di infettati che si muovono come animali o come ballerini professionisti, basta scegliere.
Mi innamoravo di un genere zombie che ripartiva e che in fondo mi ha sempre affascinato nelle storie che può raccontare.


18 anni fa, invece, non mi innamoravo di Robert Carlyle e di Jeremy Renner.
Non solo per dei personaggi molto discutibili -un marito codardo che lascia in pasto agli infetti la moglie e un soldato con coscienza e sacrificio che però sempre un militare è.
Non mi innamoravo 18 anni fa di 28 settimane dopo anche perché l'ho recuperato solo qualche settimana fa.
Nel 2007 ero forse più paurosa e non così interessata a un sequel senza Cillian, senza Danny (anche se la parte finale l'ha diretta lui, e resta produttore esecutivo assieme ad Alex Garland pur lasciando campo aperto a Juan Carlos Fresnadillo).
Col senno di poi, non mi dispiaccio di aver perso un seguito che ha molti buchi di sceneggiatura, che è molto più militare di un primo capitolo dove i soldati rappresentavano la parte peggiore dell'umanità, quella che per andare avanti ha bisogno di sfogare certi impulsi neanche fossimo regrediti in 28 giorni appena.
Dicevo, buchi grandi, buchi grossi, che se quello era il piano per salvare il salvabile di una popolazione che stoicamente aveva resistito, beh, quel piano fa acqua fin da subito. Voglio dire, sopravvivi con coraggio, vedi morire tutti attorno a te, e poi vieni rinchiuso in uno scantinato senza porte blindate come fosse quella la sicurezza estrema per debellare una nuova ondata di epidemia?
Che soluzione è mai questa? Per non parlare di fughe in auto, cecchini dalla mira pessima, tunnel bui in cui infilarsi…


28 anni dopo, o quasi, oggi insomma, torno a innamorarmi di 28 anni dopo.
Torno a innamorarmi di Danny Boyle e di Alex Garland, che l'apocalisse torna a raccontarla ancora e ancora, con un regista che continua ad amare la sperimentazione e qui si diverte a mettere in gioco droni e IPhone, a mettere alla prova troupe e attori chiamati a cavarsela in campi sterminati, in una natura bella come è quella scozzese, immaginando un futuro che appartiene al passato. 
Sono passati 28 anni e la Gran Bretagna è isolata peggio che con la Brexit, abbandonata a se stessa, in quarantena perenne con i confini sorvegliati vuoi dai francesi o vuoi dai finlandesi.
I sopravvissuti hanno imparato ad arrangiarsi, a ricominciare guardando al passato.
I fortunati che incrociamo sono quelli dell'isola di Lindisfarne, fortunati perché in un'isola più facile da sorvegliare, con una strada che con la bassa marea permette di tornare sulla terraferma dove procacciare legna e combustibile, e alla buona andare a caccia di infetti che nel mentre si sono evoluti, invece, dividendosi in alfa e slow-low, capaci pure di riprodursi, pensa te!


Una comunità, quella isolana, che si basa sul baratto, sull'allevamento, la coltivazione e una distinzione dei ruoli piuttosto netta neanche fossimo in un nuovo Medioevo, con i giovani chiamati a prove di coraggio, ad andare in missione sulla terraferma e provare la loro destrezza con arco e frecce.
Non va certo bene a Spike, già in conflitto con un padre duro e che duro lo vorrebbe, con una madre malata e nessun medico a poterla curare.
Nella sua prima uscita non dimostra troppo coraggio o troppa precisione, e spaventato vede nel peggiore dei modi tutte le bugie che quel padre racconta.
Scappa, allora, e messa da parte la paura si fa improvvisamente bimbo impavido capace di difendere la madre e sopravvivere anche per colpi di fortuna, trovando un medico disposto ad aiutarlo, anche se non come lui vorrebbe.
28 anni dopo diventa così due film in uno.
Due missioni sulla terraferma che vedono nell'arco di una notte cambiare atteggiamento e pure capacità di tiro, il giovane Spike.
Ma si perdona questa velocità per quello che Danny Boyle racconta e per come lo racconta.
Per gli attacchi, le fughe, per i paesaggi che diventano bucolici e sinistri allo stesso tempo, per una cattedrale di ossa che impressiona come impressiona Ralph Fiennes, che entra in scena e si mangia tutti quanti.


Sarà che non ho troppo simpatia per Aaron Taylor-Johnson e per Jodie Comer, con il loro accento qui esageratissimo che li rende più finti del dovuto in un film più vero e sporco. Certo, c'è il giovane Alfie Williams con la faccia giusta e la grinta giusta, ma è Fiennes che resta, personaggio da raggiungere, da decifrare, da sospettare nella sua umanità alla deriva.
Gasati dalla colonna sonora degli Young Fathers che rende i giusti omaggi a quella rock creata da John Murphy nei capitoli precedenti, e che sperimenta al fianco di Boyle con un montaggio che va a pescare nel passato, militare, medioevale, televisivo (i Teletubbies, voglio dire, quanto sono ancora più spaventosi i Teletubbies in questo contesto?), dicevo, alterna le sue riprese a quelle di documentari e film passati in metafore che non possono non sfuggirci, in un modo magari un filo troppo sottolineato ma confezionato per essere intrigante.
28 anni dopo è il primo capitolo di una trilogia che mi rivedrà in sala già a gennaio 2026, con quella coda finale che forse poteva funzionare meglio come scena post credit ma che mette voglia di tornare per conoscere un Jack O'Connell versione Targaryen.


Sono passati 28 anni o poco meno, e se nel 2002 Danny Boyle ha segnato un immaginario e riportato in auge gli zombie andando a influenzare vuoi serie TV, vuoi videogiochi, oggi torna e pur sentendo che certe tematiche restano quelle, di fuga e sacrificio, di lasciar andare e trovare il coraggio di lasciar andare, lo fa nel modo più umano e sperimentale, tamarro e poetico.
Quello che rende affascinante anche una cattedrale di teschi e ossa.

Voto: ☕☕½/5

2 commenti:

  1. Prevalga l'Inghilterra ma di sicuro non in senso patriottico, visto che le critiche ci sono, spesso urlate (mannaggia Garland), però oh, fa quasi piacere tornare qui anche se da una pandemia ormai ci siamo passati tutti, ed ora si attende l'ossuto seguito! Cheers

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  2. Quanto ho pianto, mamma mia.

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