I Love Pixar

Finalmente è giunto il momento di dare alle stampe la mia tesi della specialistica. 
Indecisa per mesi su cosa incentrarla, la folgorazione è avvenuta durante la mostra per i 25 anni della casa di produzione allestita a Milano. Di lì mi sono buttata a capofitto in questo megaminimondo finendo per innamorarmene ancora di più.
Quella che segue è la lunga stesura della tesi, che cerca di spiegare i motivi di un così inesauribile e infallibile successo. 
Buona lettura!



Per molti versi la professione del critico è facile: rischiamo molto poco, pur approfittando del grande potere che abbiamo su coloro che sottopongono il proprio lavoro al nostro giudizio; prosperiamo grazie alle recensioni negative, che sono uno spasso da scrivere e da leggere. Ma la triste realtà a cui ci dobbiamo rassegnare è che nel grande disegno delle cose, anche l'opera più mediocre ha molta più anima del nostro giudizio che la definisce tale. Ma ci sono occasioni in cui un critico qualcosa rischia davvero. Ad esempio, nello scoprire e difendere il nuovo. Il mondo è spesso avverso ai nuovi talenti e alle nuove creazioni: al nuovo servono sostenitori! 
Ego - Ratatouille



Introduzione
25 anni di carriera.
14 lungometraggi prodotti e in lavorazione.
22 cortometraggi realizzati.
14 Premi Oscar finora vinti.

12.881.784.491 dollari incassati dalla visione e l’acquisto dei film prodotti.
Numeri impressionanti se parliamo di una Cenerentola del mondo di Hollywood, partita in sordina con dei padrini di tutto rispetto (George Lucas e Steve Jobs) che è riuscita non solo a fare concorrenza al numero uno del settore –Disney- ma addirittura a farsi inizialmente produrre i primi film per poi arrivare direttamente a dirigerla.
É la Pixar, signori e signore.
Se per la mia generazione l’infanzia è stata segnata dai classici Disney –da Gli Aristogatti a Il re leone che ha sancito la rinascita per la casa di produzione di Topolino- dal 1995 in poi tutto cambia. Nell’anno in cui mi apprestavo a compiere la tenera età di otto anni, infatti, è uscito nelle sale di tutto il mondo Toy Story, il film che cambiò il corso della storia del cinema di animazione, facendo dimenticare, almeno su schermo, i tratti caratteristici stilati a mano finora conosciuti. É l’era del computer, del digitale, dove il mezzo non è utilizzato solo e semplicemente per risparmio di tempo come in molti inizialmente ipotizzavano, ma come un nuovo mezzo d’espressione, un nuovo media che permette ad animatori di creare in modo nuovo nuovi mondi.
Questa valanga di novità viene percepita immediatamente, non solo dagli esperti del settore ma anche dal pubblico. La cura maniacale con cui questi lungometraggi sono stati realizzati li distingue dagli altri, c’è un tocco del tutto personale che li caratterizza, e se inizialmente in molti davano per certo lo zampino della Disney nell’operazione, già con il secondo film Pixar si è capito che era questa nuova –il termine ritorna- casa di produzione ad avere quel non so che di attraente.

Ma che cos’è questo non so che? É possibile riuscire a definirlo? Perché con il passare degli anni è stato sempre più chiaro che è questa unicità a rendere la Pixar quello che è, a darle il successo che continua a mietere con record di pubblico e di premi vinti annessi.
Il progetto della mia tesi parte da qui. Dal voler capire cosa sta dietro il clamore per ogni nuovo film in uscita, dietro l’interesse per ogni nuovo progetto, cosa caratterizza quel tocco che negli anni si è espanso e che ha contagiato il settore pubblicitario, quello dei cortometraggi fino ad entrare nell’olimpo Disney, con film digitali, parchi a tema, gadget che l’hanno riportata ai fasti di un tempo.
Nel farlo ho diviso la ricerca in due diversi settori: da una parte il dietro le quinte, il momento della realizzazione di un progetto, dall’altro la sala, le caratteristiche dei film prodotti che li differenziano da quelli di altri.

Del primo settore fa ovviamente parte anche la storia, che è di per sé una favola che ha innalzato i suoi protagonisti in veri e propri eroi, che hanno battuto un antagonista severo e burbero come il CEO della Disney Michael Eisner aiutati dal prode Steve Jobs e dalla sua visionarietà. Quello che già da subito caratterizza la Pixar è l’essere stata fondata da persone semplici, vogliose di riscatto dopo una vita che aveva riservato loro cadute pesanti. Ed Catmull e Alvy Ray Smith possono essere considerati tra i pionieri nell’ambito computeristico, le loro prime ricerche risalgono agli anni ’60 e da subito hanno cercato di lasciare il segno lavorando dapprima per conto del magnate Shure poi per l’altrettanto geniale George Lucas. John Lasseter è la ciliegina sulla torta del team, la sua naturale propensione all’animazione ha dato nuova linfa ad un settore non nato propriamente per fare dei cartoni animati ma che ha saputo conquistare gli esperti del settore e il mondo intero. Una squadra così composta si è negli anni avvalsa degli animatori più capaci in circolazione arrivando ad istruirli da sé alla Pixar University.
Ma non sono sole le persone e la storia che si portano sulle spalle a determinare quel tocco unico.

L’ambiente e il metodo di lavoro sono elementi essenziali per raggiungere la perfezione agognata e così si assiste ad una escalation che porta la Pixar ai garage dei primi anni ad un impero composto da 6 ettari di terreno e costruito su misura da Steve Jobs (uno che di influenza ambientale se ne intendeva, basta entrare in un qualsiasi Apple Store) per lasciare libero sfogo alla creatività e alla fantasia di ognuno, dove gli scherzi e le feste sono all’ordine del giorno e dove il lavoro è il gioco più divertente. Il metodo lavorativo poi, fatto da gite sul campo e lezioni di esperti, porta gli animatori a conoscere i segreti più reconditi di quello che dovranno disegnare e muovere, in modo da rendere il film il più verosimile possibile permettendo a chi ci lavora per primo di metterci il cuore. Alla Pixar le gerarchie ci sono ma la differenza l’uno dall’altro non è così netta, anzi, il confine labile che separa l’animatore in erba dal regista affermato permette lo scambio continuo di opinioni e pareri che mette in circolo la creatività.

Oltre alle persone, all’ambiente e al metodo lavorativo, il successo della Pixar va ricercato ovviamente anche sullo schermo, sulla costruzione di storie e personaggi che hanno fatto e fanno sognare milioni di spettatori.
La fortuna della Pixar passa proprio dal suo pubblico. La novità di film d’animazione curati e innovativi (sia per messa in scena che per trama) va a colpire non solo un pubblico infantile ma anche quello degli adulti che questa volta non è semplicemente composto da genitori annoiati costretti ad accompagnare i loro pargoli in sala per qualche ora di pace al buio, si tratta di un pubblico ampio che viene catturato dalla trama delle storie raccontate e che è ammaliato dal nuovo stile che vede sullo schermo. La costruzione del film si basa poi su sentimenti moderni, che si rifanno sempre alle favole moralistiche della tradizione ma che ampliano la loro portata (la presenza di protagonisti scomodi ma amabili, l’amicizia che ha la meglio sull’amore…) in modo da essere più efficaci e universali rispetto alle fiabe intrise nel buonismo della Disney. Ci si diverte imparando, insomma. E la cura del narrare riprende la cura che si ha nella fase di progettazione del film, dove il clima goliardico si riversa sullo schermo producendo citazioni interne, esterne e giochi di rimandi che gli stessi animatori si divertono ad inserire senza dimenticare però una serietà che mira alla rappresentazione del reale, che qui diventa verosimile, dove anche i dettagli più invisibili vengono costruiti in modo da essere letti come coerenti.
La stessa cura è infine riservata anche per i cortometraggi. Fiore all’occhiello della produzione Pixar -che proprio con questi si è fatta conoscere al grande pubblico- sono non solo un campo di prova per le nuove tecniche di animazione digitale ma anche la possibilità per nuovi registi di affacciarsi al mondo dell’animazione.

Verosimiglianza, morale, divertimento e coerenza. Questi sono i tasselli fondamentali che vanno a comporsi durante la lavorazione di un progetto, sulla trama e la storia di questo perché, come ricorda Catmull:
Dissi per anni che la storia era la cosa più importante per noi. Poi mi resi conto che tutte le altre case di produzione stavano dicendo la stessa cosa. Lo dicono, e poi, finiscono per produrre spazzatura. Ciò che dici non importa un fico secco. La cosa importante è ciò che fai.

Delineare la formula del successo Pixar non è stato facile. I libri che parlano della casa produttrice non sono spesso aggiornati e i manuali che trattano dell’animazione tout court (Storia del cinema d’animazione. Dalla lanterna magica a Walt Disney da Tex Avery a Steven Spielberg di Rondolino Gianni, Torino, Utet, 2003 ad esempio) la identificano come la Disney del 2000 senza soffermarsi troppo sulle novità che la sua fondazione ha portato. Per quanto riguarda la storia della nascita della Pixar sono però stati fondamentali Steve Jobs di Isaacson Walter. Milano, Mondadori, 2011 e The Pixar Touch. The making of a company di Price David A., New York, Vintage Books, 2008, il primo incentrato sulla figura del carismatico magnate della Apple mostra retroscena nuovi sui protagonisti dell’azienda risaltando ovviamente la figura di Jobs rispetto alle altre, il secondo, in lingua inglese, è un excursus storico e critico sulle origini della casa di produzione e di coloro che l’hanno fondata ma anche una ricca galleria di citazioni ed interventi utili a capire meglio le menti dietro tale successo. Infine non va dimenticato Innovare con il metodo Pixar di Capodagli Bill e Jackson Lynn, Firenze, Etas, 2010 un divertente libro che attraverso l’inventiva presente ad Emeryville punta a migliorare aziende di ogni settore e che è stata una lettura piacevole e anche in questo caso ricca di aneddoti e di citazioni che mi hanno permesso di addentrarmi meglio nella psicologia dei Pixarian.

Ma il materiale più utile per proseguire in questo megaminimondo viene da documentari e extra DVD che ti portano direttamente nel dietro le quinte della lavorazione. Tra questi vanno sicuramente ricordati The Pixar Story di Leslie Iwerks sulla nascita e l’evoluzione della Pixar stessa e Waking Sleeping Beauty sulla caduta e la rinascita della Disney filmata da Don Hahn. Infine, tra gli extra DVD, oltre ai documentari sulle “gite lavorative” intraprese dagli animatori e i commenti del regista al film, le Pixar Studio Stories sono state utili per capire retroscena e vita comune all’interno di Emeryville. La bibliografia non è stata del tutto esauriente, almeno in italiano, e così questi materiali diversi, filmati e siti internet specializzati, sono stati una fonte utile per citazioni e per avere una visione nuova sulla produzione.
Così come lo è stata la mostra milanese tenutasi al PAC di Milano in occasione dei 25 anni di vita della società, che viene presentata nelle appendici con un analisi dei contenuti e delle emozioni che la visita ha suscitato. Perché se c’è stata un’epifania per realizzare questa tesi, questa è avvenuta proprio mentre mi trovavo nella stessa stanza con i modellini di Buzz, di Woody e di Remy, mentre Mike e Sulley mi sorridevano, tutto si è messo in moto nella mia testa per cercare di capire cosa suscita a distanza di 25 anni ancora queste emozioni, dove sta la chiave di questo successo, nel saper portare tutti ai magici momenti della nostra infanzia.
Quindi, pronti, verso l’infinito e oltre!



Parte I – Dietro le Quinte
A Pixar’s Life – I personaggi
“Verso l'infinito e oltre!”
Buzz Lightyear – Toy Story

Più del sogno americano, più del riscatto di una qualunque Cenerentola, la storia della Pixar rappresenta appieno una cavalcata inarrestabile verso il successo e verso l’apprezzamento universale e ricalca in maniera quasi impressionante la più classica delle favole in cui il trionfo del protagonista e la sua autentica passione hanno la meglio su tutte le avversità.
La chiave per dare significato all’attuale potere della Pixar sta infatti dietro anni e anni di ricerche e di tentativi, di imprese eroiche ed uniche che hanno cambiato per sempre il volto del cinema e dell’animazione. A fare questa storia, a compiere quest’impresa e a realizzare questo sogno sono state delle persone geniali (termine fin troppo usato di questi tempi ma mai come in questo caso adatto) che rappresentano senza discussione i massimi esponenti del loro settore e che come in una favola, sono i nostri eroi. Prima di partire a raccontare questa fiaba, quindi, presentiamoli.

PROTAGONISTI
Ed Catmull Nato il 31 marzo 1945 a Parkersburg, West Virginia, cresciuto a Salt Lake City ultimo di 5 figli di una famiglia mormone. Fin da bambino sogna di diventare un disegnatore Disney ma si rende conto pian piano delle sue mancanze, e decide di iscriversi all’università dove entra a far parte di un pionieristico programma di computer. Dopo la laurea nel 1969 con una tesi sulla scienza e la fisica computeristica, Catmull trova lavoro a Boeing ma torna presto nel campus per un dottorato con la radicale idea di rispolverare il suo sogno infantile lasciando che sia il computer a colmare le sue lacune artistiche. Il gruppo creato dal visionario Sutherland si presenta come luogo ideale per le sue sperimentazioni e nel ’72 realizza un’animazione digitale della sua mano, la prima vera creazione digitale nella storia, che verrà inserita nel film Futureworld. La passione per il lavoro computeristico cresce e Catmull prosegue gli studi con tesi relative lo z-buffering (relativo al calcolo della profondità degli oggetti tridimensionali), il texture mapping (la tecnica per “foderare” gli oggetti 3D rendendoli realistici), i biopic patches (sistemi matematici usati per rappresentare superfici curve nella modellazione 3D), gli algoritmi per l’anti-aliasing (che riducono i problemi di scalettatura di un’immagine) e il processo di rendering sub-division surface (usato per migliorare l’efficienza nel calcolo degli oggetti 3D). Il dottorato del 1974 comprende tutti gli studi su questi aspetti, vere pietre miliari nel percorso che portò alla creazione dell’animazione computerizzata. Dopo essersi sposato, Catmull si trova però nella difficile condizione di non avere un salario fisso lavorando per il gruppo di Sutherland e decide, suo malgrado, di accettare un lavoro a Boston come programmatore di computer. Ma nel frattempo a Salt Lake City si presenta un eccentrico multimilionario, Alexander Shure, fondatore del New York Institute of Technology nel 1955, che compra ogni genere di macchina presente negli studi di Sutherland per portare avanti i suoi studi sulle potenzialità del computer e che è alla ricerca delle persone giuste a cui affidarle. Sarà Sutherland stesso ad indicargli il nome di Catmull che vola subito a New York, diventando nel novembre del 1974 il direttore del NYIT Computer Graphic Lab, una sezione ricavata nei garage del campus, iniziando a farsi un nome e ad andare incontro al suo destino. Il gruppo è ben descritto da queste parole:
Era semplicemente una compagine di ragazzi e ragazze consapevoli che prima o poi saremmo stati in grado di realizzare il film, e volevamo essere i primi a farlo. C’era un clima di collegialità fra noi. Non eravamo mossi dal guadagno. Semmai, dalla fama accademica.

Alvy Ray Smith Nato nel profondo Texas ma cresciuto nel New Mexico, ha fin da subito un interesse profondo per la pittura che concilia con la programmazione di computer al college. Non trovando sbocchi per il suo lato artistico si iscrive a Stanford per un corso di ingegneria elettronica dove conclude il dottorato nel 1968. La sua carriera prosegue alla New York University dove insegna una branca della computer science chiamata CellularAutomata, ovvero la matematica dell’auto riproduzione delle macchine. Il suo lavoro cessa però improvvisamente a causa di un incidente che lo blocca a letto per 3 mesi e che lo porta a ripensare alla sua vita: influenzato dalla cultura sessantottina dell’epoca, capisce lo spreco di non sfruttare il suo talento artistico riguardo le CA, e il fatto che con le sue ricerche non fa altro che supportare la guerra e lo sviluppo di nuove armi. Decide quindi di tornare in California senza lavoro e senza piani. Dopo qualche mese, un progetto di ricerca lo porta a spulciare la libreria di Stanford, chiede quindi ospitalità ad un vecchio amico, Dick Shoup che lavora per lo Xero’s Palo Alto Research Center o PARC. Shoup porta Smith in visita al centro dove la visione dei nuovi programmi di pittura digitale lo appassiona da subito, è un’epifania. Shoup riesce a farlo assumere dall’agosto del 1974 e il suo lavoro consisterà nel creare un video di animazione che mostri le potenzialità del sistema con l’aiuto dell’artista David DiFrancesco. Xerox però blocca tutto nel gennaio del 1975 con la decisione di concentrarsi sul bianco e nero. I due pur di continuare nel progetto saltano sulla loro Ford Torino alla volta di Salt Lake City, dove si rumoreggia di nuove ricerche su questo fronte, il viaggio finisce per essere un buco nell’acqua ma sentono parlare del progetto di un eccentrico multimilionario che a New York sta investendo i suoi quattrini nella computer animation. Partono quindi verso la Grande Mela e si incontrano finalmente con il loro destino, sotto le vesti severe di Ed Catmull. Riguardo il loro primo incontro ricorda:
Vedo questo tipo seduto dietro a una piccola scrivania di metallo, e si volta lanciandomi quell’occhiata… con quella barba corta e gli occhiali… ed era chiarissimo che la sua espressione comunicava: ‘Oddio, ho proprio bisogno di aiuto’.

John Lasseter Nato ad Hollywood il 12 gennaio 1957 e cresciuto a Whittier immerso nella cultura popolare dei cartoni. Il suo destino viene segnato fin dal suo primo anno da matricola quando viene folgorato dalla lettura del libro di Bob Thomas The Art of Animation prima e dalla visione de La spada nella roccia poi. La decisone è presa: John sarà un disegnatore Disney. Inizia quindi a spedire lettere e disegni agli studi di animazione che rispondono con note di incoraggiamento fino al suo senior year in cui riceve una lettera dal California Institute of the Arts (o CalArts) che lo inserisce in un nuovo programma di animazione. Passa quindi l’estate del 1975 come assistente del direttore del programma Jack Hannah. Al suo arrivo alla scuola Disney, John stringe da subito amicizia con i nuovi compagni di avventura i cui insegnanti, vere e proprie icone della storia degli studi, li spronano al massimo. Al nostro John viene offerto un lavoro da parte di Disney già durante il suo junior year, ma rifiuta optando per restare nella scuola fino alla laurea, dove due dei suoi cortometraggi – Lady and the Lamp che aveva per protagonista una lampada umanizzata (ricorda niente?) e Nitemare basato su dei buffi mostri che invadono la stanza di un bambino (no?)- vincono lo Student Academy Award, dopodiché Lasseter diventa junior animator alla Disney realizzando così il suo sogno. Ma il periodo per gli studi non era dei migliori, l’animazione priva di idee significative si focalizzava su sequel per il mercato dell’home video e Lasseter si ritrova a collaborare a film dai toni minori come Red e Toby – Nemiciamici e il cortometraggio Mickey’s Christmas Carol. Durante la lavorazione di quest’ultimo, gli amici Jerry Rees e Bill Kroyer lo invitano a vedere i primi test su Tron, il pionieristico progetto Disney che utilizza l’animazione digitale in molte scene del film. Ecco l’epifania di Lasseter. Una vera rivoluzione dell’animazione, con la sua tridimensionalità e i movimenti fluidi. Affascinato dalle potenzialità dei computer inizia a progettare un adattamento di The brave little toaster in cui utilizzarle in almeno una scena ma il direttore Ron Miller boccia la sua idea, e visto che Lasseter non ha più progetti da portare avanti negli studi, la sua collaborazione con Disney finisce drammaticamente, lasciandolo senza lavoro ma pieno di speranze.

AIUTANTI
Steven Paul Jobs Nato a San Francisco il 24 febbraio 1955 e adottato fin dall’infanzia da Paul e Clara Jobs che negli anni traslocano più volte fino a trovare residenza fissa a Palo Alto. Presentare la sua vita in poche righe è difficile, dopo una formazione da autodidatta fatta di esperimenti in sgabuzzino, riesce ad entrare nel mondo del business con l'amico Steve Wozniak grazie alle digital blue box, una sorta di telefoni che permettono di contattare ogni parte del mondo senza dover pagare un abbonamento. Dopo questo primo successo, Jobs si diploma nel 1972 ed entra all’Università di Reed in autunno. Qui però le aspettative sono alte, e Steve rinuncia agli studi alla fine del ’72 cercando di mantenersi per i successivi tre anni con lavori saltuari fino al grande viaggio in India trascinato dai suoi nuovi ideali ascetici. Tornato alla Bay Area si ritrova al centro di una rivoluzione culturale dove c’era spazio anche per i fissati con il computer come lui. Jobs trova quindi nuovi amici, tra cui ancora Wozniak, con i quali si ritrova ogni due settimane sotto il nome di Homebrew Computer Club studiando i nuovi chip e i processori in commercio all’epoca. Con la convinzione che anche i computer dovessero essere dei prodotti e che la cura estetica doveva essere pari a quella informatica, i due amici presentano a metà 1976 l’Apple I che viene subito notato dal commerciante Paul Terrell che ne compra 50 esemplari: è l’inizio di un impero computeristico che porterà Jobs e Wozniak a fondare lo stesso anno la società Apple che dopo il successo clamoroso lo estrometterà nel 1985 costringendolo a creare la rivale NeXT Computer che seppur poco competitiva gli consentirà il rientro trionfale alla Apple nel 1996 gestendo mirabilmente le sue sorti fino ai giorni nostri.

ANTAGONISTA
Micheal Eisner Nato a New York il 7 marzo 1942 è stato definito dal nipote di Disney in persona la strega cattiva della storia Pixar, chi meglio di lui può quindi interpretare il ruolo dell’antagonista? CEO della Disney dal 1994, perde i consensi del consiglio amministrativo dopo la tragica morte di Frank Wells, assunto assieme a lui per dare una svolta all’azienda. Iniziano così gli anni più bui degli studi con continui insuccessi al botteghino, l’incapacità di conquistare il pubblico con personaggi ad effetto ma soprattutto l’ostilità immotivata verso la Pixar e Jobs con numerosi scontri contrattuali e la quasi definitiva rottura tra le due parti in gioco.

OGGETTO DEL DESIDERIO
Come ogni fiaba che si rispetti, anche in questa c’è uno scopo ultimo che i protagonisti, con il sostegno del loro aiutante, cercano di raggiungere. Per definirlo non c’è di meglio che lasciar parlare Steve Jobs:
Dai tempi di Biancaneve e i sette nani, ogni grande studio cinematografico ha tentato di entrare nel mondo dell’animazione, ma finora la Disney era l’unica ad aver prodotto un film d’animazione di cassetta: la Pixar è adesso diventata il secondo studio a riuscirci.
Ora che tutti sono stai presentati, immergiamoci in questa stupenda favola!

C’era una volta un regista, visionario come pochi, George Lucas. Nel lontano 1971, questo regista fonda a Marin County la propria casa di produzione, la Lucasfilm con la quale produce tra gli altri Star Wars (1977) dando nuova linfa al genere fantascientifico e degli effetti speciali. Proprio a questo settore decide di dare importanza portando avanti una ricerca tecnologica con sede nel suo Skywalker Ranch e denominando la società incaricata Industrial Light & Magic.
Nata nel maggio 1975 la società diventa in poco tempo l’esponente principale a cui rivolgersi per la creazione di special effects raccogliendo 14 premi Oscar per i gli effetti visivi e 22 Oscar tecnici.
Le cose prendono però una piega del tutto inaspettata con l’assunzione nel 1979 di uno dei nostri protagonisti, quell’Edwin Catmull chiamato da Lucas per dare man forte e che si mette a capo della Computer Division. Catmull si avvale di un altro prestigioso precursore della grafica digitale: Alvy Ray Smith. I due, assieme ad uno sparuto gruppo di tecnici e studiosi, iniziano a sviluppare dagli anni ’80 risultati decisivi nel campo del rendering e del composing digitale (il modo per rendere fluida l’interazione in un’immagine di elementi dal vero e ricreazioni al computer) ma ciò che più loro interessa è l’esistenza, tra i vari sottodipartimenti del settore, del Computer Graphics Group, che avrebbe finito con l’occuparsi di animazione digitale sotto il nome di Pixar Computer animation Group.
Il compito di questa divisione è quello di verificare e mettere alla prova le idee formulate da Catmull e Smith, sviluppando hardware e software dedicati. Il primi progetti ai quali si dedicano rappresentano altre grosse conquiste nella storia del cinema: la spettacolare sequenza interamente generata dal computer della creazione del pianeta Genesis in Star Trek II: L’ira di Khan (che batte di soli 35 giorni l’uscita del pioneristico e sfortunato Tron della Disney) e, tre anni dopo, il primo personaggio completamente digitale, il cavaliere di vetro di Piramide di paura.
É durante le prove tecniche per le macchine in fase di programmazione che il gruppo si chiede quale possa essere il nome a loro adatto e che, in un’uscita collettiva nel 1981 al County Garden Restaurant di Novato, finalmente arriva la risposta. Qualcuno propone “Picture Maker”, Smith pensa invece di derivare il nome dalla parola laser, in quanto lo scanner dei film si basa su questo elemento e la parola ha un suono cool. Suggerisce quindi “Pixer”, un neologismo nello stile di verbo spagnolo, Pixer: to make pictures ma Loren Carpenter storpia la parola pronunciandola Pixar. Gli altri attorno al tavolo –Smith, Rodney Stock e Jim Blinn- sono d’accordo. Le macchine si sarebbero chiamate Pixar Image Computer e da lì a qualche anno l’intero gruppo sarebbe stato così ricordato.
A partecipare a questi traguardi c’è anche il nostro John Lasseter che dopo la cacciata da casa Disney trova rifugio proprio alla Industrial Light & Magic dove non passa molto tempo prima che dimostri le sue potenzialità. Sulla sua assunzione Alvy Ray Smith ricorda:
Ero in grado di far muovere delle cose[sul computer], ma non di convincere la gente che fossero vive e pensanti. Gli animatori sono attori; ti fanno credere qualcosa che non è vero. Li osservo da anni e non capisco assolutamente [come facciano]. John è stata la persona più in gamba che ho assunto in tutta la mia vita. Come vedete, stavamo mettendo tutti gli elementi al loro posto.

Al raduno del SIGGRAPH del 1984, che riunisce annualmente appassionati e tecnici del settore computeristico, presenta infatti il cortometraggio che entra nella storia: The adventures of André & Wally B. che in 85 secondi giocati su arie rossiniane ci fa assistere al buffo inseguimento tra un coloratissimo omino e un’ape ipertrofica. Una trama elementare, una regia approssimativa e un’animazione ancora in fase embrionale che tradisce la sua natura di demo sono i difetti che si riscontrano ma le soluzioni visive e la comicità di gesto che richiama la tradizione di Tex Avery rappresentano il primo tentativo di applicare le leggi dell’animazione tradizionale alla computer animation. Anche per questo gli addetti ai lavori restano affascinati dal corto, come ricorda lo stesso Lasseter:
Quando presentai la mia prima animazione realizzata al computer al SIGGRAPH del 1984, molta gente mi chiese quale software d’animazione avessi utilizzato per ottenere personaggi dalle movenze così realistiche. Spiegai che si trattava semplicemente di un sistema per animazione in key frame, in teoria non molto diverso da altri sistemi simili disponibili quel tempo. Quello che cambiava era che avevo usato i principi base dell’animazione che avevo imparato facendo l’animatore dei disegni animati tradizionali. Non era il software che dava vita ai personaggi, erano i principi dell’animazione, i trucchetti che gli animatori avevano sviluppato cinquant’anni prima. Rimasi stupito nel vedere quante poche persone nell’ambiente della computer animation conoscessero quei principi.

Per arrivare alla Pixar come la conosciamo manca un fondamentale tassello, l’aiutante di turno, ovvero l’ingresso in campo di quel genio innovatore di Steve Jobs.
Nell’estate del 1985, quando Jobs sta perdendo il controllo sulla Apple, viene a sapere che la Lucas Film Computer Division necessita di un acquirente in quanto Lucas, alle prese con un oneroso divorzio vuole vendere. Le due componenti che attraggono da subito il patron della Apple sono lo sviluppo di un computer dedicato che potesse digitalizzare le riprese dal vivo e integrarle con effetti speciali, e la presenza di animatori capaci di realizzare cortometraggi al computer. Jobs, dopo una prima visita al quartier generale di Catmull si dimostra entusiasta del gruppo, da sempre interessato alle intersezioni tra creatività e tecnologia <> ricorda.
Dopo il ritiro di potenziali acquirenti, Jobs si fa sotto organizzando un incontro con Smith e Catmull i quali, inizialmente titubanti di avere un nuovo padrone, arrivano all’accordo in cui Jobs avrebbe acquistato la maggioranza della divisione e ne sarebbe stato il presidente, ma avrebbe permesso a Smith e Catmull di gestirla. Jobs offre a Lucas 5 milioni di dollari più altri 5 milioni di investimento per capitalizzare la divisione come società autonoma. Era meno di quanto Lucas chiedeva ma trovarono un accordo e il regista di Star Wars ricorda l’avvertimento che gli fece: <>
L’accordo finale giunge nel gennaio 1986 e prevede che a Jobs andasse il 70% della società mentre il resto sarebbe stato diviso tra Catmull, Smith e i trentotto dipendenti originari, inclusa la receptionist. Motivo di ulteriori gratta capi è però il luogo esatto dove apporre la firma del contratto: secondo il vice presidente della Lucasfilm Doug Johson è sensato che sia Jobs ad andare allo Skywalker Ranch, ma Jobs sostiene che sia la Lucasfilm ad andare nel suo ufficio alla NeXT a Redwood City, distante 60 miglia. Dopo momenti di tensione, si arrivò al compromesso di porre la firma a San Francisco negli uffici degli avvocati della Lucasfilm –Farella, Braun & Martel.
L’apporto di Steve Jobs va visto come una vera ventata di fiducia e di ricerca nella Pixar. Il magnate di Apple non è infatti solo interessato a far fruttare il suo investimento (attraverso la mossa azzardata di immettere sul mercato computer e software che il pubblico difficilmente riuscì a comprendere) ma nutre un interesse vivo e genuino verso le innovazioni e la nuova tecnica di animazione digitale. Negli anni Jobs ha dovuto mettere mano al proprio portafogli per finanziare nuovi cortometraggi e sperimentazioni, e perfino nell’anno buio che costò alla Pixar il licenziamento di gran parte dei suoi dipendenti, Jobs non rinunciò a finanziare la nuova esaltante idea di Lasseter. L’entusiasmo dell’animatore, la passione per ciò che fa e per come presenta il suo futuro progetto entra nel cuore di Jobs, che si approccia così con fiducia e incantamento infantile a questo nuovo mondo.
Da una parte quindi Steve Jobs, magro, tranquillo, elegante e semplice, vegetariano. Dall’altra John Lasseter, paffuto, disordinato, vestito con l’immancabile camicia hawaiana.
Non si potrebbe immaginare due tipi più diversi. Ma in realtà il rispetto della reciproca genialità, l’amore condiviso per l’arte e il riconoscimento della passione smodata nel lavoro hanno consentito a due esseri così distanti tra loro di creare un’amicizia speciale, un rapporto basato sulla fiducia e la lealtà.
Poco importa se l’ufficio del primo è sgombro e austero mentre quello del secondo un confuso assembramento di giocattoli e ricordi. Lasseter per Jobs rientra nella categoria degli artisti, e questo lo porta in alto nel suo personale modo di dividere il mondo tra eroi e coglioni.
Con l’arrivo di Jobs il lavoro alla Pixar prevede i maniaci della tecnologia impegnati a mettere a punto software costosi per l’animazione che trovano mercato quasi esclusivamente in campo medico (anche se già la Disney si avvicina nell’aria visto l’acquisto del pacchetto CAPS -Computer animation Production System- che utilizzò per la scena finale de La sirenetta) e lo sviluppo dell’ epocale PhotoRealistic RenderMan (il più valido e utilizzato programma di rendering mai concepito, capace di trasformare rapidamente un modello matematico tridimensionale di un oggetto nella sua corrispettiva immagine digitale fotorealistica), mentre i creativi di Hollywood si concentrano su un nuovo cortometraggio da sviluppare per mettere appunto i nuovi sviluppi tecnici.
La leggenda narra che una sera, pensando al soggetto su cui incentrare la sua animazione, lo sguardo di uno stanco Lasseter si posa sulla lampada della sua scrivania. Una lampada come tante, una Luxo, le cui fattezze meccaniche e flessibili si rielaborano in tutto il suo interesse. Da lì a poco nasce Luxo Jr., un cortometraggio di poco più di due minuti che con estrema semplicità ma anche con estrema poetica mostra il rapporto padre-figlio, il gioco e le emozioni che si instaurano con una palla.
Presentato al SIGGRAPH del 1986 provoca l’entusiasmo e le ovazioni unanimi, ancora una volta Lasseter è riuscito ad unire novità tecniche e digitali alle emozioni di una fiaba in cui sono i principi classici dell’animazione a prevalere. Il corto riesce ad ottenere addirittura una candidatura agli Oscar. Non vince ma il successo e il consenso ottenuto sono nuova linfa vitale per Jobs e per la Pixar.
Steve però non vede da subito il potenziale unico che il campo dell’animazione può dare e si ostina a puntare ancora sul settore dei software e sulla loro commercializzazione, ma a differenza di prodotti user friendly adatti ad un vasto pubblico come quelli della Adobe, i prodotti Pixar sono decisamente costosi e macchinosi. Per questo nell’estate 1988 si tiene la terribile riunione che vede numerosi tagli, e sempre in quella riunione la magia di Lasseter riesce a conquistare il grande capo Jobs ottenendo il finanziamento per un nuovo cortometraggio. Con piroette, doppiaggio di voci, Lasseter lo porta nel mondo di un bambino popolato dai suoi giocattoli. Il punto di vista è però capovolto, sono questi giochi a raccontare: Tinny, il giocattolo protagonista, fugge da un poppante, terrorizzato dalla sua smania e dalla sua bava, si nasconde, incontra altri giocattoli ugualmente terrorizzati e infine decide di sacrificarsi e essere ciò che in fondo è, un giocattolo, un divertimento per bambini.
L’unico commento che Jobs aggiunge è: << Ti chiedo solo una cosa, John: fallo magnifico.>>
Nel 1988 Tin Toy diventa il primo cartone animato generato a computer a vincere l’Oscar, John lo aveva reso magnifico, riuscendo ancora una volta ad unire principi dell’animazione alle nuove scoperte tecniche, incentrando l’azione su un essere umano, l’ “oggetto” più difficile da creare al computer.
I limiti certo sono ben visibili, il bambino manca di armonia e di curve, ma il risultato, vista l’epoca, è sorprendente!



Tin toy non solo strega gli addetti ai lavori e il pubblico ma provoca un certo interesse anche in casa Disney. Il nuovo direttivo formato da Michael Eisner come amministratore delegato e Jeffrey Katzenberg alla divisione film cerca in tutti i modi di riportare sotto le loro ali l’animatore Lasseter (il quale commentò: <>) ma non riuscendoci decidono di sfruttare l’occasione e le cattive acque economiche in cui la Pixar naviga per giungere ad un accordo.
I corti di Lasseter lasciavano letteralmente senza fiato, sia per la narrazione sia per l’uso della tecnologia. Ho tentato con determinazione di farlo tornare alla Disney, ma lui era fedele a Jobs e alla Pixar. Così, se non puoi batterli, fatteli amici. Decidemmo di trovare un modo per associarci alla Pixar e commissionare loro un film per noi, con giocattoli come protagonisti.
Anche con il successivo corto Lasseter definisce la sua poetica. In Knick Knack il protagonista è un buffo pupazzo di neve imprigionato in una sfera di vetro che tenta in ogni disastroso modo di scappare. Ancora una volta visione del mondo unitaria, affetto sincero nei confronti di un universo nascosto ed immanente, combinazione di oggetti dimenticati, maltratti o amati in lotta per la propria autodeterminazione e la difesa dei propri legami.
Gli anni ’90 si aprono quindi in un clima nuovo e di frizzante energia. L’avvento del RenderMan catapulta la Pixar nel mercato ora fiorente della computer grafica 3D mentre si sviluppa il settore pubblicitario con continue richieste di collaborazione al team di Lasseter (da ricordare la fortunata campagna per Listerine e Volkswagen).


Il 1991 segna però l’abbandono della Pixar da parte del cofondatore Alvy Ray Smith, il quale ha faticato fin dall’inizio nel rapportarsi col capo Jobs. Fieri ed egocentrici entrambi, non potevano coesistere nello stesso ambiente e così Smith se ne va fondando una propria impresa realizzando un software per il disegno digitale e l’editing delle immagini. Il suo nuovo progetto decolla in fretta e viene acquistato dalla Microsoft, il che rende Smith uno dei pochi ad essere riuscito a fondare due aziende ed averle vendute una a Bill Gates e una a Steve Jobs.
Ma ciò che davvero permise alle cose di cambiare per sempre è l’accordo siglato con la Disney.
Le cose stanno così: la casa di Mickey Mouse non stava passando un bel periodo, dopo la morte nel 1966 del suo padre fondatore Walt il settore cinematografico era piombato nel suo periodo più oscuro sancito dalla fine della vena creativa di Wolfang Reitherman sfornando un insuccesso dietro l’altro. Dal 1984 la gestione del giovane Eisner portò al cosiddetto “rinascimento disneyano” lasciando però troppe ombre e troppi compromessi artistici per trovare ancora il pieno appoggio del pubblico.
La novità Pixar e la magia dei cortometraggi di Lasseter sembrano la giusta strada da battere per risollevarsi. Come detto poi, la stessa Pixar necessita di nuovi fondi visto che il settore animazione nonostante i continui successi era sempre in perdita e molto spesso è lo stesso Jobs a dover riempire la cassa attingendo direttamente dal proprio portafoglio.
L’accordo tra i due studios si stipula nel maggio 1991 dopo accanite battaglie verbali tra Jobs ed Eisner e sancisce la Disney come proprietaria del lungometraggio in progettazione e dei suoi personaggi (con un corrispettivo alla Pixar del 12,5% degli incassi al botteghino), il controllo creativo e il potere di cancellare il film in qualunque momento, con una piccola penale, oltre l’opzione –non l’obbligo- di produrre i due successivi film Pixar e il diritto di realizzare con o senza la società i sequel di questi utilizzando gli stessi personaggi.
Una tale accordo non è certo a vantaggio della Pixar ma Lasseter è così entusiasta di disporre dei finanziamenti per iniziare il suo primo lungometraggio che non si fa scoraggiare. L’idea, come si sa, è geniale e parte proprio dall’incantamento di Tin Toy. Toy Story torna a parlare di quel mondo di giocattoli perduti, dei loro sentimenti:
Tutti hanno vissuto la drammatica esperienza infantile di perdere un giocattolo. La nostra storia assume il punto di vista del giocattolo che si perde e cerca di ritrovare la cosa in assoluto più importante per lui: il bambino che gioca con lui. Questa è la ragione dell’esistenza di tutti i giocattoli. Questo è il fondamento emotivo della loro esistenza. 


La produzione di Toy Story non è così semplice come previsto, però. A differenza di Jobs che lascia il campo libero a Lasseter e ai suoi collaboratori, la Disney ed Eisner vogliono controllare periodicamente il girato, e ogni volta c’è qualcosa che non quadra. Ascoltando i pareri di tutti il cartone finisce per perdere la sua originaria poesia trasformando il protagonista Woody in un arrogante e geloso cowboy che pure il doppiatore originale Tom Hanks non sopporta. Dopo mesi di prove su prove il risultato è deludente.
Il team Pixar si rimette quindi al lavoro ascoltando solo le proprie sensazioni, il budget viene ampiamente sforato ma il film è pronto per l’uscita natalizia e si sa, il resto è storia. Ed Catmull ricorda l’evento così:
Per 20 anni, inseguii il sogno di produrre il primo film di animazione digitale. A essere sinceri, una volta realizzato quell’obiettivo mi sentii un po’ perso. Poi, però, mi resi conto che la cosa più entusiasmante che avessi mai fatto era stata contribuire alla creazione dell’ambiente, unico nel suo genere, che aveva permesso che quel lungometraggio fosse realizzato.

Campione di incassi, amato follemente da critica e pubblico, vincitore di due premi Oscar e campione d’incassi dell’anno. L’investimento viene recuperato nel primo weekend e la Pixar, sotto consiglio di Jobs, decide di quotarsi in borsa diventando la maggiore offerta pubblica dell’anno, nonostante l’iniziale diffidenza di Lasseter e Catmull che temono che la mentalità dei circoli di Wall Street improntata a breve termine cambi la cultura innovativa che erano riusciti ad instaurare. John disse a Jobs: <<‘Se questo succedesse, lascerei l’azienda seduta stantÉ. Steve mi guardò e disse: ‘Non ti chiederò mai di farlo’. Così facemmo una specie di patto. La filosofia di base era semplice: continua a realizzare i film, divertendoti, e non preoccuparti del corso azionario>> .
Il successo delle azioni spinge ad un nuova rinegoziazione dell’accordo con la Disney nel 1997 che porta ad un Co-Production Agreement. Ora le carte in tavola sono cambiate, la Pixar dispone di fondi propri e non può più sottomettersi alle regole di casa Disney che poteva sfruttare i personaggi da loro creati. Eisner accetta che la Pixar finanzi per metà i film futuri (cha passarono da tre a cinque) in cambio della metà dei profitti, in più d’ora in poi ci sarebbe stato il marchio congiunto. L’importanza di quest’ultima decisione si rivela nelle parole dello stesso Jobs:
Noi crediamo che ci siano solo due brand significativi nell’industria cinematografica – Disney e Steven Spielberg. Noi volevamo stabilire Pixar come il terzo. I brand di successo sono una riflessione della fede del consumatore, che si ottiene nel tempo grazie alle esperienze positive del consumatore con i prodotti del brand. Per esempio, i genitori credono ai film targati Disney nei quali possono trovare soddisfazione e un intrattenimento appropriato alla famiglia, basandosi nell’indiscutibile capacità di Disney di fare splendidi film animati. Questa fiducia dà benefici sia ai genitori che alla Disney: fa della selezione dell’intrattenimento per la famiglia molto più semplice per i genitori, e permette alla Disney di assicurarsi un pubblico specifico per i suoi prossimi film. Nel tempo, vogliamo che la Pixar cresca e diventi un brand che incorpori lo stesso livello di fiducia di quello Disney. Ma per avere questa fiducia, i consumatori devono per prima cosa conoscere che è la Pixar a creare i film.

C’erano voluti quattro anni per finire Toy Story, durante i quali solo il settore pubblicità aveva continuato a produrre (venne chiuso nel 1996) mentre il settore ricerca continuava a mietere successi tecnologici (come gli Oscar tecnici nel 1995 a David DiFrancesco e Gary Starweather per le innovazioni nella scansione digitale, nel 1996 a Catmull, Smith, Thomas Porter e Tom Duff per il composing digitale, e nel 1997 a William Reeves per il Particle System –usato per la rappresentazione di elementi particellari come esplosioni e nebbia- e uno a Rick Sayre per il contributo allo sviluppo del Direct Input Device –che permette l’animazione attraverso un’interfaccia fisica più diretta del mouse).
Ma ora è arrivato il momento di mettersi al lavoro sulla seconda opera che, si sa, è sempre la più difficile. Si devono mantenere le aspettative, si deve stupire di più perché manca l’effetto sorpresa e l’aura dell’esordio, si devono accontentare gusti e aspettative.
John Lasseter decide di osare, abbandonando per il momento la strada facile di un sequel nel mondo dei giocattoli per cercare nuovi e rocamboleschi personaggi con cui meravigliare gli spettatori. Ci si addentra quindi nel megaminimondo degli insetti. Purtroppo però, anche qualcun altro ci stava pensando, e questo qualcuno aveva avuto molto a che fare con la Pixar.
In sessant’anni di storia del cinema di animazione nessuno aveva mai pensato di far un film a cartoni animati sugli insetti, finché non era venuta questa idea a Lasseter. Era una delle sue brillanti scintille creative. Poi Jeffrey [Katzenberg] lasciò la Disney per andare alla DreamWorks e d’un tratto ebbe l’idea di un film a cartoni animati su –guarda caso- gli insetti. E finse di non avere mai sentito parlare del nostro progetto. Che spudorata menzogna!
Lo sfogo di Jobs non è del tutto veritiero. Katzenberg aveva sì mollato la Disney ma senza mai venire a conoscenza dagli uomini Pixar del futuro progetto. Era stato durante un’amichevole visita di Lasseter agli studi Universal che si era parlato del film, e Katzenberg si era dimostrato decisamente interessato al riguardo.
La produzione di Z la formica da parte della DreamWorks viene così accelerata per battere sul tempo l’uscita nelle sale di A bug’s life della Pixar, Lasseter si sente ferito nel profondo e non credendo alle menzogne dell’ex collega non gli parlò per tredici anni.
Questo scontro fra studi di animazione non è stato positivo né per l’uno né per l’altro. La DreamWorks si era appena buttata nel campo dei cartoni animati e prevedeva di uscire a Natale con il suo primo lungometraggio ad animazione tradizionale Il principe d’Egitto.
In questi mesi di preparazione si intensificano anche le chiamate tra Jobs e Katzenberg. Quest’ultimo vuole infatti accordare l’uscita nelle sale dei film rivali per evitare un clamoroso flop, ma Jobs, come al suo solito testardo, difficilmente si faceva intimidire mentre la stampa va a nozze con una tale rivalità senza esclusione di colpi da parte dei vertici delle due aziende.
Va a finire che Z la formica esce nelle sale ai primi di ottobre 1998 incassando la rispettabile cifra di 91 milioni di dollari negli Stati Uniti e 172 in tutto il mondo.

A bug’s life esce invece sei settimane dopo, come programmato, incassando il doppio: 163 milioni di dollari negli Stati Uniti e 363 milioni in tutto il mondo!
I due film, al di là del comune mondo degli insetti, si differenziano molto. A bug’s life punta a stupire e divertire, conquistando con i suoi buffi personaggi i bambini e i loro genitori, raccontando una storia epica e puntando alla grafica con una ricostruzione dettagliata e accorta del mondo visto dal basso, con splendidi giochi di luce e riflessi. Z la formica punta invece sull’ironia mettendo come protagonista un Woody Allen versione formica incapace di accettare la sua natura, più complesso e psicologico a livello di trama quindi, che per animazione.
Ma ciò che importa davvero alla Pixar non è battere un rivale, ma dimostrare a tutti il proprio talento. Un talento che non è stato solo fortuna e che si può ripetere e migliorare col tempo.
Per l’anno seguente si decide però di tirare il fiato producendo il sequel tanto richiesto di Toy Story. Il film esce nel novembre del 1999 raggiungendo un successo ancora maggiore del precedente, incassando 246 milioni di dollari negli Stati Uniti e 485 milioni in tutto il mondo!


L’inarrestabile successo della Pixar, con tre centri su tre, porta alla decisione di un trasferimento di sede, trovando casa ad Emeryville, un quartiere industriale tra San Francisco e Oakland. Come vedremo in seguito, l’ambiente e l’architettura del posto (uno stabilimento abbandonato dove prima si inscatolava frutta) è un ulteriore e decisivo elemento a fare della Pixar una fabbrica di idee geniali .
Mentre l’altro grande successo Pixar, Monster & Co. batte ogni precedente record di incassi per un film di animazione, in casa Disney le cose non si mettono bene. Il despota, per sua stessa definizione, Michael Eisner inizia una personale battaglia contro Steve Jobs nell’estate del 1992 con dichiarazioni a fuoco incrociato decisamente al vetriolo. La questione però non è semplice. Da una parte la Disney continua a mietere insuccessi e fallimenti al botteghino, dall’altra la Pixar non arresta la sua corsa trionfale.
Il film successivo, Alla ricerca di Nemo definito dallo stesso Eisner in una e-mail che trapela al Los Angeles Times i suoi dubbi in proposito... ma il film si rivela il più grande successo prodotto dalla Pixar, arrivando a battere il mostro sacro de Il re leone incassando 340 milioni di dollari negli Stati Uniti e 868 milioni nel resto del mondo.
Dopo un tale successo, Jobs si presenta da Eisner con una proposta unilaterale passando da una divisione al cinquanta per cento dei ricavi ad una proprietà assoluta della Pixar sia dei film che dei personaggi prodotti, pagando alla Disney solo il 7,5% per la distribuzione. Tale accordo si estende anche ai successivi film (Cars e Gli Incredibili) in fase di lavorazione.
Ma la Disney aveva il suo asso nella manica possedendo i diritti sui personaggi di Toy Story e degli altri film già usciti sotto il precedente accordo.
I rapporti si fanno sempre più burrascosi, non solo tra Jobs e Eisner ma anche all’interno di casa Disney. Nel novembre 2003, infatti, Eisner costringe Roy Disney a lasciare il consiglio di amministrazione, il nipote del compianto Walt lo accua direttamente dei numerosi fallimenti dell’azienda e di non essere riuscito a stringere un rapporto costruttivo con la Pixar con la seguente, feroce, lettera:


Come ho detto e come Stanley Gold ha documentato nelle lettere per te e gli altri membri del consiglio, questa Compagnia, sotto la tua leadership, ha fallito negli ultimi sette anni in molti modi:
1. Il fallimento di riportare a galla ABC Prime Time dai profondi abissi in cui è stata per anni e la tua inabilità nel programmare in modo soddisfacente ABC Family Channel.
2. Il tuo consistente micro-management per tutti quelli accanto a te con il risultato della perdita di morale della Compagnia.
3. La timidezza dei tuoi investimenti nei parchi a tema. Al Disney’s California Adventure, Parigi e Hong Kong, hai cercato di costruire parchi “al risparmio” e lo si vede.
4. La percezione da parte di tutti i nostri investitori –consumatori, impiegati, distributori e fornitori- che la compagnia è rapace, senz’anima e sempre alla ricerca di “soldi facili” piuttosto che di contratti a lungo termine che ha portato ad una pubblica mancanza di fiducia.
5. La creatività emorragica degli ultimi anni, che è reale e continua, e danneggia la nostra Compagnia con la perdita di ogni impiegato di talento.
6. Il tuo fallimento nello stabilire e costruire una relazione con partner creativi, specialmente con Pixar, Miramax e i distributori dei nostri prodotti.
7. Il tuo consistente rifiuto nello stabilire un chiaro piano di successo.
Michael, credo sinceramente che sia tu quello che deve andarsene, non io. 


Saputa la notizia Jobs decide di non lavorare più con Eisner e nel gennaio 2004 interrompe ogni trattativa. Passa più di un anno e solo nel marzo del 2005 l’allora direttore generale Disney, Bob Iger, riceve una telefonata da parte del consiglio di amministrazione che gli comunica che di lì a pochi mesi sarebbe succeduto a Eisner come amministratore delegato. Il giorno dopo, Iger chiama direttamente Jobs e Lasseter comunicando loro la sua stima e l’intento di stringere un nuovo accordo con la Pixar per proseguire la collaborazione interrotta.
Dopo una serie di lunghe passeggiate tra Palo Alto e Sun Valley, Jobs e Iger stendono una bozza del futuro accordo in cui la Pixar avrebbe riavuto indietro tutti i diritti dei film e dei personaggi prodotti in cambio di una partecipazione azionaria Disney, in più avrebbe pagato alla Disney un semplice onorario per la distribuzione dei futuri film. Un tale accordo poteva però trasformare la Pixar come diretta concorrente della Disney, e anche Jobs capisce i timori di Iger. Parlando quindi con Lasseter e Catmull si decise di mettersi in società e rifare la Disney. Con uno scambio di visite e complimenti il clima si distende ulteriormente e l’accordo si conclude nel modo seguente: la Disney acquistato la Pixar per 7,4 milioni di dollari di capitale azionario, Jobs sarebbe diventato il maggiore azionista Disney (7% delle azioni contro l’1,7 di Eisner e l’1% di Roy Disney), la Disney Animation avrebbe fatto capo alla Pixar con Lasseter e Catmull che avrebbero diretto l’unità accorpata mentre la Pixar si sarebbe mantenuta indipendente, con sede sempre ad Emeryville.
L’accordo viene stipulato il 24 gennaio 2006 dopo un commovente consiglio di amministrazione in cui Eisner tenta invano di mettere il bastone tra le ruote alla sua azienda. La firma sigla la soddisfazione di entrambe le parti. Jobs dichiara:
Il mio obiettivo è sempre stato non solo di fare magnifici prodotti, ma anche creare magnifiche aziende. Walt Disney aveva seguito questa politica. Grazie al modo in cui effettuammo la fusione, mantenemmo la Pixar grande ed aiutammo la Disney a rimanerlo.
L’accordo porta entrambi gli studios al successo, se la Pixar ha continuato a conquistare milioni di dollari e di appassionati, con film memorabili come Up, Ratatouille o WALL-E, anche la Disney si è pian piano ripresa passando all’animazione digitale di Bolt e Rapunzel e al loro successo di pubblico… Sì, vissero tutti felici e contenti!


Pixar, Inc. – L’ambiente

“È qui, lo so perché... perché quando ti vedo, lo sento... 

e quando... quando ti vedo... mi sento a casa.”
Dory - Alla ricerca di Nemo

Il posto di lavoro, si sa, può fare la differenza. E nessuno come gli uomini Pixar può pensarla diversamente visto il piccolo impero che negli anni sono riusciti a costruirsi attorno a quello che inizialmente era uno scatolificio di frutta abbandonato. Influenzati anche dallo spirito idealista di Jobs, la roccaforte di Emeryville si è ampliata, caratterizzata e decorata in modo da renderla non solo un luogo di lavoro, ma anche di svago, di fraternizzazione, una seconda casa insomma. E perché non pensare che dietro il successo, le idee geniali non ci sia proprio la magia che si crea in un luogo in cui ci sente in famiglia? Se tutti attorno a te ridono e si divertono, perché gli è concesso, quasi imposto, questo si rispecchierà inevitabilmente in ciò che produci, no? Jobs lo sa bene, e anche analizzando gli studios passati di grande e piccole case produttrici si può capire quanto l’ambiente influenzi l’operato.

Anime senz’anima

Che i giapponesi siano stakanovisti instancabili non è, purtroppo, solo uno stereotipo diffuso. L’industria dell’animazione prende piede nel Paese solo nel 1963, anno in cui viene fondata la Atom, fortemente influenzata dai cartoon americani, i soli all’epoca raggiungibili e visibili ad oriente. Questa influenza ha portato però a scelte ben diverse a livello di trama e di contenuti, con le case produttrici consapevoli di una necessaria e netta differenziazione (al contrario che nel resto del mondo) del pubblico optando per storie in cui un giovane orfano cercava le sue origini, puntando quindi più sull’identificazione da parte dello spettatore che non sull’azione in sé su cui erano centrati invece i cartoni Warner o Tex Avery dell’epoca. Questo tipo di visione meccanica e priva di sentimenti si rifletteva in modo speculare anche nell’ambiente di lavoro: gli studi erano costituiti da caseggiati anonimi e privi di fantasia, in cui un numero sempre maggiore di “operai” disegnavano, coloravano, pensavano. In un economia di disegni, gli stessi disegnatori erano sottopagati e immotivati nel loro mestiere, in cubicoli asettici mancava anche il tempo e la voglia di comunicare tra loro. Un mondo grigio, completamente diverso dagli universi colorati che si ricreavano sulla carta ma che rispecchiano questa impersonalità, in cui la trama regge tutta la storia mentre i colori, i disegni, non sono altro che il contorno.

That’s all folks!
Un altro esempio può essere quello che riguarda i cartoni siglati Warner Bros. di proprietà di Schlensinger e Selzer che raramente si presentavano agli studios, dando così piena libertà agli animatori che gestivano gli spazi e gli ambienti in un clima di folle anarchia. Come quindi non collegare questo spirito con quello dei personaggi sovvertivi delle più classiche regole disneyane, Bugs Bunny & co. consapevoli di essere personaggi, senza fissa dimora, senza una netta divisione tra buoni e cattivi… I disegnatori tra loro affiatati erano in grado di stringere alleanze anche tra le loro creazioni, condividendone le sorti e prendendo spunto dalla loro folle quotidianità per le gag. L’autogestione del lavoro confluiva quindi in un’inventiva senza limiti, in cui ad essere preso di mira, nella realtà come nella finzione, era il potere. Uno degli scherzi che Tex Avery più volentieri ricorda era quello della story room, la stanza in cui venivano esposti gli schizzi preparatori che dessero una linea guida ai disegni da realizzare. In una delle rare visite del capo, questi si trovò davanti una story room vuota, con il disegnatore intento a macchinosi pensieri. Lasciatolo solo, tornò dopo qualche ora, trovando la stanza ingombra di disegni, schizzi e fogli, come se fosse stato preso da un raptus di ispirazione. Sconvolgente e soddisfacente. Schlesinger se ne andò fiero, nonostante tutto, dei suoi dipendenti, inconsapevole di essere stato beffato dai suoi Bugs Bunny.

Il paese delle meraviglie?

La Pixar invece, nonostante l’allegria e la beatitudine diffusa, si è certamente ispirata ai primi studios Disney fondati da Walt Disney nel 1919. Walt si dimostrava un capace padrone, attento alle esigenze e al talento dei suoi animatori e loro aiutante anche se la vera colonna degli studi era il fratello, Roy, razionale e pragmatico che sapeva tenere testa ai disordini e controllare scrupolosamente l’operato di ognuno. Il suo pugno di ferro si dimostrò soprattutto a seguito degli scioperi del 1941, dopo i quali gli studi divennero “a very hard–nosed place to work”. Ritmi stakanovisti e mancanza di fiducia, se non quella destinata ai collaboratori più longevi che lavoravano per Disney fin dai suoi esordi (i famosi “nine old men” Frank Thomas, Les Clark, Ollie Johnston, Wolfgang “Woolie” Reitherman, John Lounsbery, Eric Larson, Ward Kimball, Milt Kahl, Mark Davis). Questo stile nonnista è rimasto negli anni e si è fatto più sentito dopo la morte di Walt nel 1966. Anche l’esperienza di John Lasseter o dell’altrettanto noto regista Tim Burton all’interno di casa Disney confermano una volontà innovatrice da un lato ma chiusa dall’altro. I due animatori, formatisi a un anno di distanza all’Università CalArts gestita proprio dagli studios Disney, si son visti dapprima offrire un lavoro per poi, dopo qualche anno di insoddisfacenti mansioni, perderlo da un giorno all’altro, vuoi per mancanza di progetti da affidare (Lasseter) vuoi per una visione diversa dell’arte dei cartoni animati (Burton e il suo Frankenweenie). I rapporti mal gestiti da un’amministrazione che pensa solo a fare cassa hanno quindi influenzato l’operato dei disegnatori che nel periodo degli anni ’90-2000 ha avuto pochi successi. Se con l’arrivo de La Sirenetta si vede una rinascita della casa di Topolino, dovuta al congiungimento di menti tanto diverse e difficilmente gestibili tra loro quanto geniali come Roy Disney, Michael Eisner, Jeffrey Katzenberg e il compositore Alan Ashman, questa loro intesa è stata quanto mai precaria e gestita solo da Frank Wells, presidente e chief operating officier, vero e proprio paciere tra loro. Da una parte infatti il nipote di Walt guardava con sospetto e con malcontento il protagonismo di Katzenberg che cresceva ad ogni nuovo successo, dall’altra Eisner non riusciva a percepire la forza della sezione animazione in una casa produttrice capace di sopravvivere meglio senza le spese inutili di tale reparto. Questo clima di gelida ostilità si riversava direttamente sugli animatori, al centro dello scontro, che si vedevano ai margini delle decisioni con lavori dal ritmo stressante, il trasloco improvviso in un altro settore degli studios (dalla struttura in mattoni dove erano stati disegnati capolavori come Peter Pan a dei caseggiati prefabbricati e scadenti) e la continua precarietà del loro impiego. In questa situazione però si rafforza inevitabilmente l’unione tra loro, con continue caricature dei capi, gag e scherzi come la famosa lettera che misteriosamente apparve nel 1985 firmata da un contraffatto Katzenberg che, dopo la decisione di trasformare il nome di Basil of Baker Street a The Great Mouse Detective impone il cambio del nome a tutti i grandi classici con Biancaneve che diventa Seven Little Men Help a Girl e Cenerentola The Girl with the See-through Shoes. Nonostante gli animi così scoraggiati questi sono gli anni dei grandi successi de La Sirenetta, La Bella e la bestia, Aladdin e Il re leone che portano, tranne quest’ultimo, la firma del genio di Broadway Alan Ashman che proprio con le musiche de La Bella e la bestia porterà alla conquista della prima nomination come miglior film ad un lungometraggio di animazione (quell’anno però vincerà Il silenzio degli innocenti), conquista che non riuscirà a vedere perché dopo la presentazione alla stampa del film, Ashman morirà in un letto d’ospedale sfiancato dall’AIDS. Le sue musiche rivivranno in Aladdin e verrà poi magistralmente sostituito da Hans Zimmer che si occuperà della colonna sonora de Il re leone. Ma proprio in questi anni tutto precipita ulteriormente. Frank Wells, lo stabilizzatore dell’azienda che aveva da sempre mitigato gli animi dei capi e consigliato Eisner nel modo più giusto, muore tragicamente in un incidente di elicottero lasciando tutti sgomenti. Katzenberg era pronto a sostituirlo nell’azienda da subito e proprio questa sua crescente smania di protagonismo ed egocentrismo non farà altro che irritare ulteriormente Roy ed Eisner che da qui in avanti prendono ogni decisione senza la sua consultazione. La battaglia finale si gioca proprio nel giorno di presentazione alla stampa de Il re leone già dichiarato, giustamente (nonostante durante lo script venisse tacciato come sicuro insuccesso preferendogli Pocahontas) come capolavoro. Eisner e Disney annunciarono a sorpresa il ritorno della sezione animazione negli studi principali di Disney, tenendo del tutto all’oscuro proprio il capo dell’animazione Jeffrey. Capendo l’aria che tira e il suo malumore ormai continuo, Katzenberg lasciò la Disney e il 12 ottobre 1994 annunciando assieme a Steven Spielberg e David Geffen la fondazione della DreamWorks SKG.
La situazione crolla ulteriormente quando i film Pixar hanno successo a discapito di quelli Disney, che cerca di arginare i problemi con un nuovo contratto a suo favore e cercando di invogliare Lasseter a tornare a lavorare da loro (come già aveva fatto con Tim Burton producendo il suo film in stop motion con Henry Selick Tim Burton’s Nightmare Before Christmas). Ma il vero colpo di grazia avviene alla fine degli anni ‘90 quando Disney, vedendo che i film Pixar e Dreamworks macinano un successo dietro l’altro mentre i suoi ancora a disegno tradizionale collezionano solo sonori flop, crede non sia più necessario mantenere studios che utilizzano il vecchio metodo a matita e chiude e licenzia così numerosi studi satellite e dipendenti tra cui anche chi negli anni era riuscito ad avere esiti positivi come quello dislocato ad Orlando che aveva prodotto Lilo & Stich. In alternativa, Eisner creò il Secret Lab, che costituiva la base per la computer animation e gli effetti speciali, situato in un convertito capannone per aircraft vicino al Burbank Airport. Il primo progetto che prese piede è stato Dinosauri, che univa creazione a computer con paesaggi reali. Andò bene nel primo weekend di programmazione nel 2000 ma la sua performance fallisce in confronto al budget spropositato della produzione. La scelta così drastica di abbandonare l’animazione tradizionale, con la stampa che accusava il successo della Pixar, non è stato sicuramente un bel colpo da digerire soprattutto perché ciò che davvero nessuno capiva è che non era la tecnica utilizzata ma la storia che si raccontava a non funzionare più. La leziosità Disney che si portava avanti da anni e anni di vera e propria chiusura mentale (tranne i già citati film uniti ad altri più sfortunati al botteghino come Le follie dell’Imperatore o Hercules) non partiva da nient’altro se non dall’ambiente di lavoro: gerarchico, vecchio e poco creativo che influenzava così tutto il resto.

Un megaminimondo

La storia di Cenerentola della Pixar si rispecchia anche nei luoghi di lavoro in cui nel tempo si è trovata a vivere. Partiti da un garage risistemato ad ufficio, nel giro di una quindicina d’anni si è arrivati all’immensa proprietà di Emeryville, tutt’ora in fase di espansione. Ancora ai tempi del NYIT, infatti, Catmull e Smith si trovarono a dover convivere assieme agli altri membri del Compuetr Graphic Lab. nello spazio che il fondatore Shure era riuscito a ricavare da quattro garage. Se il campus dell’istituto si estendeva in edifici dignitosi e austeri, il primo nucleo della Pixar era costituito semplicemente da un piano superiore in cui Catmull aveva un proprio ufficio che spesso fungeva anche da camera da letto, mentre al piano inferiore vi era la computer room in un cui tutti i membri lavoravano ai progetti.
Il trasloco alla Lucasfilm, nonostante la costruzione proprio in quegli anni del grande sogno di George Lucas dello Skywalker Ranch costituito da ben 1,882 acri di terreno, non comportò per la sezione di computer grafica il trasferimento in quel territorio bensì in un modesto attico situato sopra un negozio di anticaglie dove Catmull si trovò a dividere il suo ufficio con la moglie del direttore nonché film editing, Marcia Lucas.
Nel 1986 però si cambia ancora, e la Pixar si stabilizza in uno dei sei palazzi della Industrial Light & Magic in un complesso industriale a Kerner Boulevard a San Rafael. La stabilità non sembra andare a pari passo con le nuove e sorprendenti invenzioni tecniche del gruppo visto che dopo l’acquisizione da parte di Steve Jobs della società, Lucas rivuole anche il proprio spazio e fa presidiare l’entrata per tre giorni da uno sceriffo incaricato di garantire il trasloco in modo rapido. Nella fretta l’unico luogo che Jobs riesce a trovare è uno stabilimento situato a Bay Point Richmond, un luogo carico di violenza e di criminalità tanto che gli animatori chiameranno il negozio di liquori dell’angolo che porta un’insegna con la sigla B&K Bleed & Kill, sanguina e uccidi, giusto per dare un’idea della zona in cui erano capitati. Come se non bastasse, loro vicino era una raffineria che spesso e volentieri subiva fughe di gas che comportavano sirene d’allarme e la chiusura di tutte le finestre fino al cessato pericolo. Descritto così, Point Richmond non pare certo il paradiso ma in realtà i lunghi corridoi, gli uffici/cunicoli crearono un’ambiente in cui era facile socializzare e in cui il tempo per divertirsi non mancava di certo. Sia per creare l’ambiente adatto che per l’economia sugli acquisti ai quali si era costretti, Lasseter iniziò ad ingegnarsi riguardo l’arredamento della sala proiezione, rivolgendosi ad ognuno dei lavoratori per cercare qualsiasi tipo di sedia, divano, sgabello o poltrona creando così in poco tempo un arredamento hippie e spartano da far impallidire quello del vicino cinema Red Vic di Haight-Ashbury a San Francisco al quale John si era ispirato, dichiarando fiero: <> ma forse proprio per questo <> . Point Richmond rimane un luogo del cuore degli animatori, è infatti nel piccolo giardino antistante l’entrata che essi hanno osservato e ripreso con microtelecamere i movimenti e la vita degli insetti per poi ricrearli dal loro punto di vista in A bug’s life, è qui che Lasseter ha avuto la sua brillante intuizione per Luxo jr., qui che ognuno di loro ha costruito una seconda casa in cui dormire, mangiare e vivere nei lunghi periodi di lavoro incessante che caratterizzavano i primi cortometraggi. Così al momento di un nuovo trasloco anche se da una parte c’era il sollievo di abbandonare una zona tanto malfamata e insicura, dall’altro c’era lo spaesamento di trovarsi in un ambiente bianco e asettico, privo della personalità che negli anni ogni animatore era riuscito ad infondere al suo ufficio, caratterizzando e rendendo suo quello spazio.
Ma se c’è una persona che può capire quanto un ambiente possa influenzare l’operato e la vita di un artista, questo era Steve Jobs che in passato aveva già curato nei dettagli anche i suoi store. Così la ristrutturazione di un vecchio scatolificio di frutta appartenuto alla Del Monte nei pressi di Emeryville è stata personalmente seguita passo passo dal padron della Apple che ha voluto creare un luogo che favorisse gli incontri casuali e che fosse un’adeguata sede di rappresentanza.
Il palazzo esistente venne raso al suolo e il progetto messo nelle mani esperte dell’architetto Peter Bohlin (già fautore degli Apple Store). In sedici acri nel quartiere industriale di Emeryville, tra Berkley e Oakland, poco dopo il Bay Bridge che collega San Francisco a Oakland, sorse casa Pixar con una scenografia che comprende un tetto curvo di metallo che evoca l’immagine di un hangar per aeroplani.
Lasseter era inizialmente restio al progetto di Jobs di open space, più fedele ai tradizionali uffici hollywoodiani, con edifici distinti per i diversi progetti e bungalow per le squadre di sviluppo come era ad esempio progettata la Disney, ma in tale situazione era ovvia la poca comunicabilità tra i diversi settori di produzione così l’idea di Jobs ebbe la meglio. Attorno ad un ampio atrio centrale viene costruito un unico palazzo, i singoli uffici si affacciano direttamente su quest’atrio in cui il passaggio per collegarsi dall’uno all’altro è praticamente forzato, favorendo così gli incontri casuali.
Se un edificio non incoraggia questo, molta dell’innovazione e della magia che nasce dalla fortuna va perduta. Così strutturammo l’edificio in maniera che la gente uscendo dall’ufficio si mescolasse nell’atrio centrale con altra gente che altrimenti non avrebbe visto.
Tutto porta a quell’atrio, le scale, le cassette della posta, perfino i bagni! Questi sono stati argomento di discussione nel progetto, Jobs riteneva indispensabile che anche questi fossero raggiungibili attraverso l’atrio ma questo significava anche che, per arrivarci, alcuni lavoratori dovessero attraversare l’intero edifico. Si arrivò quindi al compromesso di situare due file di bagni sui due lati dell’atrio, sia al primo che al secondo piano. Questo è stato l’unico argomento che portò Lasseter a dissentire da Jobs assieme al tema dell’arredamento, disse infatti a Jobs: <> e quasi profeticamente, poco dopo il trasloco nella nuova sede, il discount Kmart della zona liquidò la sua merce con il 90% di sconto e tutti in casa Pixar si precipitarono arraffando quanto più poterono e svuotandolo in un sol giorno! Jobs, austero e minimalista com’era, non era così contento di vedere la sua opera decorata con le cose più kitsch e fuori moda in circolazione, ma finì per capire lo spirito degli animatori nel voler ricreare il loro mondo (con lo stesso Lasseter che aveva riempito in modo impressionante il suo con giocattoli da collezione), quello doveva rappresentare il loro ufficio: << Se fossimo entrati nella nostra nuova struttura e avessimo detto: “questa è la migliore sede aziendale del mondo”, sarebbe stato un disastro. Il nuovo studio doveva essere una casa, non una sede >>.
Così oltre al personale arredamento che ogni animatore si crea nel proprio studio (vuoi una capanna hawaiana, un paracadute a coprire cubicoli come un tendone da circo, un saloon, un’area in stile anni Sessanta, una poltrona da barbiere oltre a citazioni tra le più assurde appese in ogni dove come: “Ogni volta che pensi che stia succedendo qualcosa di stupido, probabilmente è proprio così”), l’open space Pixar ospita statue dei personaggi dei film, stampe e poster, storyboards e sceneggiature stesse…
Nei sei ettari di superficie dello stabile c’è poi posto per un bellissimo teatro a 600 posti dedicato alle proiezioni, gli studi di registrazione audio e video, una piscina, campi da pallavolo e un campo da calcio tutti volti a lasciare lo spazio agli animatori di sfogarsi e di cercare uno svago per lasciar libera la fantasia. Punto di attrazione è poi il cereal bar, un fornitissimo bar che offre qualunque tipo di cereale in commercio, sembra di essere nello scaffale dei cereali di un supermarket o di tornare bambini! La passione per questo cibo sgranocchiante è contagiosa e calamita giornalmente un sacco di persone che sia per colazione, per pranzo o per merenda. Ma la vera ciliegina sulla torta di tutto ciò è una particolare stanza, la numero 557, denominata love lounge. Leggenda narra che trasferendosi nel suo ufficio l’animatore Andrew Gordon notò una porticina che portava ad un lungo e basso corridoio in cui ci si poteva muovere solo a carponi e che sfociava in una sala sconosciuta e ricavata tra i condotti dell’area condizionata. Lì Gordon iniziò ad arredare lo spazio con divani comodi e oggetti in stile anni Sessanta tra stoffe colorate, cuscini e lucine di natale più un fornitissimo minibar creando una vera e propria stanza relax in cui poteva controllare tramite una telecamera i movimenti nel suo ufficio. Non passò molto tempo che il segreto si diffuse facendo della love room un’attrazione a tutti gli effetti dove negli anni sono passati celebrità di ogni tipo, da Tim Allen a Roy Disney e Hayo Miyazaki e che hanno lasciato il loro autografo nelle pareti.
Tutto quindi ad Emeryville è stato pensato a misura degli artisti e della loro fantasia, che può correre a briglie sciolte e trovare numerose valvole di sfogo. Costruita come una sede aziendale, è da subito diventata una seconda casa in cui le ore di lavoro extra non sono un peso così insostenibile da sopportare e in cui si può sempre trovare nuovi amici in cui imbattersi. La chiave di tutto sta in un ambiente in cui i confini sono stati abbattuti, in cui nell’immenso atrio centrale possono avvenire incontri casuali che arricchiscono non solo personalmente ma anche i progetti in atto, portando ad una naturale propensione alla discussione creativa e ad una non gerarchizzazione dei ruoli. Ognuno alla Pixar è importante e indispensabile, ogni idea, anche la più assurda, ha la possibilità di essere espressa e, perché no, presa in considerazione. Un ambiente a tal punto creativo e libero, seppur non anarchico come quello Warner, non può che far confluire questa stessa creatività e libertà nei film prodotti, con un sapore unico e indistinguibile di genialità all’opera.
Chi non vorrebbe lavorare in un’azienda così?

Gli Incredibili – Il metodo

Non tutti possono diventare dei grandi 

artisti ma un grande artista può celarsi in chiunque.
Gusteau - Ratatouille

Ci sono molti miti da sfatare quando si parla di animazione digitale, ancora di più quando l’animazione digitale viene fatta in casa Pixar. Le matite e i fogli di carta, infatti, abbondano, così come le bozze, gli acquerelli… il computer è solo l’ultimo elemento della lunga catena di produzione di una nuova opera, non il meno importante, certo, e sicuramente tra i più complessi, ma l’azione inizia ben prima di passare ai logaritmi che creeranno la magia!
Da cosa si parte quindi? Prima di tutto, ovviamente, da un’idea. Un’idea che dev’esser geniale e che deve svilupparsi in modo tale da trasportare il pubblico in una dimensione altra, dove ciò che ci si aspetta viene rovesciato e reso ancora più appetibile. Tutto questo perché alla Pixar, così com’era alla Disney ai tempi di Walt, la vera regina è la storia. Insomma, The story is king.

Il Soffio dell’Ispirazione
Ma da dove può arrivare l’ispirazione, e quanto e come essa può cambiare andando in là con il tempo e con le idee?
Per Toy Story, il primo grande progetto in cui la Pixar si è cimentata, l’ispirazione è derivata dal cortometraggio presentato da Lasseter al SIGGRAPH del 1988 Tin Toy. L’idea era appunto quella di ampliare il concetto della vita di un giocattolo devoto al suo padrone ma fin da subito ci si è imbattuti in una serie di ostacoli. Dapprima era risultato impensabile che dei bambini degli anni ’90 potessero affezionarsi ad una marionetta e a un pupazzo da ventriloquo, come inizialmente erano i protagonisti del film. Si è quindi delineato che la marionetta diventasse il giocattolo più desiderabile per un bambino moderno, dotato di superpoteri, di gadget di ogni sorta, luccicante e morbido allo stesso tempo: ecco delinearsi Buzz! Woody ha invece subito un processo di evoluzione molto più ampio e discusso, dopo numerosi schizzi di prova si è arrivati a dargli la forma di un cowboy, emblema dell’America vecchio stile e integra nei suoi valori e a chiamarlo Woody in onore di Woody Strode, un attore western che recitò spesso accanto a John Wayne. Il film doveva basarsi su un iniziale diffidenza tra i due giocattoli che si ritrovavano a dover unire le loro forze per ritrovare il loro padrone Andy che accidentalmente li aveva persi in una stazione di servizio. La storia si è man mano arricchita di nuovi spunti e di nuove scene grazie all’intervento del gruppo di animazione anche se il processo di realizzazione è stato tra i più difficili:
Dovemmo realmente frequentare un campo di addestramento reclute per capire come realizzare Toy Story sotto la guida di Katzenberg […] cioè, ti sentivi dire ‘É esattamente così che devi farlo’, dunque fondamentalmente fu come se ci avessero buttato in una piscina e dovessimo imparare a nuotare. Il danno però, era che eravamo costretti ad accettare ogni piccola decisione, dai tipi di battute da usare e dal modo in cui una determinata cosa doveva succedere fino ai dettagli essenziali. Per noi era un mondo completamente nuovo, quello della realizzazione di un film, così ci sottomettemmo alle opinioni dei più esperti, ma nel frattempo lasciammo che il personaggio di Woody ci scappasse di mano.
Woody infatti era arrivato ad avere un carattere che appariva da subito odioso e negativo, non poteva essere un protagonista accettabile e capace di creare un’identificazione con i bambini, lo stesso Tom Hanks, l’attore che gli diede la voce, lo intuì. La Pixar, dopo lo stop forzato, riprese in mano il progetto senza più dover subire le decisioni dall’alto, e in poco tempo riuscì a ristabilire l’equilibrio nel mondo dei giocattoli, creando un Woody saggio ma geloso, diventato il simpatico leader della cameretta di Andy. Da lì in poi, non fu una passeggiata, ma la sceneggiatura si delineò con maggiore facilità, immersa in un’aurea magica di cooperazione e inventiva.
Per il lungometraggio successivo, invece, A bug’s life, l’idea venne durante una pausa pranzo a Andrew Stanton e Joe Ranft. Lasseter e lo story team avevano già delineato gli insetti come protagonisti in quanto animali senza peli o altre caratteristiche difficili da costruire al computer che avrebbero distratto e impegnato più tempo rispetto alla storia in sé ma la storia ancora mancava e si pensò di trovare un punto di partenza nella favola di Esopo della cicala e la formica. Anche in questo caso, dall’ideazione alla messa in scena molte cose sono cambiate, ciò che è più rilevante è l’andamento del protagonista Flick, dapprima inserito direttamente tra gli insetti del circo con il nome di Red come colui che prende contatti per salvare il formicaio, poi meglio individuato all’interno del formicaio stesso come colui che andrà alla ricerca di un gruppo di guerriglieri capace di affrontare le temibili cavallette (in omaggio al film di Kurosawa I sette samurai).
Scorrendo man mano la filmografia Pixar, l’ispirazione per ogni suo film è arrivata nei momenti e nei modi più diversi. Per Toy Story 2 l’idea venne a Lasseter osservando semplicemente il suo ufficio: oltre al non essere amati dal proprio bambino, quale altro destino può essere crudele per un giocattolo? Quello di essere rinchiuso in teche da collezione e di non essere avvicinato da nessun che abbia in intenzione di giocarci, e così ecco il personaggio di Al che caratterizza tutto il secondo capitolo della saga di Woody e Buzz. Per

Monsters & Co. il regista Pete Docter rispolverò un suo vecchio progetto che analizzava il mondo dei mostri durante il quale si era divertito ad immaginare un universo parallelo al di là dell’armadio che tanto spaventa i bambini al momento di andare a letto. Per Alla ricerca di Nemo, invece, il regista Andrew Stanton si ritrovò in un raro pomeriggio libero a giocare al parco con il figlio ma invece di godersi il momento si ritrovò ad essere in ansia per ogni sua mossa e di impedire così il vero divertimento e godimento sia per il figlio che per se stesso e da lì nacque l’idea di un padre oppressivo come poi è stato Marlin. Di questo particolare caso è però interessante vedere come in poco tempo il progetto sia stato completamente rimaneggiato. Inizialmente infatti la storia era concepita come un lungo flashback dove man mano che l’azione e la ricerca di Nemo avanzava, scoprivamo il passato drammatico di Marlin con la perdita della moglie e delle altre uova, ma così facendo non si entrava in empatia con il pesce pagliaccio, anzi, non capendo la motivazione della sua preoccupazione e del suo perenne stato di ansia nei confronti del pesciolino, si finiva quasi per esserne irritati. Rivendendo il film, Stanton capì che per far immedesimare il pubblico e per rendere da subito chiare le motivazioni di Marlin, si doveva aprire il film con la scena che rappresentava il suo passato e il suo trauma, l’aggressione del barracuda e la morte dell’amata moglie. Solo così il film aveva coerenza, non ci sono volute nuove scene o nuovi personaggi, solo un nuovo e più efficace montaggio.
Tornando all’ispirazione dei film Pixar, questa non si limita solo alla storia in sé ma anche a scene chiave, come il design delle auto di Cars che riprende quello del film Disney Susie, the Little Blue Coupe mentre la trama si rifà a Doc Hollywood con Michael J. Fox; la scena dell’assaggio della ratatouille preparata da Remy nel film omonimo prende invece spunto dal famoso episodio con la Madeleine che scatena il ricordo di Proust nella sua Recherche.

Andiam a Lavorar
Passiamo all’azione ora, a come dalla storia, la regina e padrona, si passa alla sua messa in opera. La produzione di un film Pixar è una cooperazione tra i diversi dipartimenti, intenti a raggiungere il grado più vicino alla perfezione all’unisono. C’è lo Story department che decide come dovrà essere un film, quanti personaggi ci sono, come devono essere; intanto, l’Art department in base alle direttive del precedente settore inizia a disegnare e caratterizzare i personaggi e gli ambienti, sviluppando le prime bozze su carta. Una volta che si è arrivati ad un risultato soddisfacente i disegni vengono tridimensionalizzati in modelli scultorei di plastilina, solo completata questa delicata fase si passa al computer grazie a scansioni tramite penna ottica o usando il programma di computer sculpting che permette di ricreare a computer la statuina. Ecco infine l’Animation department che ricostruisce, posiziona tutti gli oggetti creati per creare l’ambiente e il personaggio così come erano stati inizialmente pensati.
A questo punto entrano però in scena dei personaggi essenziali alla realizzazione del film, che con il loro contributo possono anche rimettere in discussione alcune scelte stilistiche: i doppiatori. In molti pensano che, come succedeva una volta e come succede con i film tradizionali, il doppiaggio avvenga una volta finito il film. Alla Pixar invece questo avviene già quando la sceneggiatura si può considerare completa e questo perché da un lato la voce servirà come linea guida per l’animazione della gestualità e del volto del personaggio, dall’altra perché con l’inserimento delle voci il personaggio può ancora evolvere. Il carattere poliziesco di Buzz è stato dato grazie all’interpretazione di Tim Allen, sua voce originale, mentre al contrario il personaggio di Ego in Ratatouille era stato già pensato per essere doppiato da Peter O’Toole così come Dory ricorda con i suoi grandi occhi espressivi Ellen DeGeneres. A volte succede anche che la voce di prova data da un animatore per cercare di intuire i movimenti e i gesti da ricomporre su computer restino poi anche nella fase finale, come è successo per il bruco Heimlich di A bug’s life la cui voce appartiene al capo dello story department di allora Joe Ranft, di cui i figli di Lasseter si innamorarono dopo la proiezione di prova.
Una volta infusa l’anima ai personaggi quindi, si deve dar loro il movimento. A differenza dell’animazione tradizionale che troppo spesso relega l’espressione dei sentimenti solo al volto, la Pixar cerca di rendere con tutto il corpo lo stato d’animo. Il viso è infatti la parte più difficile da animare e quella che richiede più soluzioni logaritmiche da incorporare, negli anni negli studios si è creata una vera e propria ‘biblioteca dei movimenti’ che racchiude le scelte e le prove per ognuno dei personaggi animati, anche se è quasi impossibile riutilizzarli in quanto troppo caratterizzanti dei soggetti precedenti.
A questo punto dell’animazione compaiono gli storyboards, schizzi che racchiudono le fasi salienti della scena con i dialoghi per dare l’idea base all’animatore da dove partire e sviluppare il tutto. Il momento della presentazione dello storyboards oltre ad essere temuto da alcuni è anche il più divertente perché l’animatore deve interpretare nel vero senso della parola tutto ciò che ha in mente e che è presentato su carta, fare le voci, i gesti, i sentimenti che si aspetta vengano poi ricreati a computer. In questo momento tutte le menti sono a lavoro per migliorare dove necessario in un ambiente che non è mai competitivo, come già abbiamo visto, ma che è sempre aperto a critiche costruttive e nuovi spunti.

Catmull dichiara: Noi ci muoviamo all’interno della tradizione disneyana dello storyboarding. Nei primi tempi la casa di produzione sviluppava le sue storie quasi al 100% attraverso i disegni. Quando vedi una storia disegnata, succede qualcosa che suggerisce nuove possibilità. C’è qualcosa di concreto. Quando le leggi stampata su una pagina, l’immaginazione di tutti si apre a molte possibilità. Oppure dieci persone possono trovarsi in riunione, leggere una sceneggiatura e approvarla consensualmente. Nell’istante in cui la disegni possono venire fuori tutti i problemi potenziali che nessuno aveva immaginato, nonché tutta la potenziale ricchezza insita in quella scena che nessuno aveva visto.
In fase di animazione si evidenziano poi i diversi stili che racchiudono in sé gli animatori Pixar: chi arriva dall’animazione tradizionale infatti, disegna tutte le fasi del movimento individuando le posizioni chiave del personaggio, chi invece arriva dalla stop motion è avvantaggiato dall’analogia che intercorre dal dare movimento a pupazzi reali a quello di darlo a oggetti tridimensionali digitali. In molti per agevolare il loro lavoro utilizzano la cosiddetta ‘stanza degli specchi’, una stanza tappezzata di specchi con una telecamera al centro in cui l’animatore recita la scena che deve animare, e che poi, grazie alla tridimensionalità data dal riflesso, riesce a ricreare specularmente o avere un’idea più chiara di ciò a cui deve arrivare. Per animare i soldatini verdi di Toy Story, ad esempio, ognuno ha dovuto camminare, saltare, correre con tavole di legno attaccate ai piedi in modo da sapere esattamente che movimento occorresse ricreare.
Il modo migliore di iniziare a lavorare su una scena è comunque quello di farne preliminarmente il raugh blocking, un’animazione al computer molto rozza, in cui principalmente si fanno camminare i personaggi da un punto all’altro dello schermo per dare un’idea al regista di come si è pensato di farli muovere. In questo modo si può procedere a delle correzioni prima di impegnare il computer in un rendering dettagliato delle superfici. L’ultimo elemento a cui si lavora è il viso dei personaggi, in quanto il più dettagliato e più al centro con i primi piani, alla Pixar però si preferisce che le espressioni del viso siano meno marcate (molto spesso a delinearle bastano i movimenti delle sopracciglia) e che lo stato d’animo sia trasmesso dalla postura di tutto il corpo: solo se si riesce a capire l’emozione dalla sua pantomima si può affermare di averci azzeccato. E per farlo è necessario riflettere sul motore primo di ogni scena, il motivo per cui essa esiste e come riuscire a comunicarlo al meglio.
Ogni scena in produzione passa quindi nella mani di tutti questi diversi team, senza dimenticare la fondamentale importanza dell’art department che dà la luce e il colore generale, del layout department che piazza i modelli nella scena, montandola grazie all’uso di una telecamera virtuale e programmandone ogni movimento, e dello shading team che usa il linguaggio del RenderMan per creare le ombre, la texture, il colore e la sua granulosità e il suo riflesso. Infine è tutto nelle mani del lighting team che crea l’atmosfera adatta in base al tempo, all’ora e all’emotività della scena. L’ambiente è infatti essenziale per dare al film una sfaccettatura emotiva particolare, se per Toy Story si è ricreato un mondo colorato e fantasioso a misura di bambino, per gli insetti di A bug’s life si è studiato il mondo dalla prospettiva del suolo e per Monsters & Co. si è dato libero sfogo alla fantasia inventando un universo parallelo abitato dai mostri più disparati e che sulle loro capacità del tutto particolari si modellava (non si nota, ma le sedie di Sulley hanno il buco per la sua coda, ad esempio), il vero problema è arrivato però con l’oceano di Nemo. Ricreare l’infinita varietà del mare ha costretto gli animatori a numerose ore di studio, il modo in cui la luce filtra nell’acqua alle diverse ore del giorno, il cambio della corrente, le particelle di sabbia e plancton sospese, come i colori venivano resi e plasmati dalla profondità marina… il tutto ha portato il team di animatori a riprodurre un oceano iperreale, così simile al vero che farci nuotare dei pesci ricreati a computer sembrava un pugno nell’occhio. Si era esagerato, si doveva abbassare la soglia di verosimiglianza.
Predisposto ad hoc anche l’ambiente e l’atmosfera in cui far muovere i personaggi, il tutto va in rendering, ovvero tutte le formule, i calcoli e i progetti vengono sommati tra loro dando come risultato il film finito.

Take your Car!
Quello che la Pixar riesce a fare con i suoi film, è che è un sicuro fattore del loro successo, è ricreare un mondo, una sensazione, è renderla ancora più fantastica. Si parte dalla realtà quindi, per poi modificarla a proprio piacimento fino ad ottenere un risultato in linea con la storia e la sensazione che si vuole dare allo spettatore. Ma come fanno a farlo così bene? La domanda è intesa non tanto in senso tecnico, con i programmi e i mezzi utilizzati per creare computeristicamente una scena, ma da dove partono per arrivare all’incredibile risultato finale?
Semplice: vuoi l’oceano? Tuffatici! Vuoi la route 66? Percorrila! Vuoi la magia di Parigi? Vacci! Vuoi il mistero della lande venezuelane? Esplorale!
Il team degli animatori, Lasseter in primis, è convinto che le cose riescano meglio se le si vive in prima persona, se nei luoghi ci si va, li si studia e li si conosce. E se per A bug’s life non si è dovuti muoversi più di tanto ma è bastato uscire nel giardino muniti di una microvideocamera per riprendere il mondo dal punto di vista di un insetto, per meglio concepire l’atmosfera da ricreare, a seconda del film, sono state organizzate delle vere e proprie gite aziendali che hanno portato i nostri dalle viuzze romantiche della capitale francese all’impervia scalata dei Tepui venezuelani. Ma non si creda che queste siano state delle vacanze! Gli animatori erano sempre a lavoro, non solo osservando l’ambiente che li circondava e fotografandolo, ma soprattutto ridisegnandolo, con schizzi, acquerelli e carboncini che meglio permettevano loro di ricordare quanto visto. Ogni film però ha avuto la sua particolarità. A Parigi infatti, più che i musei e i monumenti storici, Brad Bird e i suoi collaboratori sono stati attrattati dalle viuzze più piccole della città dove ogni cosa è stata fotografata e riprodotta dal punto di vista di Remy, e quindi macchina fotografica a terra, ogni particolare dal cassonetto ai palazzi è stato ripreso, così come la sensazione che i vecchi palazzi dovevano emanare, odori e percezione di vissuto e di romanticamente decrepito, con muri scalcinati e gradini consumati. In Venezuela poi, il team di Pete Docter di Up è stato protagonista di una vera e propria avventura! Dopo un viaggio di due giorni per arrivare nella zona della Gran Sabana, e dopo l’ardua scalata e la notte passata tra le rocce con ogni momento buono di luce passato a fotografare e disegnare piante, pietre e paesaggi, una tempesta ha bloccato parte del gruppo per ore sulla cima impervia di un Tepui con la terribile possibilità di dover passare la gelida notte lì sopra senza le attrezzature adeguate. Ma anche in questo caso tutto è andato per il meglio e ogni cosa studiata ed osservata è stata poi riprodotta specularmente in digitale ed inserita nel film.
Non servono solo le gite però per riuscire a studiare con maggiore attenzione i mondi da ricreare. Molto del lavoro viene infatti svolto all’interno degli studios con corsi appositi. Per ricreare con maggiore fedeltà l’ambiente di una cucina d’alto livello, gli animatori sono stati invitati a partecipare ad un vero e proprio corso avanzato di cucina con il rinomato chef Thomas Keller, in cui potersi mettere alla prova dietro ai fornelli per capire così le tecniche, l’organizzazione e il metodo che si cela dietro questo lavoro. Sempre per Ratatouille si doveva entrare in contatto con i topi, capirne i movimenti frenetici, le abitudini e il loro modo di vivere e così si è creata ad hoc una stanza in cui numerosi topi all’interno di gabbie potevano essere osservati a distanza ravvicinata per poi essere rivisti nella gesta di Remy e dei suoi amici. Lo stesso discorso è stato fatto
per i pesci di Alla ricerca di Nemo, con l’allestimento di acquari ma anche con la possibilità di studiare e sezionare i pesci morti provenienti dai negozi di animali. La ricerca in questo caso è stata integrata grazie all’aiuto di Adam Summers, un dottore di Berkley che ha sulle spalle una conoscenza enciclopedica dei pesci tropicali e che ha impartito agli animatori un vero e proprio corso accelerato ma approfondito sull’argomento:
Non ho mai incontrato studenti così, era come avere i migliori diplomati in una stessa classe. Non potevo parlare per più di tre o quattro minuti di fila prima che qualcuno alzasse la mano e facesse una domanda che ci portava in una direzione praticamente opposta. Sembrava proprio che queste persone volessero genuinamente ascoltarmi, se un pesce stava facendo qualcosa di sbagliato volevano saperlo
Ma anche qui l’eccesso di zelo ha portato ad una serafica battuta: alla vista di un protagonista pesce pagliaccio, Summers disse che questo doveva cambiare sesso durante il film, perché è questo che accade in natura, in più un pesce come Dory non si muoveva grazie alla coda mentre nel film lo faceva… dopo queste obiezioni però Ricky Rivera, un animatore, guardò negli occhi Summers e gli disse: <Sì, ma i pesci neanche parlano!>.
Tutte queste esperienze non fanno altro che formare ed unire ancor di più il gruppo degli animatori, creando dei legami forti che permettono di non gerarchizzare i loro ruoli e di farli sentire sempre liberi di esprimere il loro potenziale. Un’attenzione maniacale ai dettagli quindi, perché sono questi a nascondere la chiave di un successo, le cose che inizialmente non si notano ma che rendono l’ambiente, e quindi il film, ciò che è!

La tecnologia al servizio dell’arte
Il modo di lavorare di Pixar, nonostante le ovvie differenze dovute al passare del tempo e alle diverse tecnologie messe in opera, ricorda molto quello dei primi studios Disney. Lo spirito pionieristico e la continua smania di sperimentare e trovare nuovi campi in cui addentrarsi con la fantasia in modo da mettere alla prova le tecnologie a disposizione sembrano da vicino i tempi in cui Walt produceva i suoi primi disegni animati e rivoluzionava così la storia del cinema. Come Walt anche la Pixar non si è mai stesa sugli allori delle sue glorie ma è sempre stata pronta a rimettersi in gioco. Per questo Guggenheim sottolinea:
Abbiamo imparato considerevolmente dalla Disney. A livello organizzativo abbiamo imparato come regolavano il budget e programmassero assieme in modo da avere una prospettiva costante dello stato del progetto. Abbiamo anche adottato alcune delle loro organizzazioni gerarchiche, ma le abbiamo tenute più alla leggera così da utilizzare meno persone sui progetti singoli. Creativamente, abbiamo profondamente abbracciato la loro disciplina che la storia è la prima e unica. Questo è sempre stato il mantra di John Lasseter impartito alla Pixar, quindi non era un’idea nuova, ma abbiamo imparato di più riguardo gli abissi che si potevano incontrare. I lungometraggi hanno delle grandi complessità a livello della storia, e questa è un’area dove loro conoscono i tranelli meglio di noi. Ironicamente, comunque, alcuni dei loro senior execs hanno ammesso con me che verso la fine della produzione di Toy Story la Pixar aveva fatto un film che conteneva più cuore dei tradizionali cartoni Disney che stavano facendo all’epoca. Hanno profondamente ammirato Lasseter e la Pixar per questo.
Se quindi da una parte la Pixar è stata ispirata dalla Disney, il metodo Pixar è poi entrato nel modo di lavorare della casa di Topolino come dimostrano gli studi approfonditi dei fondali e dei leoni stessi ne Il re leone, dove i disegnatori sono entrati a stretto contatto con gli animali in una sessione di studio preparatoria. Analizzare sempre e comunque, non lasciare nulla al caso ma programmare e mantenersi, nel limite di un’animazione, aderenti alla realtà. Questi sono i dogmi che lo stesso Lasseter persegue e questa smania di sfida, questa voglia di mettere il piede sull’acceleratore la si ritrova in tutta la filmografia Pixar. Toy Story infatti, non solo ha il primato di essere il primo lungometraggio animato al computer ma anche quello in cui sono presenti degli esseri umani (il primo in assoluto, anche se schematico, è il bimbo del corto Tin Toy, mentre un umano più definito si ha solo con Geri’s Game nel 1997). Le continue sfide lungo il percorso di creazione del primo film di Lasseter hanno portato a un rilassamento per il secondo progetto, A bug’s life, in cui sono stati scelti degli insetti come protagonisti in modo da non presentare caratteristiche così dissimili dalla lucentezza e compattezza dei giocattoli, anche se in questo caso è stata la creazione di ambienti e fondali da un punto di vista nuovo, in cui molto giocava il fattore della luce filtrata dalle foglie e dall’erba. Lo stesso albero del formicaio ha rappresentato una sfida, ogni sua foglia è stata posizionata a mano, mossa dal vento e cambiata a seconda della stagione, un lavoraccio che però, esteticamente, rende tutta la fatica ben spesa! Nel seguito di Toy Story gli unici accorgimenti sono stati quelli riguardanti la fisicità degli esseri umani, Andy e sua madre, il collezionista, resi più veri grazie alla progressione tecnica del reparto computeristico della Pixar.
Uno dei film più complicati a livello di costruzione è stato sicuramente Monsters & Co. Il regista, Pete Docter, aveva in mente una forma ben precisa per il suo protagonista Sulley, e questa includeva una spropositata pelliccia. Mai però si erano realizzati dei peli in un film di animazione, il cane di Sid in Toy Story era reso a pelo lucido proprio per evitare questo annoso problema. Ma per Monsters la sfida doveva essere accettata e così, pelo su pelo (per un totale impressionante di 2.320.413), si è creato uno splendido manto che, dopo prove su prove, rendering su rendering, si è riuscito a far muovere a proprio piacere in modo del tutto naturale, riuscendo così ad inserire altri mostri secondari muniti di pelliccia. La sfida però non era finita qui, la scena che si svolgeva in Alaska, irrinunciabile per il regista, prevedeva non solo un Sulley sferzato dal vento e che rotolava giù per una duna, ma anche la presenza massiccia della neve che, inevitabilmente, si doveva attaccare al suo corpo. E così anche in questo caso dopo calcoli e formule, ogni fiocco di neve è stato posizionato per creare una sensazione autentica a chi vedesse il film.
Per gli animatori non c’è stata molta pace nemmeno per il quarto film targato Pixar, Alla ricerca di Nemo infatti è stato un progresso tecnologico immenso per la realizzazione di fondali marini, oceani aperti e pesci dalle forme più svariate ma la vera svolta l’ha data il film successivo a firma di Brad Bird, forse il più complicato e il più tecnico di tutta la filmografia Pixar. Gli incredibili si compone infatti di così tanti elementi che comportano sfide interne che gli animatori ne erano terrorizzati e non avevano molta intenzione, inizialmente, di dover affrontare una tale mole di lavoro che richiedeva ore di studio prima di poter assemblare anche solo una scena. Oltre ad essere il primo film ad avere come protagonisti assoluti degli esseri umani –cosa che ha comportato uno studio apposito sulla consistenza della pelle che non doveva essere troppo realistica ma rimanere sui toni cartooneschi- come dice Rivera:
La cosa più difficile per Gli Incredibili era che non c’era una cosa più difficile. Brad ordinò una mega porzione di tutto il menu. Avevamo tutto: fuoco, acqua, fumo, vapore, esplosioni, e, oltretutto, esseri umani… avere capelli che si muovessero assieme e abiti e poi renderlo in grande per tutto il cast. É il compendio della Pixar.
Da qui in poi, si può dire che il cammino sia stato quasi in discesa. Potevano esserci esseri umani, animali pelosi e non, esplosioni ed effetti pazzeschi, ormai il più era fatto, era solo questione di perfezionare e di rendere tutto ancora migliore perché, si sa, il lavoro alla Pixar non finisce mai! Dice Catmull:
Quando era in vita, Walt Disney cambiava continuamente e si adeguava alle circostanze mutevoli. Nulla rimaneva mai uguale. E quando morì, fu allora che le cose si bloccarono. La gente diceva, ‘Che cos’avrebbe fatto Walt?’. […] [Noi di Pixar] stiamo portando avanti quell’eredità, basata sulle capacità di cambiare parallelamente ai cambiamenti della tecnologia. Continueremo a fare cose nuove e diverse.

It’s not a Bug’s Life!
Quando mi siedo a guardare gli animatori, sembra che siano riusciti a restare aggrappati all’infanzia. Si circondano di giocattoli e si divertono un sacco, proprio come ragazzini. É uno dei motivi per cui è così divertente passare tempo con loro -se la spassano piò o meno costantemente, giocherellano, creano piccole stanze segrete- non sai mai quale sarà la prossima trovata.
Con un capo come John Lasseter, appassionato di giocattoli, dalla fantasia esplosiva e dall’irriverenza di un eterno fanciullo, come potevano essere da meno i suoi collaboratori? Così non stupisce che il clima lavorativo all’interno della Pixar sia tutt’altro che serioso, ma quasi cameratesco, con continui scherzi, giochi, sfide interne che non fanno altro che aumentare la voglia di stare ad Emeryville, di condividere e di creare. L’ispirazione, così come la creatività, è sempre messa sottopressione, ma non sempre si può dare il meglio di sé in queste condizioni, così lo studio prevede delle aree apposite in cui sfogarsi, distrarsi e lasciar vagare la mente in questioni più futili: una piscina, campi giochi, una sala ricreativa in cui il gruppo può riunirsi e lasciarsi andare. É questo il clima scanzonato e originale che poi si immette automaticamente nei film! Ma al di là della struttura in sé ad Emeryville, lo stare a stretto contatto con i colleghi ha negli anni portato alle più disparate attività alternative, istituite appositamente per creare il gruppo e per divertirsi. Durante la produzione di Monsters & Co. è stata organizzata una gara aziendale di lancio di aereoplanini di carta che si è svolta direttamente sul grande atrio centrale, vinceva chi lanciava più lontano la propria opera (c’è chi ne ha creato di giganti, chi di coloratissimi). Per non parlare dell’ormai abituale gara di scooter all’interno degli uffici! Se Lasseter spesso e volentieri si aggira in monopattino, un giorno arrivò al lavoro con lo scooter del figlio e iniziò a percorrere la sede in lungo e in largo, ben presto anche altri dipendenti iniziarono a farlo e si creò così un piccolo parco veicoli interno:
Abbiamo iniziato a fare queste gare di scooter: è stata realizzata una specie di pista ad anello, e noi cronometravamo i tempi e li appuntavamo sulle pareti. Abbiamo ingaggiato un’aspra competizione per vedere chi fosse capace di realizzare il tempo migliore.
Non solo scooter, anche slittini, pistole ad acqua… Attraverso queste gare quindi, il nervosismo, lo stress da lavoro viene sfogato e, perché no?, ci si può anche prendere una bella rivincita sul proprio capo!
Oltre a queste tradizionali sfide ci sono però altre iniziative del tutto particolari che vengono partorite man mano dagli animatori. Per Alla ricerca di Nemo infatti la mente bizzarra di Stanton decise che da un giorno in poi ognuno doveva presentarsi a lavoro vestito e agghindato peggio che poteva. L’iniziale diffidenza sparì poco a poco e i dipendenti facevano a gara a trovare l’abito più fuori moda, gli accessori più vistosi… le donne poi erano invitate a truccarsi in modo appariscente e scoordinato mentre gli uomini a farsi crescere i baffi, usciti da lavoro si poteva tornare nei propri panni, ma come togliersi i baffi?
Per Toy Story 3 invece, l’animatore Andrew Gordon ebbe la brillante idea di indire un nuovo gioco, se così si può definire: gli uomini dovevano rasarsi a zero. In uno spirito quasi da setta ci si prestava a una rasatura pubblica, l’unico che continuava a sottrarsi era il regista Lee Unkrich, fiero della sua folta capigliatura. Ma in un clima di crescente smania collettiva, non riuscì a tenere a freno il suo naturale narcisismo, e nell’euforia generale si fece rapare pure lui. Qui però venne immessa una nuova regola, una volta rasati non ci si doveva più né radere la barba né tagliare i capelli. Era una sfida nella sfida, chi cedeva era fuori dal gioco e così nelle settimane successive i look più improbabili e le barbe più discutibili si vedevano aggirare tra gli uffici. Col passare dei giorni però la situazione era diventata insostenibile e così si aggiunse la regola che ci si poteva radere una piccola porzione di barba o capelli al giorno, così sì le cose a livello estetico per la Pixar peggiorarono, vedere le foto degli animatori conciati in certi modi è davvero esilarante! E hanno pure avuto il coraggio di inserire tutta questa storia tra gli extra del DVD del film, in versione animata per giunta!
Ma in fondo sta anche qui la genialità di un gruppo come quello della Pixar: nel sapersi divertire, senza mai prendersi troppo sul serio ma continuando, come bambini che non vogliono crescere, eterni Peter Pan, a giocare, ridere e scherzare tra loro.
Il rituale del divertimento prevede anche festeggiamenti in grande prima e dopo la produzione di un film, come in grande famiglia non solo i festeggiamenti avvengono nel modo più disparato all’interno degli uffici ma anche con ufficiali cene di gala in cui i dipendenti sfoderano i loro abiti migliori. Un modo quindi per celebrare la riuscita di un nuovo sogno e di sentirsi parte di qualcosa di grande! 

Una fabbrica di mostri
Se la Pixar è immediatamente riconoscibili nelle vesti colorate di John Lasseter, c’è però da dire che negli anni molti registi si sono formati all’interno degli studi di Emeryville, registi che hanno saputo degnamente sostituire l’animatore dietro la macchina da presa, pardon, dietro il computer.
Lasseter resta però insindacabilmente il leader della squadra, che dietro la sua allegria e la sua aria da eterno bambino, nasconde le doti giuste per saper comandare e ispirare il suo team. Entrato quasi in sordina all’allora Industrial Light & Magic ha portato da subito una ventata di ottimismo e di idee per assicurare un futuro alla divisione della computer animation e la sua passione da allora non si è mai esaurita. Cresciuto con il mito di Walt Disney ne è il perfetto erede. Disney definiva infatti la leadership come: <> e Lasseter con il suo contagioso amore per le fiabe ha reso la Disney stessa, da quando è sotto il suo comando, una casa piena di gioia e di idee da sviluppare. Non a caso anche i parchi gioco sono ora sotto la sua ala protettrice, il regno perfetto per un Peter Pan!
Dopo i primi tre grandi successi della Pixar (Toy Story, A bug’s life e Toy Story 2) a firma di Lasseter, questi ha capito che era giunto il momento di far camminare con le proprie gambe due degli animatori più promettenti che facevano parte del suo team e che avevano sviluppato delle proprie idee originali per dei nuovi lungometraggi.
Il primo a cimentarsi in solitaria è stato Pete Docter con Monsters & Co. Docter, nato a Bloomington nel 1968, era entrato già all’inizio degli anni ’90 come terzo animatore della Pixar dopo aver impressionato positivamente Lasseter e i direttori tecnici con il suo lavoro per la laurea, tra questi Philips ricorda: <<è stato come ‘Ragazzi, dobbiamo assumere questo tizio!’. Aveva tutto il necessario per essere un animatore. Aveva grandi capacità di disegno e aveva un incredibile senso nel raccontare storie e la sensibilità e un altrettanto grande capacità di sincronismo.>>
Passati i primi anni di rodaggio, Docter sviluppa quindi la sua idea su cosa si nasconde dietro la paura infantile dei mostri dell’armadio, creando quell’universo parallelo e fantastico che è Mostropolis. Per questo film, progetto avanguardistico e impressionante a livello di messa in scena -come abbiamo già visto per la pelliccia di Sulley ad esempio- la gerarchia dietro le quinte è cambiata rispetto ai film precedenti, qui ogni personaggio protagonista ha il suo proprio lead animator: John Kahrs per Sulley, Andrew Gordon per Mike e Dave DeVan per Boo. La leadership di Docter rispecchia quella di Lasseter, con un’attenzione particolare a non ingabbiare entro schemi lavorativi precisi i suoi collaboratori:
Come regista […] [non] dico loro troppo nello specifico ciò che voglio: ‘Nel fotogramma n. 7, voglio che prenda in mano la bottiglia’. Piuttosto, spiego il sentimento: ‘Ricorda che ha appena corso per 10 chilometri. É esausto, è arrabbiato’. Limitati a comunicare [agli animatori] i dettagli di questo tipo e considerali più che altro attori. Lascia che arricchiscano il contenuto attraverso le loro idee.
Il risultato è stato esplosivo, con incassi che hanno superato i precedenti film di animazione digitale, ma nel frattempo c’era qualcun altro che scalpitava con il suo progetto, pronto a rimettere in discussione questo record del box office.
Si tratta di Andrew Stanton, nato a Rockport nel 1965 e laureato anch’egli alla CalArts, autore di A story e Somewhere in the Arctic presentati allo Spike and Mike’s Festival of Animation del 1987 e della serie animata Mighty Mouse, the New Advetures. Era poi presente al SIGGRAPH del 1988 dove aveva aiutato la futura moglie di Lasseter, Nancy Tangue, con la storia di Pencil Test. Visto il successo popolare che i suoi lavori raccoglievano in giro per i festival, Stanton venne assunto alla Pixar diventandone il secondo animatore del team assieme a Lasseter pur non avendo alcuna conoscenza informatica. Dopo i primi anni nel team animatori dove si specializza negli spot commerciali e poi nella produzione dei due Toy Story, si cimenta nella prima regia con Alla ricerca di Nemo, intrigato dall’idea di riprodurre il mondo marino dopo una visita al Marine World di San Francisco. Durante la lavorazione di A bug’s life ebbe il tempo di fare degli schizzi su quella che doveva poi svilupparsi come una storia di amore e ricerca e di presentarla a Lasseter per un giudizio, il quale scherzosamente rispose <>.
Il processo creativo filò liscio soprattutto grazie agli studi approfonditi della vita nell’oceano realizzati con le immersioni in prima persona degli animatori e la visione collettiva dei documentari di Jaques Cousteau, del film IMAX Blue Planet e di Lo squalo e The Abyss. Il successo come si sa è stato memorabile, Nemo e i suoi sgangherati amici riuscirono a battere l’allora campione d’incassi di sempre Il re leone, compiendo il miracolo di cinque successi su cinque per la Pixar.
Questi successi dimostrano che non è il solo Lasseter ad avere il tocco del re Mida, ma che grazie alla continua cooperazione, all’instancabile lavoro del team e ad un’atmosfera creativa ed ispiratrice, altri grandi animatori e registi possono formarsi. La chiave di un successo sta quindi nel creare e formare un gruppo di cervelli, un brain trust che Catmull così definisce:
Quando un regista e un produttore sentono di aver bisogno di aiuto, convocano il gruppo [otto registi e tutte le altre persone che a loro parere potrebbero dare un contributo prezioso] e mostrano la versione attuale del work in progress, a cui fa seguito un vivace scambio di idee della durata di un paio d’ore, il tutto con l’obiettivo di migliorare il film […] Dopo una sessione, tocca al/alla regista del film e al suo team decidere che cosa fare dei consigli ricevuti; non c’è alcuna osservazione obbligatoria, e il gruppo di cervelli non ha alcuna autorità.
Docter e Stanton hanno quindi imparato bene la lezione dal loro maestro, si sono fatti le ossa a seguito di imprese incredibili ed uniche e quando è arrivato il loro momento non si sono tirati indietro.
Il rischio però, arrivati al quinto film, era quello di ripetersi e di non trovare più stimoli adatti all’interno della mura di Emeryville. Lasseter decise quindi di osare, invitando alla sua corte il regista Brad Bird che si era fatto conoscere al grande pubblico con il toccante film Il gigante di ferro. A Bird si mettevano a disposizione tutti i mezzi necessari per creare una propria hit e questi accettò la sfida, iniziando a progettare Gli incredibili.
Nato nel Montana nel 1957 e cresciuto nell’Oregon si interessa all’animazione fin da piccolo, iniziando a girare dei film amatoriali (tra cui un adattamento della favola La tartaruga e la lepre) e tenendo una corrispondenza con gli studios Disney. Mentre si trova alla Corvallis High School viene invitato a partecipare al nuovo programma di animazione della CalArts dove sarà compagno di classe niente meno che di Lasseter. Come Lasseter, finita la scuola si ritrovò a lavorare per la Disney e sempre come il fondatore della Pixar deluso dall’ambiente che vi trovò ne è stato cacciato. Bird gravita negli anni seguenti attorno al primo nucleo della Pixar all’interno della Lucasfilm Computer Division cercando di far partire un proprio progetto di computer animation. Smith ricorda:
Era uno dei ragazzi più divertenti sulla Terra. Tra noi si girovagava, si parlava, si sognava. Aveva tutte queste idee per fare dei film animati, ma non aveva un’ossatura tecnica nella sua formazione e non aveva la tolleranza necessaria che ti doveva servire all’epoca per mettere assieme qualche prodigiosa nuova tecnologia.
In questi anni mette assieme delle nuove idee che confluiscono nel corto Family Dog, un cartone che racconta la vita di una famiglia suburbana dal punto di vista del loro cane e che vede tra gli animatori anche un giovane Tim Burton. Il film cattura l’attenzione di Steven Spielberg che assume Bird per scrivere alcuni episodi della sua serie televisiva Amazing Stories. Negli anni ’90 poi, Bird contribuisce agli show animati King of the Hill, The Critic e The Simpsons. Ma Hollywood non soddisfa le sue aspirazioni, il ragazzo punta in alto e la TV lo rende il classico lavoratore frustrato, con il sogno nel cassetto di realizzare un proprio film da distribuire nei cinema. Nel 1993 viene assunto per breve tempo come regista di una commedia live-action della New Line Cinema, Brothers in Crime e a metà degli anni ’90 quasi da mercenario per alcuni film dell’impero di Ted Turner. É in questi anni che inizia a pensare ad un film futuristico, un noir influenzato da una storia che chiama Ray Gunn e pensa anche ad un adattamento del comic-book di Will Eisner The Spirit.
Finalmente nel 1995 in accordo con la Turner Pictures sembra arrivato il momento per il suo esordio alla regia, ma quando la compagnia viene assorbita dalla Warner Bros l’anno successivo, è un altro capolinea visto che i produttori esecutivi con cui era in contatto si trasferiscono in un’altra company. Ma la Warner, inaspettatamente, gli offre la chance di dirigere una storia da lui opzionata che prende spunto da un libro per ragazzi del poeta inglese Ted Hughes pubblicato nel 1968: Il gigante di ferro, che nel 1989 aveva già ispirato il leader degli Who, Pete Townshend, per un album della band. Per la messa in scena Bird riesce magistralmente ad armonizzare la tecnica d’animazione tradizionale a quella del computer 3D per il robot protagonista, facendo virare la storia verso un’allegoria contro la guerra ambientandola nell’America anni ’50 della guerra fredda. Nonostante la Warner diede al regista la metà di un budget utilizzato dalla Disney per i suoi film e un anno in meno di lavoro per ultimarla, l’opera che ne risultò è tutt’ora considerata un capolavoro. Ma purtroppo per Bird, all’epoca gli studios d’animazione non promettevano molto e così la promozione del suo film non è stata esaltante, e i cinema che hanno programmato Il gigante di ferro erano perlopiù vuoti. Bird era seccato e disilluso.
Ma fortunatamente, aveva con sé ancora tutte le idee di quando era giovane e dei tempi magri ad Hollywood, tra cui quella che si basava su una famiglia di supereroi costretti a nascondere la loro vera identità vivendo come cittadini ordinari. Immaginava già il film come un omaggio allo stile dei fumetti anni ’60 con l’influenza delle spies stories. Nel frattempo anche la sua vita personale si era evoluta, con l’arrivo di un terzo figlio iniziò a farsi sentire il conflitto tra le aspirazioni lavorative e i doveri di genitore, ormai era un trentenne, quanto ancora poteva sperare nel successo?
Ma come una Cenerentola, anche Bird trovò la sua fata, sotto le vesti del suo ex compagno di college, John Lasseter, che lo incontrò e dopo un breve incontro lo assunse alla Pixar il 4 maggio 2000.
Lasseter era infatti restio a tentare di dirigere un nuovo film e lo spaventava l’idea che il successo clamoroso che ogni produzione Pixar aveva avuto da Toy Story in poi avesse fatto perdere al suo team il senso della realtà. Per non rischiare aveva quindi deciso di affidarsi all’esterno, Bird è infatti il primo regista non pixarian che dirige un film negli studios. Rischioso da un lato, encomiabile dall’altro. Mai appoggiarsi sugli allori, e poi vista la dura gavetta e il cammino pieno di ostacoli percorso fino allora da Bird, rappresentava l’uomo giusto, pronto a tutto per il riscatto e desideroso di provare e riprovare per avere la perfezione che desiderava.
Gli incredibili entra da subito in lavorazione, e come già è stato illustrato rappresenta forse la sfida più difficile che i tecnici e gli animatori di Emeryville abbiano dovuto affrontare visti i dettagli, le invenzioni e tutti quei particolari che Bird ha ritenuto indispensabili nella produzione.
Brad Bird era quindi distante dagli altri registi che si erano fino allora succeduti alla Pixar, non solo perché veniva dall’esterno, ma anche per il suo approccio autoriale al film: se prima si avevano 2 o più co-registi e un vero e proprio battaglione di sceneggiatori, Gli Incredibili aveva un regista e uno sceneggiatore, Bird. Anche l’uso degli storyboards subiva il suo tocco autarchico, Lasseter, Stanton e Docter ci si basano per i dialoghi e il senso emotivo da trasmettere, lasciando agli altri dipartimenti la possibilità di creare i particolari; Bird ha insistito invece per definire questi particolari in prima persona. Il design dei protagonisti era poi perfezionato e disegnato da Tony Fucile e Teddy Newton, collaboratori con Bird alla Warner e che il regista si era portato dietro.
Gli Incredibili rappresenta quindi una sfida nella sfida, non solo per la qualità artistica che il film deve raggiungere (e che raggiungerà) ma anche per la collaborazione straordinaria tra un regista esterno e maniaco del perfezionismo con la sgangherata compagnia degli animatori Pixar. Ai primi malumori, dovuti fondamentalmente alle innovazioni tecniche che il film richiedeva e non alla direzione di Bird che si è presentato come un leader capace di ascoltare e valorizzare i suoi lavoratori, quello che serviva è stato da subito chiaro: << Datemi le ‘pecore nere’. Voglio artisti frustrati. Voglio quelli che fanno le cose in modo diverso e non vengono ascoltati da nessuno. Datemi tutti quelli che rischiano di volatilizzarsi uscendo dalla porta di servizio>> . Solo con animatori che potevano aver passato quello che lui stesso aveva passato era possibile compiere un’impresa così grande. La voglia di riscatto avrebbe colmato qualunque lacuna. E così è stato, Gli Incredibili avevano un costo al minuto inferiore a quello dei precedenti lungometraggi Pixar nonostante inizialmente erano stati pronosticati 10 anni per la sua realizzazione e la presenza del triplo degli scenari. Il film ha vinto l’Oscar come miglior lungometraggio di animazione e quello per il montaggio sonoro nel 2005 e, soprattutto, è stato il DVD più venduto dello stesso anno.
Questo perché, come afferma Bird stesso:
In Pixar non si è mai puntato a fare le cose spendendo meno [e] più velocemente. Si tratta di creare in vista del lungo termine. Le persone qui dentro amano i personaggi e sono consapevoli che questi film, se realizzati correttamente, prendono vita.
Dopo questi trionfanti esordi, Lasseter torna alla regia per firmare un progetto a lui caro: Cars. Questo nasce infatti dalla passione smodata dell’animatore per le automobili e permette di creare un mondo parallelo con le vetture più uniche e rare per protagoniste. Lasseter dirigerà anche il secondo capitolo della saga che ha per protagonista Saetta McQueen nel 2011.
Ma col passare del tempo c’è spazio anche per le nuove e le vecchie leve, e Lasseter si dimostra generoso nel lasciar loro la postazione dei comandi. Tra questi spicca Lee Unkrich, nato a Cleveland nel 1967 che lavora per la Pixar già dai tempi di Toy Story, del quale è stato montatore. La sua esperienza è poi continuata nel ruolo di co-regista per Toy Story 2, Monsters & Co. e Alla ricerca di Nemo. Passa però al posto della regia in solitaria con il terzo capitolo della saga di Woody e Buzz, firmando un sequel che non ha nulla da invidiare ai suoi predecessori e che, a conferma, ha in poco tempo battuto ogni record di box office della filmografia Pixar diventando il film di animazione con il maggior incasso di sempre superando Shrek 2.
E degli altri registi che ne è stato dopo il sorprendente esordio? Hanno continuato la carriera dietro la macchina da presa, chi con successi, chi meno.
Andrew Stanton, ad esempio, ha diretto magistralmente il suo secondo film, WALL-E, che ha incantato pubblico e critica per l’atmosfera magica che circonda il simpatico robottino e i suoi amici. Dopo l’enorme successo ricevuto ha deciso assieme all’amico Mark Andrews di provare un nuovo adattamento cinematografico dei famosi romanzi fantascientifici John Carter su Marte, scritti all’inizio del ‘900 da Edgar Rice Burroughts. Dopo che la Disney ne acquisisce i diritti, Stanton si butta nella sua prima e per ora unica esperienza con la live-action ma purtroppo per lui il film non ha la stessa accoglienza di quelli Pixar e registra uno dei peggiori flop cinematografici dell’anno 2012. Il riscatto potrebbe avvenire con la regia del secondo capitolo di Nemo, annunciato per il 2016.
Pete Docter continua invece alla grande la sua carriera alla Pixar non solo come animatore ma anche come soggettista (suo è infatti il soggetto di WALL-E) e soprattutto come regista. Nel 2009 crea infatti un capolavoro, quello da molti definito uno dei migliori film di animazione: Up. Il film permette a Docter, dopo sei candidature, di vincere la statuetta dell’Oscar come miglior film di animazione e sceneggiatura originale coronando così la sua carriera.
Brad Bird dopo Gli Incredibili lavora stabilmente alla Pixar producendo il corto animato, che viene distribuito come extra nel DVD del film, Jack-Jack Attack. Accantonata la famiglia Parr sostituisce Pinkava alla guida del progetto Ratatouille, dove apporterà decisive modifiche che ne faranno, nonostante tutto, l’autore del film. Il successo delle avventure del topo Remy è enorme e lo porta a vincere il Golden Globe e l’Oscar per il miglior film d’animazione nel 2008.
Anche Bird si dà però al live-action, dopo avere momentaneamente accantonato il progetto 1906 -che mira ad adattare per lo schermo il romanzo di James Dalessandro e che dovrebbe essere prodotto in collaborazione tra la Disney/Pixar e la Warner- si cimenta alla regia con il quarto episodio della saga Mission: Impossible – Protocollo fantasma che sbanca i botteghini di mezzo mondo nel 2011.
Con l’ultimo film Pixar, The Brave – Ribelle, in uscita in Italia a settembre 2012 c’è un altro grande esordio dietro la macchina da presa. Si tratta della prima donna regista nella storia della casa di produzione, Brenda Chapman. Nata nell’Illinois aveva già detenuto questo titolo per la DreamWorks doveva aveva diretto il film in animazione tradizionale Il principe d’Egitto. Prima di lei solo altre tre registe donna avevano fatto il loro ingresso nel dorato mondo dei film d’animazione: Lotte Reiniger con The Adventures of Prince Achmed, Joy Batchelor con Animal Farm e Arna Selznick e il suo Gli orsetti del cuore-Il film.
La carriera della Chapman inizia come abbiamo visto per molti disegnatori, dopo il diploma alla CalArts, grazie al quale viene assunta direttamente alla Disney. Qui si occupa come animatrice di punta di molti dei successi che negli anni ’90 rilanciarono la casa di Topolino come La sirenetta, La bella e la bestia e Il re leone, per cui è stata a capo dello story team.
Nel 1994 abbandona però gli studi Disney per entrare in quelli della DreamWorks dove dopo l’esordio alla regia cura anche il progetto di Chicken Little. E solo nel 2003 che la Chapman entra in pianta stabile alla Pixar collaborando alla realizzazione di Cars, oltre ad essere accreditata in Ratatouille, WALL-E, Up e Toy Story 3. Ma fin da subito si lancia nel progetto di realizzazione di un proprio film, The Brave appunto, che vede per protagonista non a caso, una giovane ragazza libera ed indipendente pronta a sfidare se stessa per non soccombere alle tradizioni del suo popolo. Il progetto, il primo con i toni di una favola e ad avere per protagonista una donna, ha però avuto un percorso travagliato ed è passato nelle mani di Mark Andrews a causa di disaccordi creativi. Brenda Chapman rimane indicata nei credits come co-regista. Andrews, il braccio destro di Brad Bird con il quale aveva lavorato per Il gigante di ferro e Gli Incredibili arriva da una formazione alla CalArts, ma si distingue da tutti i passati animatori per non apprezzare i film Disney anche se finisce per lavorarci essendo parte dello story team per il progetto di Stanton John Carter.
Non sono sempre state tutte rose e fiori alla Pixar, quindi. Se con The Brave c’è stata un successione in corsa alla regia, il caso forse più noto rappresenta quello che coinvolse l’animatore Jan Pinkava. Nato a Praga nel 1963 e presto trasferitosi in Inghilterra, Pinkava si appassiona subito alle belle arti, tra scultura, pittura e cinema. Dopo aver ricevuto in regalo una camera 8mm inizia a sperimentare le proprie capacità creando filmati con le tecniche della pixillation, stop-motion e cell animation. É dopo la brillante carriera all’Essex University che decide di virare verso studi riguardanti la scienza computeristica all’Università di Walles grazie a cui intraprenderà un lavoro basato sulla computer animation con la creazione di spot pubblicitari dapprima a Londra con la Digital Pictures, poi con la Pixar di cui entra a far parte già nel 1993 realizzando la famosa campagna per Listerine che vinse il prestigioso Gold Clio. Trasferitosi quindi negli USA inizia a lavorare sul suo primo cortometraggio in digitale che rappresenta un grosso traguardo: Geri’s game, con la sua malinconia e la sua unicità, porta in scena per la prima volta un essere umano dalle fattezze credibili. Il corto farà vincere a Pinkava l’Oscar come miglior cortometraggio di animazione e gli permetterà di iniziare a progettare un proprio lungometraggio dal sapore decisamente europeo. Si tratta di Ratatouille, ambientato in una Parigi non turistica e decisamente delicata ed ha per protagonista un topo, Remy, che vuole fare lo chef. Pinkava inizia a pensarci dal 2000, finendo già a marzo di scrivere una bozza della sceneggiatura con l’aiuto del capo dello story department Jim Capobianco. Nel febbraio 2003 la Pixar accetta il progetto come suo ottavo film, il primo da realizzare al di fuori del contratto con Disney, sotto il nome di Project 2006 (data che indica la fine prevista della sua realizzazione). Pinkava continua il lavoro di rifinimento sulla sceneggiatura assieme a Emily Cook e Kathy Greenberg ma con l’arrivo della fine dell’estate 2004, i problemi erano ancora molti e il regista sembrava aver bisogno di aiuto, così, con il suo benestare, il collega Bob Peterson venne inserito come co-regista, visto l’apporto che aveva dato ad Andrew Stanton riscrivendo e rimaneggiando Alla ricerca di Nemo. Ma contrariamente a quanto Pinkava si aspettava, lo studio diede a Peterson il controllo esclusivo della storia, mentre l’animatore restava con incarichi di preproduzione, come definire i character e il set design.
Nel giugno 2005, Peterson presentò la storia al gruppo dei top directors che comprendeva John Lasseter, Pete Docter, Andrew Stanton e Joe Ranft. La presentazione non riscosse alcun successo e Lasseter sentiva già che così il film sarebbe stato un flop. Peterson lasciò quindi il progetto e Pinkava tentò, invano, di riappropriarsi del controllo della produzione ma questa passò nelle mani di Brad Bird, e Pinkava, contrariato e addolorato, abbandonò la Pixar.
Con l’arrivo del regista de Gli Incredibili il progetto slittò la sua uscita al 2007 e l’intero team di animatori intraprese la famosa gita a Parigi per cercare l’atmosfera adatta da ricreare nel film dando così anche a Bird la possibilità di provare questo metodo di lavoro. Sotto la sua guida, in soli otto mesi per revisionare la storia e completare la produzione, molti dei personaggi già presenti restarono, così come lo schema buffo e geniale secondo cui Remy controllava i movimenti del pasticcione Linguini grazie ai suoi capelli, ma fece morire l’eroe del protagonista, il rinomato chef Gusteau, che torna solo sotto forma di spirito guida. In questo modo si semplificava la storia, eliminando le parti che riguardavano le diatribe tra il cuoco e il suo aiutante Skinner evitando così di disperdere l’attenzione del pubblico verso altre vicende. Per lo stesso motivo, anche la madre di Remy venne eliminata dal cast, preferendo un rapporto familiare che si basasse soprattutto sulla relazione complicata con il padre.
Pinkava commentò così l’accaduto:
Il personaggio di Remy cambiò profondamente. Diventò molto più sicuro di sé e schietto, seguendo la sua passione e il suo talento per la cucina e lavorando per superare gli ostacoli dei suoi sogni. Vennero lasciati da parte altre complessità del suo carattere: lo struggimento di Remy per la propria identità di ratto, il tradimento dei suoi valori famigliari, la consapevolezza della pazzia nel suo desiderio di essere parte di un mondo nemico, l’aspirazione che lo porta ad accettare la frustrazione nel vivere in menzogna nella cucina, il tutto che culmina nel suo finale “coming out”.
Bird si interessò tra tutti del personaggio di Colette, l’unica protagonista femminile che vive come una continua sfida lo stare in un mondo, quello culinario, da sempre dominato dagli uomini. Oltre a ciò, nonostante il cuore del film -il credere in se stessi e nelle proprie capacità- sia da sempre motore delle vicende dei film d’animazione, Bird diede alla storia una svolta più avventurosa e che a grandi linee rispecchiava l’esperienza del regista e di Lasseter dopo la CalArts all’interno della Disney. Come una grande metafora infatti il film comunica che dove esiste del talento, qualunque sia la sua origine, questo dev’essere trattato come prezioso; senza le dovute cure, inizia il suo lento e inesorabile declino, come per esempio, un ristorante che semplicemente ricicla le sue idee passate, capitalizzando e svendendo il nome del suo fondatore.
Ratatouille uscì nelle sale per tempo, stabilendo l’ennesimo successo sia di critica che di pubblico. Nonostante i malumori e i no comments rilasciati da Pinkava il suo nome compare nei credits come co-regista e come sceneggiatore, ottenendo per questa anche la nomination agli Oscar.
Questo breve excursus tra i registi Pixar ci permette di capire come siano le persone, nel loro insieme, a decretare o meno il successo delle loro idee.
Ciò che fa dei registi Pixar dei grandi registi, è la dedizione al lavoro. L’amore per quello che si fa e per come lo si fa traspare da ogni scena pensata e disegnata, e questo non solo perché l’ambiente e le persone coinvolte stimolano il buonumore, ma anche perché se si vuole essere dei bravi registi si deve essere collaborativi. L’assunzione mette in moto un vero e proprio network in cui le competenze personali risultano cruciali per trasformare l’arte in uno sport di squadra. Ma quali sono queste competenze? Ecco come le definisce Randy Nelson:
- Profondità: mostrare padronanza in riferimento a un tema o a una competenza primaria come il disegno e la programmazione e avere la disciplina necessaria per inseguire i sogni fino alla linea del traguardo,
- Ampiezza: possedere una vasta gamma di esperienze e di interessi, essere empatici con gli altri, avere la capacità di esplorare le idee da molti punti di vista diversi ed essere capaci di generare efficacemente nuove idee collaborando con l’intero team. Persone che ti fanno da cassa di risonanza. Vogliono sapere ciò che tu vuoi sapere.
- Comunicazione: la comunicazione non è una cosa che il mittente possa misurare. Solo il destinatario può dire “capisco”.
- Collaborazione: riunire le competenze (comprese la profondità, l’ampiezza e la comunicazione), le idee e i tipi di personalità dell’intero team per giungere a una visione condivisa. ‘Sì, inoltre…’ (invece di ‘No, è meglio quest’altra cosa’) è un’espressione che fa parte del gergo comune di Pixar, che promuove la creatività collettiva e mantiene vive e positive le vibrazioni e l’energia all’interno della stanza.

Alienus Non Diutius
Cosa rende così speciali i registi Pixar? O meglio ancora, cosa rende così speciali tutti coloro che lavorano alla Pixar. Come abbiamo avuto modo di approfondire nel capitolo riguardante l’ambiente lavorativo, il clima collegiale non ha mai abbandonato questi eterni Peter Pan, e c’è un motivo in più oltre la propensione naturale agli scherzi e allo svago.
Fondata nel 1995, la Pixar University rappresenta l’arma segreta della casa di produzione. Da 15 anni il suo rettore è Randy Nelson. Un vero fiore all’occhiello che negli anni ha formato alcuni degli animatori più promettenti oltre a, e qui sta la parte più interessante, continuare a formare gli animatori già arrivati. Sì, perché i dipendenti della Pixar sono invitati a dedicare almeno 4 ore a settimana alle lezione universitarie. Così durante le lezioni si crea non solo un gruppo ma si scambiano apertamente consigli, idee e deduzioni, il vecchio e il nuovo, il futuro e il presente vengono mescolati. Alienus Non Diutius, ‘Non più solo’, spiega Randy Nelson: <<è il nucleo fondamentale del nostro modello, dare alle persone l’opportunità di fallire assieme e di riprendersi assieme dopo aver commesso un errore.>>
La Pixar University è organizzata come una vera e propria università, con materie teoriche e pratiche ma ovviamente si distingue per le discipline insegnate. Sono oltre cento i corsi previsti -fra cinema, pittura, disegno, scultura, danza, animazione, scrittura creativa e molto altro- la Pixar University offre l’equivalente di un corso di studi in belle arti e cinema. Insegnare disegno ai dipendenti amministrativi non è una pazzia, perché le lezioni di disegno non insegnano solo come disegnare ma anche ad osservare il mondo con più attenzione. Quelle che vengono insegnate sono quindi delle competenze di cui si ha bisogno in ogni ambito della struttura. Tra queste, uno dei corsi più frequentati e più interessanti è quello dell’improvvisazione, perché anche liberare la mente, lasciar scorrere la fantasia può essere spiegato. Sempre Nelson dichiara:
Se non crei un’atmosfera in cui non si possano correre facilmente rischi, in cui si possano lanciare idee bizzarre, è probabile che tu produca lavori che sembreranno derivativi una volta messi in commercio. Tutte quelle ipotesi irrazionali, alla fine, portano a qualcosa che ti fa dire ‘wow, non ci avrei mai pensato’.
La formazione all’interno di Emeryville è quindi continua, e questo porta gli animatori e i vari tecnici a sentirsi coccolati e ad apprezzare il loro lavoro.
Lavoratori felici equivalgono a prodotti migliori, ad un clima sereno e a una maggiore cooperazione e sfruttamento delle energie.
C’è un vero e proprio senso di libertà all’interno degli studios, e tutto ciò porta a gratificazioni e a maggior dedizione. Come ammette lo stesso cofondatore di Pixar, Alvy Ray Smith:
Molte aziende mantengono l’assoluta segretezza riguardo a qualunque cosa. Noi abbiamo capito che uno dei motivi per cui avevamo alcuni dei maggiori talenti del settore non era solo il glamour [di Pixar], ma anche il fatto che permettevamo a queste persone, a loro modo, di conquistare la gloria. Pubblicare articoli sulle riviste accademiche e diventare famosi è più importante dei soldi per il tipo di persone che lavora per noi.
Un lavoro creativo ed incessante, che porta onori e riconoscimenti, una formazione continua che permette il confronto, così si allevano i talenti, così li si invoglia a sperimentare e a provare il nuovo, così si ha successo perché se non si è i primi a scommettere sul nuovo allora non si è pronti a rischiare, e se non si rischia, non ci si muove.


Parte II – Silenzio in Sala
Go Up! – Il pubblico

“Elegante come una berlina, scattante come un go-kart!”
Saetta McQueen – Cars 

Quando nel 1995 Toy Story irruppe nelle sale, la frattura che si creò nel mondo cinematografico non è stata solo tra animazione tradizionale e animazione digitale, ma anche una frattura interna al pubblico. I film animati, i cartoni, fino a quell’anno erano visti come territorio esclusivo dei bambini, di un pubblico infantile quindi, a cui erano ammessi quasi esclusivamente i genitori, costretti ad accompagnare i loro pargoli nei cinema. Ma con Toy Story qualcosa cambia. Non sono più solo i bambini che si identificano nell’eroe o nella principessa protagonista e ne seguono le gesta fino al tradizionale happy end, questa volta gli adulti stessi sono coinvolti, riescono ad identificarsi nell’azione narrata e ad emozionarsi.
Cosa è successo quindi? Quali temi tralasciavano le passate filmografie, Disney soprattutto, per non riuscire a captare questa importante fetta di pubblico?
Il merito di questa impresa va riscontrato in una persona che per prima si lascia affascinare da quelli che vengono quasi snobisticamente categorizzati come cartoni animati: John Lasseter. L’eterno Peter Pan, l’adulto-bambino che non vuole crescere è l’emblema dell’amore incondizionato che a questa categoria si rivolge. La sua passione e il suo talento confluiti nelle creazioni Pixar hanno portato i film ad avere sì un occhio di riguardo verso il pubblico infantile a cui questi erano indirizzati, ma si è anche ingegnato e impegnato nel trovare temi, modi di messa in scena e altri meccanismi che riuscissero a tenere incollati sulle sedie anche gli adulti. I film dovevano prima di tutto riuscire ad appassionare lui, se questo funzionava, l’opera aveva una marcia in più. Solo a guardarlo Lasseter rappresenta un bambinone mai cresciuto: quelle camicie hawaiane colorate e fantasiose, lo studio ingombro di giocattoli di ogni forma e tipo, il rapporto speciale con i figli, cinque in tutto, che lo rendono ancora più simpatico e speciale.
Come spiega lui stesso:
Le persone che finiscono per occuparsi di animazione tendono a rimanere bambine. Non siamo costretti a crescere, noialtri. Gli animatori, però, sono anche ottimi osservatori, e hanno questa meraviglia infantile e questo interesse nei confronti del mondo: l’osservazione delle piccole cose che succedono nella vita.
Lasciando invece parlare i suoi collaboratori, Ronen Barzel parla di questa sua attenzione ai dettagli così:
Guardando ad un singolo frame –è un lavoro meticoloso- può sempre essere conscio del suo ruolo nel più largo contesto della storia da raccontare. Dice qualcosa come: ‘Questa è la prima volta che il personaggio risponde a questa situazione; è molto importante che abbia il giusto guizzo dell’occhio’.
L’animatore e regista Pete Docter sostiene:
Credo che John sia davvero un ottimo esempio. Riesce a vedere il potenziale in tutto ciò che gli si presenta. Penso che questo atteggiamento abbia contagiato l’intera casa di produzione e sia diventato uno degli aspetti fondamentali per cui la Pixar è un buon ambiente. C’è semplicemente una gioia di vivere che infonde energia, una ricettività all’ispirazione che può sorgere da qualunque cosa, da qualunque persona e da qualunque parte.
Quello che con Lasseter e il suo team cambia, quello che Toy Story cambia è l’approccio al film. Non più un cuore centrale che si rifà al classico schema eroe-antagonista delle fiabe, ma un film che si compone di più livelli di lettura, ognuno dei quali riconoscibile e apprezzabile in base all’età. I classici di Walt Disney, da Biancaneve in poi, prevedono infatti dei protagonisti buoni (principesse o eroi) che si vanno a scontrare con il loro nemico in modo da raggiungere l’oggetto del loro desiderio chiaramente esposto fin dall’inizio. Questo schema, ovviamente, non può coinvolgere ed appassionare allo stesso modo grandi e piccini, in quanto i primi sono ormai assuefatti da questo genere e sono temprati dal sicuro happy end finale e dalle ormai scontate svolte della sceneggiatura. Con Toy Story invece, tutto ciò cambia. Non è la fiaba il modello di riferimento ma un live-action, un buddy film in cui due protagonisti agli antipodi devono unire le forze per realizzare un desiderio comune: ritrovare il loro padrone, in questo caso. Ma non solo c’è questo cambio di riferimento ad entrare in gioco per attrarre gli adulti, Lasseter è bravo nel trovare una storia, un tema, che riesca ad essere universale e trasversale a livello di generazioni. Il film si presenta infatti come all’interno di un mondo infantile popolato da giocattoli, ma lo fa creando un universo nuovo, cambiando il punto di vista e stravolgendo i riferimenti classici: i giocattoli prendono vita, proprio come tutti, nessuno escluso, speravamo e credevamo succedesse quando eravamo bambini. Attraverso quindi un mondo fanciullesco che possa essere da tutti riconosciuto, la vicenda crea quell’appeal e quella gamma di sensazioni difficili da ignorare: la nostalgia, la magia e l’affascinazione entrano in gioco non solo per un pubblico infantile ma anche per gli adulti perché si rivedono e sentono il peso di una storia che in qualche modo si relaziona proprio al loro passato. Lo stesso vale per Monsters & Co., dove ancora una volta il riferimento, il nostro mondo, viene soverchiato, a favore di quello dei mostri che da piccoli ci terrorizzavano e che eravamo sicuri popolassero la nostra cameretta appena le luci si spegnevano.
Walt Disney non era riuscito a fare tanto. Con i suoi animali antropomorfi riusciva sì ad affascinare i più piccoli e creare un legame speciale con i suoi lungometraggi (che continuano ad emanare quell’alone di magia anche a distanza di anni) ma non si accaparrava il pubblico più adulto proprio perché le vicende che dalle fiabe classiche prendevano spunto, esponevano un modello fin troppo conosciuto. Quello che va però riconosciuto al patron Disney, è l’importanza di rendere umani anche gli oggetti, di antropomorfizzarli, creando così un sicuro effetto comico che gli esseri umani di per sé non riuscirebbero a dare. Quando poi, con gli anni ’80 e ’90, lo studio di Topolino inizia a creare dei veri e propri musical il distacco si fa ancora più evidente. I numeri di canto e ballo che iniziano a popolare i film da La Sirenetta in poi, e che già con Gli Aristogatti sono presenti in tono minore, riescono a rimanere in testa ad un pubblico infantile, incantato dalle prodezze canore dei loro nuovi beniamini. Ecco perché al momento di sceneggiare Toy Story Lasseter si oppone alla decisione di Disney di inserire dei momenti canori tra Buzz e Woody, preferendo invece comporre, come nei film live-action, una colonna sonora che serva a far esprimere ai personaggi il loro stato d’animo. Grazie alla collaborazione con il grande Randy Newman, nasce quindi You’ve got a friend in me, la canzone che accompagnerà anche i sequel delle avventure dei giocattoli di Andy e che arriverà a vincere l’Oscar.
Lasseter resistette ad un approccio da musical teatrale che Disney voleva, convinto che le esibizioni da musical avrebbero portato Toy Story lontano dalla sua realtà. Disney e Pixar arrivarono ad un compromesso: i personaggi di Toy Story non avrebbero cantato, ma il film avrebbe usato canzoni a sottolineare l’azione, come ne Il laureato, per convertire e amplificare le emozioni che Buzz e Woody sentono.
Toy Story diede ragione a Lasseter nel poter constatare che anche un film d’animazione che si distacca dal modello fiabesco e che si focalizza su personaggi adulti con problemi simili a quelli adulti può comunque intrattenere e divertire un pubblico di bambini.
Con il successo trionfale di Toy Story anche altre case produttrici di animazione si interessarono a quella fetta di mercato che ancora non si era riusciti ad attirare. La Dreamworks che aveva esordito in sordina con Il principe d’Egitto, un lungometraggio in animazione tradizionale che narrava le gesta di Mosè per un audience tipicamente infantile, ora si proponeva con un film, Z la formica, che mirava decisamente a colpire gli adulti. Il ricco cast di doppiatori che vantava tra i protagonisti Woody Allen, Gene Hackman e Sharon Stone, la trama decisamente approfondita e che privilegiava temi psicanalitici complessi erano l’espediente utilizzato per invogliare anche le persone dai 16 anni in su ad entrare in sala. L’effetto riuscì (anche se come visto al box office vinse A bug’s life della Pixar) e lo stesso schema, ma molto più geniale, si ripeté anche con il successivo film d’animazione della casa di produzione di Spielberg. Shrek ha avuto un successo spropositato, battendo in poco tempo ogni record precedente detenuto dalla Pixar e installandosi come simbolo spartiacque del cinema “a cartoni” per adulti essendo presentato nientemeno che a Cannes. Abbandonati i protagonisti belli e perfetti, gli eroi e le principesse a cui si preferisce un mostruoso orco verde; abbandonati i topos tipici delle fiabe perché proprio dentro il mondo delle fiabe ci si trova; scoprire il dietro le quinte delle favole che accompagnavano le nostre buone notti nonché ritrovare le eroine della Disney stesse sbeffeggiati e nei panni di tutti i giorni portano un pubblico trasversale ad amare la pellicola. I piccoli perché trovano tutte le caratteristiche a cui sono abituati (una principessa da salvare, un eroe forzuto e un aiutante imbranato e divertentissimo) anche se un po’ stravolte, gli adulti perché trovano in Shrek un film pieno di ironia, di elementi e riferimenti metacinematografici e la rilettura delle favole conosciute.
La DreamWorks e la Pixar sembrano così unite nel voler dare nuovo spazio al pubblico, creando storie che si rifanno sì alle classiche favole con schema incluso, ma che ne cambiano i connotati facendoli più appetibili. Sarò un caso poi che entrambe le case di produzione, almeno nei primi film, scelgano come propri protagonisti dei mostri, quegli esseri bistrattati in anni e anni di favole edulcorate che li relegava al ruolo di cattivi, vengono ora riabilitati e non solo perché più facili da creare digitalmente di un essere umano (che all’epoca risultava ancora poco credibile, vedasi il bimbo di Tin Toy).
Al di là della scelta azzardata dei propri protagonisti, la Pixar si staglia sul pubblico adulto anche per un altro fattore che non va sottovalutato: l’aderenza al reale. Come dice Lasseter, partire dal reale per stravolgerlo, partire da una cameretta di un bambino per poi scoprire che i suoi giocattoli si animano quando non c’è o che dietro la porta del suo armadio si cela una fabbrica che si serve della sua paura per fornire elettricità ad una città intera. La cura nel ricreare ed inventare questi mondi porta poi questa nuova fetta di pubblico di affezionati ad apprezzare la messa in scena come si trattasse di un live-action e ad attendere il prossimo lungometraggio forse con più foga di un bambino, ogni riferimento personale è puramente voluto. La passione e il divertimento della fase di realizzazione si rispecchia come visto nel film stesso perché, come sottolinea Brad Bird, << in Pixar non si è mai puntato a fare le cose spendendo meno [e] più velocemente. Si tratta di creare in vista del lungo termine. Le persone qui dentro amano i personaggi e sono consapevoli che questi film, se realizzati correttamente, prendono vita>>. Non si tratta però di realismo, piuttosto di un colto iperrealismo, una stilizzazione e un’accurata selezione di tutti gli elementi che possono stimolare una vera avventura visiva, a metà tra sogno e videogioco.
Approfondiremo nel prossimo capitolo l’importanza, nonostante il mondo colorato di Monsters & Co. o quello senza umani di Cars, dell’aderenza al reale per la casa produttrice.
Tornando alla filmografia Pixar, ci sono dei fattori secondo Lasseter che permettono a colpo d’occhio di identificare un suo film: allungamento di scene avventurose e di commedia intramezzati da momenti di disarmante onestà, tutti incapsulati dall’inevitabile happy end.
Sono forse tre, più uno a fare da vero spartiacque, i film che rappresentano per la Pixar una nuova filosofia del fare animazione non solo per bambini.
Il primo, come visto, è lo stesso lungometraggio realizzato dall’azienda nel 1995, Toy Story. Con i suoi temi legati alla nostalgia del passato che il mondo dei giocattoli riporta alla mente unita alla paura di invecchiare che affligge Woody, consapevole che prima o poi Andy crescerà e non avrà più bisogno di giocare con lui, il film riesce ad appassionare entrambe le fronde del pubblico. I genitori si rispecchieranno nelle angosce del cowboy, temendo il giorno in cui il loro figlio se ne andrà, crescerà e non sarà più il loro bimbo; il bambino stesso si riconoscerà in un mondo fantastico, colorato e animato (inteso questa volta con derivazione animistica del termine) che da sempre sogna ad occhi aperti.
Anche per quando la messa in scena c’è un attenzione particolare, che strizza l’occhio al mondo adulto per la costruzione di scene e di riprese che rimandano ad altri film. Durante la realizzazione infatti si era deciso di citare famosi lungometraggi della storia del cinema attraverso il modo in cui alcune scene erano state girate, si ha così una Branagh-cam che riprende il famoso carrello del Frankenstein del 1994 quando Woody è giudicato colpevole dagli altri giocattoli di aver spinto Buzz e una Michael Mann-cam ispirata dalla tecnica utilizzata dal regista nella serie Miami Vice quando Woody rischia di essere investito da un camion alla stazione di servizio. Come poi alcuni critici hanno da subito capito, il film era espressamente pensato per un pubblico adulto anche per alcune scene, quella riguardante i giocattoli freak di Syd, il ragazzino pestifero, o per battute e allusioni non proprio in stile Disney. Nonostante questo, alla sua uscita le critiche sono state entusiastiche.
Toy Story rappresenta poi per la Pixar il primo caso di sequel (seguiranno Cars 2 e Monsters University, ancora in produzione) questo sia per la magia che si era creata durante la realizzazione e la facilità di riprendere personaggi già creati e conosciuti nelle loro caratteristiche, sia per accontentare i numerosi fan sparsi per il mondo che attendevano le nuove avventure di Buzz. Si dovevano però rispettare i sentimenti di questi fan, adulti o bambini che fossero, perché come Lasseter aveva avuto modo di capire, ormai le sue creature non gli appartenevano più ma erano di tutti, ogni bambino che avesse amato il film poteva avere il suo bambolotto personale di Woody e così era giusto considerare e portare rispetto ad ognuno di loro.
Se nel secondo episodio della saga, uscito solo a distanza di quattro anni dal primo, i temi fondamentali restano più o meno gli stessi (la paura di essere abbandonati e la nostalgia per il passato), il terzo uscito nel 2010 registra un profondo cambiamento e vira decisamente a rendere felice ed accontentare quella fetta di pubblico adulta oltre a chi 15 anni prima era bambino. Il tuffo nel passato che si compie tornando nella cameretta di Andy è da subito un tuffo nel presente, il bambino è cresciuto, è pronto ad andare all’università e i suoi giocattoli non gli servono più. Il momento dell’abbandono tanto spaventoso che si era profilato nei due precedenti capitoli è ora drammaticamente vicino e riesce a commuovere anche i più insensibili. Questa volta il tema della crescita è più presente e porta con sé una vera e propria venerazione per il passato intriso di magia e di felicità dell’infanzia. Toy Story 3 – La grande fuga è pensato appositamente per creare il famoso effetto nostalgia, ma non c’è malizia o fini commerciali in questo, ogni fan, ogni bambino cresciuto con Woody, Buzz e gli altri si aspettava questo film e non poteva essere migliore di così.
Anche con Cars, il lungometraggio che segna il ritorno alla regia di Lasseter dopo sette anni di voluta lontananza è un perfetto esempio di come la Pixar sappia allargare il proprio pubblico. Molti critici hanno visto in questo film uno dei più infantili della produzione ma in realtà strizza spesso e volentieri l’occhio ad un pubblico maturo. Prima di tutto per la scelta dei protagonisti, quelle macchinine che sì, erano e sono uno dei giochi più diffusi nel mondo dell’infanzia ma sono anche oggetto di desiderio e di culto per uomini e donne in età di guida. Cars pullula così di Lamborghini, Ferrari e utilitarie varie che se da una parte ammaliano grazie alla loro forma antropomorfica e i colori sgargianti gli spettatori in tenera età, dall’altra appassionano e fanno aumentare il desiderio di chi vorrebbe guidarle o possederle. Anche la trama stessa riprende da Toy Story quell’amore e dedizione verso il passato, nascondendo sotto le fasi di azione e di gara sentimenti nobili a più livelli di profondità. Il film era nato da un’esperienza personale di Lasseter che oltre ad essere figlio di un costruttore della Chevrolet è anche padre e con i ritmi di lavoro della Pixar si stava perdendo le gioie della sua paternità. É stata la moglie a riportarlo al suo dovere, il tempo passava, i figli crescevano e entro breve si sarebbe trovato a non avere più degli Andy che giocavano con i pupazzi ma adolescenti pronti a lasciare il nido. La famiglia Lasseter partì quindi per un lungo viaggio alla scoperta dell’America, evitando autostrade e scegliendo le strade interne e panoramiche, riscoprendo il valore del tempo vissuto nella sua pienezza. Non era importante la meta del viaggio, ma il viaggio in sé. Tutto questo, come si evince, confluì poi nella sceneggiatura di Cars, con Saetta McQueen abituato ai ritmi frenetici del suo campionato di corsa ormai incapace di apprezzare il valore di un singolo momento che costretto suo malgrado a fermarsi lo ritroverà. Una metafora dei giorni nostri, vissuti a ritmi sempre più accelerati, con lo stress che ne comporta… per un bambino quindi è una storia di redenzione sì, e di divertimento, per l’adulto è un monito, un ammonimento a riprendere le redini della sua vita. Anche in questo caso, nonostante il successo non paragonabile alle pellicole precedenti, Lasseter ha deciso di girare un sequel, ancora più spettacolare e pensato molto più in grande con una gara che porta Saetta ad un vero e proprio giro del mondo dove i temi del primo capitolo si disperdono per lasciare posto alla meraviglia della realizzazione delle varie location e alla frenesia delle gare.
L’altro grande lungometraggio che sancisce l’attenzione particolare che la Pixar riserva ad un pubblico di età mista è sicuramente Gli Incredibili. Abbiamo già avuto modo di vedere come il film di Brad Bird rappresenta il grado massimo di espressione delle esperienze tecniche nella storia della casa di produzione e che proprio grazie a queste la realizzazione dei successivi film è stata decisamente in discesa. Ma cos’ha di tanto complicato? Non solo tutti gli espedienti e i particolari quali capelli, fumo, tessuti che sono stati ricreati al computer, la vera sfida era fare un film che sarebbe potuto benissimo esser fatto in live-action. La cinematografia mondiale è ormai piena di film che hanno per protagonisti dei supereroi e negli anni si è portata avanti una vera lotta interna per riuscire a confezionare dei superpoteri sempre più abbaglianti che stupiscano il pubblico. Un padre indistruttibile, una madre elastica, una ragazza invisibile e un ragazzino velocissimo sembrano bazzecole all’epoca dei vari Spiderman, Avengers, Batman e quant’altro. Tutto viene però realizzato in animazione digitale raggiungendo paradossalmente un risultato ancora più incredibile (è proprio il caso di usare questo termine) che se fosse stato fatto dal vero. Il film assume uno stile unico, rifacendosi agli anni ’70 o meglio a come si immaginava quel futuro così lontano e avveniristico in quegli anni, con una cura maniacale che va dall’arredamento ai movimenti di camera che rispecchiano fedelmente quelli di pellicole d’azione dell’epoca scelta. Come sottolinea anche Gianluca Aicardi, Gli Incredibili è <> , gli ammiccamenti ad un pubblico più giovane sono lasciati sulle spalle dei protagonisti più giovani per l’appunto che rappresentano appieno i timori e la frenesia della loro età portando così questa fetta di spettatori a rapportarsi con loro e sognare la loro vita e i loro poteri. Gli adulti invece si godranno uno spettacolo che soddisfa tutti i sensi (anche la colonna sonora composta appositamente da un’orchestra dal vivo riporta alla mente i film di spionaggio anni ‘70), riuscendo a dimenticare che quello che hanno davanti è un’animazione, calandosi appieno nella trama e nell’azione.
Ma il vero punto di svolta nella ricca filmografia Pixar è costituito da WALL-E un vero e proprio gioiellino,
considerato da molti critici come il più “adulto” dei lungometraggi finora realizzati. L’avventura che porta il robottino Wall-e a partire dalla Terra desolata e abbondonata, ingombra di macerie, allo spazio cosmico dove gli esseri umani navigano in crociera da decenni è sicuramente una storia che colpisce gli adulti, per la profondità dei temi trattati (l’ecologia, il consumismo) e per la realizzazione. La prima magica mezzora praticamente senza dialoghi incanta per la sua potenza espressiva, la comicità si fa gestuale, come nelle vecchie commedie, i sentimenti si esprimono con i suoni. Anche l’inserimento, a mo’ di leitmotiv dello spezzone di danza tratto da Hello, Dolly! rende WALL-E un film che mira decisamente ad un pubblico cresciuto, capace di cogliere le sensazioni più nascoste e di riportare la magia dei grandi film di animazione nel loro cuore. In realtà però, a ben guardare, la pellicola ha tutti gli elementi necessari per incantare anche i più piccoli, con un protagonista buffo e goffo, un amore tenero e platonico e l’avventura a farla da padrone. E poco importa se le parole mancano, se i personaggi principali si esprimono ripetendo gli stessi vocaboli e gli stessi suoni, il loro messaggio è così universale da essere capito da tutti. E così, grazie alla perfetta messa in scena dello spazio, delle galassie lontane e colorate, anche i bambini restano affascinati e avvinti da Wall-e e Eve e imparando, come soleva una volta, una morale da non dimenticare. WALL-E è quindi una fiaba con qualcosa in più, che della fiaba rispetta tutti gli schemi narrativi ma che allo stesso tempo li modernizza rendendoli del tutto originali e personali. I critici hanno elogiato il film, rendendolo il più applaudito dai giornalisti del settore di tutta la filmografia Pixar: il Washington Post lo ha definito <>, il New York Post scrisse: << Un giorno, ci saranno corsi al college dedicati a questo film>> e il Wall Street Journal lo nominò miglior film dell’anno . Nonostante ciò, al boxoffice non è stato un successo, i risultati sono stati modesti, quasi uguali a quelli raggiunti da Cars, mentre il rivale dello stesso anno sfornato dalla DreamWorks Kung Fu Panda è stato un vero e proprio fenomeno tanto da produrre un seguito sei anni dopo. Ciò non intacca il valore morale e estetico che la pellicola di per sé ha, il suo essere adulta-centrica con un linguaggio infantile ed universale. Lasseter con questa pellicola, da lui prodotta e visionata, ha ribadito quello che da il primo Toy Story diceva: i film non sono un campo esclusivo per i bambini, che si devono quindi “abbassare” ad essere fiabe semplici e senza grosse novità sia di trama che di realizzazione, anzi, proprio perché i film d’animazione sono visti anche da loro devono stupirli, rallegrarli e commuoverli. Come i classici Disney devono crescere assieme a loro e farli crescere ma devono anche tenere conto di quegli eterni Peter Pan, di chi non vede nell’animazione un genere chiuso e ormai morto, ma anzi un genere pronto a rinnovarsi e a maturare con il tempo unendo l’arte e la scienza. Così la Pixar è riuscita negli anni ad accaparrarsi il rispetto di un pubblico trasversale, che aspetta l’ultima fatica con impazienza e che è pronta a lasciarsi incantare ancora e ancora perché sa di poter contare sul brand.
Tutto ciò dimostra come Lasseter sia stato attento e sia stato pronto a raccogliere l’eredità di Walt Disney. Proprio come zio Walt, il suo mantra è The story is King, la storia è il centro da cui tutto si dirama e che riesce a catturare ed entrare nel cuore del pubblico. Più questa è bella, importante e nuova, più lo spettatore coglierà queste sue caratteristiche amandola. Ma se i classici Disney ammaliano una fetta di pubblico principalmente infantile, riuscendo sì a restare nel cuore e nella mente di questi fino all’età adulta, come abbiamo visto la Pixar si spinge oltre. Non è un caso quindi che ogni film realizzato ad Emeryville, compresi i sequel, siano storie originali, ispirati dagli animatori e dai registi da esperienze personali o da riflessioni e barlumi improvvisi. Non si è saccheggiato il repertorio dei fratelli Grimm né si è andati a spulciare in vecchie leggende popolari… le storie sono pian piano fluite fino alla loro completezza in modo del tutto spontaneo, attraverso confronti e riflessioni. Come sostiene Catmull lo stesso Walt Disney <> . Se Walt aveva capito l’importanza di far proprie e di rendere universali tradizioni e leggende locali, così Lasseter ha capito come valorizzare i suoi autori e lasciar loro mente libera attraverso un ambiente favorevole. Ma se da una parte c’è Lasseter che raccoglie l’eredità artistica di Disney, dall’altra non va dimenticata quella di Catmull che proprio come il fondatore ha ridefinito la tecnologia dei lungometraggi di animazione, stabilito un nuovo standard narrativo e dato vita a una cultura aziendale innovativa. I due rappresentano quindi lo spirito reincarnato di Walt e non a caso ora ne gestiscono l’azienda.
Innovazione tecnica, originalità nelle storie, universalità del pubblico. Questi sono gli ingredienti che determinano il successo di un film marchiato Pixar.


Be Brave! – La morale
Dory: Avanti, fidati no?
Marlin: Fidarmi?
Dory: Sì, fidati! Gli amici fanno questo.
Alla ricerca di Nemo

É una cosa che impariamo fin da quando siamo bambini, una favola, per essere una vera fiaba, deve avere una morale, una lezione etica da impartirci nel suo finale. Lo si sa dai tempi di Esopo, proseguendo per le tradizioni orali locali o i fratelli Grimm: il protagonista, sconfiggendo il suo nemico, non solo porta la vittoria del bene sul male, ma dona a noi un insegnamento prezioso. E così negli anni e nei secoli, le storie che ai bambini si raccontano, quelle che spesso li accompagnano nel mondo dei sogni, servono non solo a calmarli ma, soprattutto, a dare loro una riflessione, uno spunto da poi poter praticare nella vita di tutti i giorni.
Quando Walt Disney intuì il potere fascinatorio delle favole, delle leggende tramandate oralmente, non si lasciò certo sfuggire la nozione che per essere davvero efficaci e per avere anche un fondo etico sul quale basarsi, anche i suoi cartoni dovevano mantenere una morale. A partire dal Topolino, piccolo e malconcio, che riesce a sopraffare grazie all’intelligenza il grosso Bruto in Steamboat Willie, la vittoria di un Davide contro un Golia che dimostra come l’apparenza inganna e come il cervello sia molto più forte dei muscoli. E poi Biancaneve, La bella addormentata nel bosco e tutte quelle fiabe trasportate con matita e colori in cui l’amore trionfa e il bene soverchia sempre il male. D’altronde i cartoni Disney erano prodotti principalmente per un pubblico infantile, per quei bambini che ancora dovevano crescere, sia fisicamente che moralmente, ed era quindi necessario dar loro di ché riflettere ed accontentare anche quei genitori che pagavano il biglietto del cinema non solo per un’ora di relax e spensieratezza. Le lezioni non finiscono mai, giusto? E così, infarcititi nel buonismo, il mondo di Disney si popola di eroi e insegnamenti, con un Semola bistrattato e deriso che si ritrova ad essere grazie agli insegnamenti di Merlino il nuovo re d’Inghilterra o arrivando in tempi più recenti alla bella Raperonzolo che prende in mano la sua vita e si salva da sé dimostrando il valore dell’indipendenza.
Partendo da questo mondo, gli animatori Pixar non potevano non continuare la lunga tradizione che si porta avanti ormai dagli albori del cinema, e così anche nelle loro opere si incontrano insegnamenti e insegnanti. A modo loro ovvio, senza dimenticare l’ironia e la sgangheratezza che sono ormai marchi di fabbrica.
Una delle cose che prima di tutto salta agli occhi e come siano cambiati i protagonisti e con essi, conseguentemente, anche i loro oggetti del desiderio.
Banditi eroi indomiti e principesse svenevoli, il mondo Pixar si popola di animali, mostri e umani molto più simili a noi, con pregi e difetti annessi. Le principesse, molto diverse dallo stereotipo comune di amori da salvare si incontrano solo tra i giocattoli di Toy Story e in Brave, che come visto porta lo zampino di una regista che dal mondo Disney proviene. Ma cosa desiderano quindi questi nuovi protagonisti? A cosa anelano e soprattutto di quale valore sono portanti? Non più l’amore, ma l’amicizia! 

Questa è la grande rivoluzione Pixar all’interno della sua filmografia e che è un sicuro tassello che ha permesso il raggiungimento del successo che ancora mantiene: il cambiamento sostanziale di porre un valore universale e profondo come l’amicizia rispetto a quello universale sì, ma più individuale dell’amore. Le storie romantiche si contato sulle dita di una mano, Wall-e e Eve, Saetta McQueen e Sally Carrera sono gli unici protagonisti che al centro, anche se un po’ marginali, anelano all’amore, le altre da Woody e Boo Beep e Buzz e Jessie, Linguini e Colette sono sì presenti ma non sono al centro delle vicende né tantomeno sono il desiderio primario del protagonista.
Prima dell’amore c’è infatti l’amicizia, da recuperare, da costruire o da saldare. Ecco quindi che si formano delle coppie storiche, che si avvicinano grazie alle loro differenze e che, superandole, creano un rapporto del tutto speciale: Buzz e Woody, Sulley e Mike, Marlin e Dory, Saetta e Cricchetto, Remy e Linguini fino ad arrivare a Carl e Russell. Queste amicizie sono il motore, il cuore del film e riescono a creare maggiori situazioni identificative, comiche e avventurose allo stesso tempo proprio perché i sentimenti in gioco sono, se possibile, più forti dell’amore perché non sono altrettanto precari ma sono in continuo divenire, una ricerca nell’insieme.
E non è forse la stessa situazione che si ritrova all’interno degli uffici e degli studios di Emeryville? Il rapporto con i colleghi, gli scherzi e gli screzi sono fonte di ispirazione per denotare le amicizie da rappresentare sullo schermo e proprio per questo occupano la parte principale di più lungometraggi, quasi a voler sottolineare il clima disteso e di divertimento nel quale si lavora.
Se quindi da questo punto di vista le opere Pixar si distanziano nettamente da quelle di casa Disney dove l’amore è il vero e proprio oggetto del desiderio che muove l’eroe o l’eroina all’azione, va però sottolineato come ci siano degli elementi comuni soprattutto per quanto riguarda la lezione morale da impartire e che fa da sfondo alle vicende da raccontare.
L’esempio più calzante riguarda sicuramente Ratatouille. Il topo protagonista che non si sente a suo agio nei panni sporchi di cavia della sua famiglia allargata, che fortuitamente riesce a fuggire e trovare riparo in uno dei più prestigiosi ristoranti di Parigi dove poter scatenare la sua passione per la cucina è una variazione animalesca dei protagonisti Disney, da Semola a Ariel fino a Simba, incapaci di accettare se stessi e che per farlo dovranno imbarcarsi in un lungo viaggio interiore ed esteriore. Attraverso l’incontro con il diverso (Merlino, Eric, Timon e Pumba) questi personaggi si arricchiscono e riescono a far pace con il loro passato e con la propria origine e, solo così, riusciranno ad andare incontro ad un grandioso futuro da re o regine. Anche Remy riuscirà a diventare un vero chef solo con l’aiuto di Linguini che gli offre letteralmente tutto se stesso per salvare il lavoro e il futuro di entrambi. E così facendo, con un’amicizia strana e salvifica, il topolino riuscirà ad accettare e a far pace con la sua natura e con la sua famiglia e allo stesso tempo a veder realizzati i suoi sogni, con un ristorante tutto suo dove poter continuare con la solita passione a cucinare. La chiave è quindi credere in se stessi, nonostante i nostri difetti e le nostre anomalie, se davvero si vuole una cosa la si può ottenere, quale miglior insegnamento dare ai bambini di ieri e di oggi? Ragazzi sempre più sotto pressione, con la moda, il consumismo imperante e le aspettative che tutti hanno nei loro riguardi possono prendere una boccata d’aria con questi cartoni e se quelli della Disney sono infarciti nel buonismo tipico, la Pixar si differenzia per una maggiore dose di avventura e di modernità nell’affrontare questo tema, e se anche l’happy end appare scontato e ormai aspettato, la sua soluzione riesce a rallegrare vista la situazione limite che ci si presenta davanti (un topo che cucina per un critico gastronomico). Insomma, come direbbe Gusteau, chiunque può cucinare, non bisogna mai dimenticarlo.
Anche Cars ha il suo interno dei temi tipicamente Disneyani, soprattutto per quanto riguarda l’amico spalla che ha le sembianze goffe e buffe di Cricchetto, un Pippo con le ruote, che attraverso i suoi scherzi e i guai che combina riesce a riportare Saetta sulla retta via. La fiammeggiante macchina da corsa fa parte di quei protagonisti agli antipodi rispetto a Remy, tutt’altro che insicuro, è invece pieno di sé e tutelato del suo presente e del suo futuro, finché una disgrazia -l’essere abbandonato dal suo rimorchio- non lo porta a confrontarsi con una nuova realtà. Un protagonista che non ha la sua forza nell’ispirarci compassione e anche identificazione, ma che grazie alla sua sicurezza e alla sua sfrenata voglia di avventura ci conquista. Il suo cammino di redenzione sarà sì irto di fatiche ma sarà anche il modo per insegnare al pubblico ad apprezzare il tempo, a non correre freneticamente da un posto all’altro ma a godersi il viaggio. Così come Lasseter ha fatto con la sua famiglia con la vacanza che lo ha riportato alla sua realtà di padre e marito, così fa Saetta e così viene chiesto di fare a noi, con una lezione che ci viene impartita nel modo più divertente possibile, attraverso un’avventura e gare spericolate dove anche l’amore ha il suo posto.
A proposito di protagonisti particolari fa pensare come la Pixar prediliga quel tipo di personaggi schivi e burberi, che inizialmente potrebbero suscitare non grosse simpatie ma che appena mostrano il loro lato tenero e buono riescono a conquistare ancor più il pubblico rispetto ad un eroe simpatico e bonaccione. Quello che infatti colpisce è il cambiamento di un personaggio inizialmente chiuso ed indifferente che grazie al percorso e all’avventura che vive matura e accoglie nella sua vita le novità che gli accadono, nuovi amici compresi. É questo percorso che rende un tale personaggio più affascinante e più vero, scoprendo i suoi lati deboli fin dall’inizio si è in grado di apprezzare e celebrare la sua vittoria finale. Va sottolineato come però la chiusura e l’indifferenza di questi personaggi non porti all’antipatia immediata, il loro carattere è studiato appositamente per creare empatia ed è per questo che la storia, il passato di ognuno di loro, è ben presente nella mente dell’animatore in modo da rendere chiaro anche agli spettatori perché questi agisca in tal modo. Solo in un caso si era riusciti a toppare in pieno, si tratta del primo Woody creato per Toy Story, dove il cowboy difendeva il suo primato di giocattolo preferito di Andy in modo bieco e discutibile così da diventare antipatico perfino a Tom Hanks che gli dava la voce. La mancanza di un passato che motivasse il suo comportamento, ed un carattere del tutto non in linea con la storia che si voleva raccontare ha portato gli animatori a riflettere e così in poche settimane a cambiare radicalmente l’atteggiamento del pupazzo rendendolo fragile e forte al tempo stesso, preoccupato per la messa in discussione della sua leadership ma anche attento a mantenere gli equilibri tra i giocattoli della stanza. Quello che mancava a Woody era quindi una personalità delineata e
Finché un personaggio non ha una personalità ben definita, nessuno gli crede. Può anche fare delle cose buffe o interessanti, ma se il pubblico non riesce ad identificarsi con lui le sue azioni appariranno irreali. E se non vi è caratterizzazione, una storia non può sembrare vera al pubblico.
Se in seguito all’exploit di Toy Story anche Sulley di Monsters & Co. presentava tutte le caratteristiche di riservatezza e di chiusura che poi lo trasformano in mostro dal cuore d’oro, il suo successore lo surclassa nettamente a livello di protagonista anomalo. Marlin è infatti un pesce pagliaccio che ridere non fa (memorabile la scena in cui cerca di raccontare una barzelletta) e che vive la sua vita di padre in uno stato di continua agitazione e preoccupazione per il figlio Nemo. Il suo attaccamento rasenta il maniacale e il bene che prova è messo in secondo piano dall’ansia continua che qualcosa di brutto possa succedere. Visto così, come personaggio principale del film non avrebbe l’appeal necessario, anzi, la sua ipocondria e le negazioni continue che impone al figlio lo porterebbero ad essere antipatico, stancante e irritante per il pubblico. Come fare allora? Andrew Stanton capì la debolezza della sua creazione e decise di cambiare nettamente la struttura del film che inizialmente era pensato diviso in blocchi in mezzo ai quali apparissero dei flash back che spiegavano la tragica morte della madre di Nemo. Mettendo la scena intera come apertura del film, non solo si catturava il pubblico per la poesia dapprima e la drammaticità poi dell’attacco del barracuda ma si entrava in empatia da subito con Marlin, capendo il trauma che aveva subito e quindi cosa muovesse le sue attenzioni continue per la salute del figlio. Sarà poi il viaggio ricco di avventure a rendercelo ancora più simpatico, proprio perché sarà questo viaggio a cambiarlo e fargli vedere e scoprire il mondo con occhi diversi riuscendo a fargli superare le sue paure e, non da meno, a sopportare Dory, la sua spalla perfetta visto come gli è all’opposto: aperta, curiosa e incurante dei pericoli. La loro è un’amicizia salvifica ed equilibrata, dove le mancanze dell’uno sono sopperite dall’altra e dove lasciandosi andare riusciranno a creare un rapporto speciale che farà maturare entrambi.
Steve Jobs disse a proposito del film: << Mi piaceva perché parlava della necessità di correre dei rischi e di imparare a permettere alle persone amate di correrli>> , ed è questa in fondo la morale e l’insegnamento che regge tutto Alla ricerca di Nemo, lasciare liberi, anche di sbagliare, chi amiamo, perché sono le avventure, gli errori il modo migliore per imparare e quindi di vivere, ed è proprio questo che Marlin e Nemo impareranno.
Se ci dovesse essere il premio per il protagonista più scorbutico ma allo stesso tempo più simpatico questo andrebbe però sicuramente a Carl, il vecchietto al centro delle avventure di Up. Anche in questo caso la maschera senza sorrisi e la cocciutaggine che lo portano a respingere ogni proposta di acquisto della sua casa prende una nuova luce con la magica sequenza d’inizio film in cui in pochi minuti vengono condensati tutti i momenti più belli e irripetibili della sua storia d’amore con Ellie e il vuoto e l’amarezza che la sua perdita ha portato nella vita ora. Solo vedendo l’amore che li univa e i desideri che ancora dovevano realizzare capiamo il suo attaccamento al passato rappresentato dalla casa e la sua pazzia nell’intraprendere il viaggio alla volta delle cascate Paradiso. Come spiega il regista Pete Docter: <> . Anche il signor Fredricksen necessitava però di una spalla che equilibrasse la sua tenacia e la sua corazza dura, e così ecco Russell, gioviale, allegro e pronto a stupirsi ma come se non bastasse si è aggiunto anche Dug, il cane più buffo che si potesse creare, capace di parlare grazie ad un congegno elettronico che ne traduce i pensieri e che è sempre alla ricerca di affetto e approvazione. Questo trio si integra alla perfezione, nonostante l’iniziale reticenza di Carl che inizierà il suo percorso non tanto di redenzione ma di guarigione, lasciandosi alle spalle, senza dimenticarlo, il suo passato per fare posto a nuovi giorni e a nuove avventure.
Up sottende questa semplice morale, di cui l’amore è il motore principale ma che viene inevitabilmente rafforzato dall’amicizia. Questi protagonisti ci insegnano per tanto ad accettare il diverso nelle nostre vite, non solo perché loro stessi compiono quest’azione che li aiuta nel loro processo di maturazione, ma anche perché noi stessi, grazie ad una visione completa delle loro vite e del loro passato, riusciamo a vedere oltre la maschera di iniziale e possibile antipatia che portano. Ecco quindi l’importante elemento che la Pixar porta con sé, il saper creare dei protagonisti che grazie ai loro difetti e alle loro mancanze diventano molto più umani e più veri, è finita l’era di eroi e principi indomiti, solo dalla paura e dal dolore nasce qualcosa che lascia il segno, e ogni protagonista Pixar ci riesce, entrando nel cuore del suo pubblico.
Essendo partiti in questo capitolo a parlare delle fiabe morali e dei loro insegnamenti fa pensare come la storia più significativa in quanto a messaggio da tramandare creata in Pixar sia in realtà stata costruita senza il chiaro intento di essere moralista. Parliamo di WALL-E, il film che vede per protagonista un buffo e goffo robot incaricato di ripulire la Terra dopo che gli esseri umani l’hanno lasciata sommersa di immondizie e rifiuti, ormai invivibile. Il lavoro monotono di Wall-e è impreziosito da ritrovamenti di aggeggi ai suoi occhi preziosi, tra luci di natale, cavatappi e altro finché non trova anche una piantina, viva. Sarà questa ad innescare la sua avventura perché quando dall’astronave Axiom dove gli esseri umani si sono rifugiati e vivono una vita immersi nel consumismo più puro, partono nuovi robot con la direttiva di cercare la vita nella Terra, Eve, una tra questi, scoprirà Wall-e e la sua preziosa scoperta e così lo porterà sullo spazio per dare la prova agli umani che la vita nella loro casa è ancora possibile. Come si evince già dalla trama, il nono film della Pixar sottende dei temi importanti, soprattutto per l’epoca storica in cui stiamo vivendo dove una cosa rotta la si preferisce buttare e sostituire piuttosto di aggiustarla. Questi robot dimostrano di avere più cuore degli esseri umani, non solo perché capaci di provare sentimenti sinceri come l’amore, ma perché sanno riconoscere il prezioso anche tra i rifiuti. Wall-e e Eve sono quindi i paladini di un’umanità alla deriva che infarcita di pubblicità da mattina a sera ha perso anche l’uso delle proprie gambe e se ne sta stravaccata sulle sue poltrone a bere e a mangiare senza più nemmeno comunicare dal vero ma protetti e resi omologati da schermi portatili e servili. In questo mondo futuristico i rapporti sono resi asettici come l’intero ambiente, gli errori così come gli incidenti sono tanto evitati quanto ghettizzati nel caso avvengano e così la vita scorre liscia, senza passato né futuro, con le mode che cambiano senza cambiare (‘Provate il blu, è il nuovo rosso!’, è l’indice massimo di degradazione a cui si è arrivati). In questo mondo che è diventato l’emblema stesso del consumismo, con le grandi aziende che si accaparrano spazi pubblicitari e ostacolano in tutti i modi il ritorno sulla Terra che sancirebbe la fine dei loro profitti, l’umanità dei robot protagonisti si staglia in modo disarmante. Con l’arrivo di Wall-e sulla grande nave crociera però, tutto sembra poco a poco cambiare. Chi entra in contatto con lui muta, riprende coscienza dopo anni di anestetico poltrire dando una vera svolta alla sua vita a partire dallo sposare la sua causa aiutandolo come possibile nella ribellione.
Il messaggio ambientalista, ecologico e anticapitalistico sembra quindi essere il motore della trama del film, se il protagonista “maschile” sembra mosso dall’amore, quello “femminile” con la sua direttiva sembra invece molto più pragmatico e attaccato anche se magari inconsciamente alla Terra. Le dichiarazione del regista Andrew Stanton a riguardo minano però questa teoria, dichiarandolo un film senza un messaggio particolare anche se le influenze, chiare, sono prese nientemeno che dalla Bibbia. Eve ha infatti un doppio ruolo, quello di colomba inviata da una lontana e tecnologica Arca di Noè alla ricerca di segni di terra e quello di partner di Wall-e (Adamo) nel riportare la vita sul pianeta abbandonato. In realtà, vista la visione apocalittica della nostra casa e la rappresentazione di un’umanità così alla deriva non fa altro che supportare la tesi che il film sia in realtà nato e pensato per essere moralistico ed insegnare non solo ai bambini i rischi che stiamo correndo. Nei titoli di coda c’è infatti spazio per la speranza, allevamento e agricoltura rifioriscono e così la civiltà regredisce e si evolve allo stesso tempo. Anche per questo, come già si è visto, WALL-E rappresenta un film spartiacque, sia per il messaggio profondo che con sé porta, sia per il pubblico a cui questo è indirizzato. Oltre ai bambini che vanno al cinema anche per imparare c’è spazio per gli adulti, a cui questo film in fondo sembra più rivolto vista la maturità di messa in scena e di trama.
Ciò che forse più disorienta, e che probabilmente è alla base delle parole contrastanti di Stanton, è che proprio un film così sentito e a suo modo propagandistico sia prodotto dalla Disney, una società che sul consumismo si basa. Il controsenso infatti di realizzare un lungometraggio come WALL-E che denigra gli eccessi e il materialismo a cui ci si sta avvicinando, producendo ogni sorta di gadget e di merchandising è infatti inspiegabile. La forza della pellicola sta infatti nell’essere una voce fuori dal coro rispetto ai tanti film di animazione prodotti dalla Disney e si avvicinerebbe molto più ad un mercato indipendente vista la poetica del suo messaggio. E invece nel 2008 pupazzi, bicchieri, penne, quaderni… qualunque cosa è uscita marchiata WALL-E come a stemperare i toni della sua denuncia.
Non è una teoria complottistica, è una semplice constatazione di come le cose sono andate nella realtà. Certo, la messa in circolazione di tutti questi prodotti vanifica il suo messaggio primario ma non toglie la magia che il film emana che proprio grazie alla morale che porta con sé arriva dritta al cuore illuminando lo sguardo dei suoi spettatori. In una cinematografia che ormai si basa più che altro sull’intrattenimento spiccio, dove anche i film di animazione sembrano aver dimenticato le loro antiche discendenze di favole e tradizioni locali con insegnamento morale annesso, la filmografia Pixar, con WALL-E a fare da porta bandiera rappresenta una felice oasi nel deserto, in cui portare senza timori i figli e i bambini e in cui lasciarsi andare perché il binomio lezione-noia è ben lungi dall’essere di casa ad Emeryville! Anzi, il cinema che si fa didattico non è mai stato tanto spassoso, perché un maestro come Wall-e che mostra con i suoi occhioni lucidi la piega che la nostra condotta sta prendendo ma che subito dopo danza felice nello spazio abbracciato ad un estintore lo vorrebbe chiunque nella propria classe!


Alla ricerca della realtà – La verosimiglianza

“Direttiva.” 

EVE – WALL-E


Era il 2004 quando nelle tv di tutto il mondo esplose il fenomeno Lost, la serie tv che non solo cambiò il mondo delle serie tv ma che cambiò il mezzo televisivo, proiettandolo in una nuova epoca. I meriti non vanno solo alla trama e al prodotto finito, nonostante il suo essere intricato e misterioso puntata dopo puntata, ma vanno soprattutto al nuovo modo di farsi pubblicità, di accaparrarsi e fidelizzare il pubblico creando un legame esclusivo. A capo di questa nuova macchina del successo c’è un nome che negli anni si è imposto come guru non solo nel mondo del piccolo schermo ma anche in quello del grande, producendo e dirigendo film capaci di appassionare, J. J. Abrams. Produttore esecutivo e ideatore della serie capisce subito quale strada intraprendere per promuovere la sua creatura: il mistero. Creare ancora più zone d’ombra attorno alle vicende di Jack e i suoi compagni, utilizzando ogni mezzo e sfruttando soprattutto internet che sostituisce ormai la pubblicità cartacea nelle case. Ma come? L’idea geniale di Abrams sta nel nascondere indizi, nel rivelare piano piano le novità previste o nel non rivelarle affatto, creare attesa e così consolidare l’unione degli appassionati che si cercheranno tra loro per riuscire ad ingannare l’attesa e risolvere i dubbi che man mano vanno a formarsi. Questo tipo di campagna promozionale si è rivelata efficace anche per la seconda (la terza in realtà in ordine di tempo, nel 2001 c’era stato Alias) opera televisiva di Abrams, Fringe che predilige una trama meno serrata in cui lo spettatore può entrare anche avendo perso un episodio ma che si caratterizza per disseminare visivamente e in modo virale indizi. L’esempio principale sta già nella trama, con scritte e enunciazioni visibili solo con il fermo immagine o la presenza dei personaggi denominati “Gli osservatori” in ogni episodio, mimetizzati tra le comparse e i personaggi principali. Si sviluppa così tra il pubblico una spasmodica ricerca di nuove tracce da seguire per arrivare prima degli altri alla soluzione in modo da primeggiare e portarsi al confronto, ma ancora più interesse hanno suscitato i glifi, fermi immagine che precedono gli stacchi pubblicitari e che chiudono il film, che si ripetono con una variabile di 8 immagini diverse (una foglia, una mano a sei dita, una farfalla, un cavalluccio marino, una rana, una margherita modificata e una mela). Solo nel 2009 Robert Sanchez è riuscito a decodificare il significato dei glifi, intuendo che ogni immagine a seconda di dove un puntino luminoso appare corrisponde ad una lettera che va a formare una parola chiave di cinque lettere che racchiude il tema della puntata. Questo tipo di campagna è stata promossa anche per Cloverfield, l’approdo di Abrams sul grande schermo con un film che riprende la tecnica del mockumentary o found footage e che proprio per questa sua natura “amatoriale” alcuni spezzoni sono stati sparsi in rete come reali assieme a locandine emblematiche e d’effetto creando così l’attesa sperata che andava increscendo.
Ma cosa c’entra tutto questo con la Pixar? Che rapporto intercorre fra questa tecnica di promozione e fidelizzazione, e i lungometraggi animati?
Tutto questa c’entra perché a ben guardare, o meglio scandagliare, la Pixar utilizza un metodo simile per promuovere i suoi nuovi film e per appassionare il pubblico in ricerche o in colpi d’occhio nella visione di quelli in sala. Come? Attraverso un divertente gioco di rimandi, di citazioni e di intromissioni tra i vari film e i vari protagonisti che scatenano l’interesse dei fan più accaniti creando lunghe sezioni “curiosità” su Wikipedia e appositi video su youtube, ma che in primis divertono gli autori stessi. Con il tempo infatti si sono formati dei veri e propri cacciatori di camei che condividono le loro scoperte che vanno sotto il nome di Easter Eggs, una ricerca delle uova di pasqua nascoste anche nei più piccoli dettagli che alimentano il mito Pixar. Quello sicuramente più famoso è la macchina del Pizza Planet che fa la sua prima comparsa in Toy Story e da lì la si ritrova in ogni film successivo, una specie di marchio impresso sempre presente, vuoi tra la spazzatura di WALL-E, tra le fughe rocambolesche nelle strade parigine in Ratatouille o nel traffico di Up. Vederla e trovarla è diventato quindi un gioco annesso alla visione del film e gli stessi animatori si ingegnano per trovargli nuovi modi di comparire e di stupire. Anche il codice A113 ricorre spesso e non solo nei film Pixar, anche in quelli Disney, in quanto richiama la sala di animazione nell’edificio del CalArts. Ecco perché A113 è ben visibile come targa dell’auto della madre di Andy, nella macchinetta fotografica del sub in Nemo o nella direttiva che Auto deve seguire in WALL-E. Non da meno sono gli oggetti originari della Pixar, quella lampada Luxo e la palla colorata con cui giocava che ne hanno sancito la fortuna nel 1986 e che sono
riconoscibili nella stanza di Andy, tra i giochi di una bambina in Up nonché nelle medaglie di Russell. Questi giochi di rimandi riguardano anche i protagonisti stessi dei film che vuoi per economicità di realizzazione (creare nuovi personaggi non è infatti così semplice e può succedere che sia più conveniente riutilizzare alcuni già fatti) o per sagaci espedienti di promozione compaiono e si ripropongono nei lungometraggi precedenti o successivi al loro. Buzz Lightyear ad esempio lo si ritrova nella sala di attesa del dentista di Nemo, così come Woody si intravede all’interno dell’acquario in una scena, la famosa lampada Luxo Jr. assieme a Lotso si possono scovare nella camera di una bambina mentre Carl sorvola la città in Up, e di Dug si scorge l’ombra durante la fuga di Remy tra le case parigine. Questi crossover, o meglio camei, stuzzicano la curiosità degli spettatori, divertendoli e spingendoli a vedere e rivedere i film alla loro ricerca oltre a servire ai creatori per testare i personaggi o semplicemente evocarli per farli poi ritrovare al pubblico nel film successivo. Questo gioco non si presenta solo nelle sembianze di protagonisti invasivi ma anche in vere e proprie citazioni interne, la ripresa di frasi o motti tra un film e l’altro come accade in Up dove Carl ripete la famosa frase ‘Fai un bagno, hippie’ già sentita in Cars, elevando così la filmografia in materiale da cui attingere per renderla ancora più importante.
Il caso più divertente riguarda però quello che mostra tutta questa smania di divertimento e di lavoro felice che porta gli animatori a non prendersi mai sul serio. Nei titoli di coda di Cars c’è infatti uno spassosissimo sketch in cui tutte le vetture stanno in un drive-in gustandosi quelle che altro non sono delle parodie dei film Pixar con i protagonisti rimodellati con sembianze automobilistiche. Mack guarda estasiato Toy Story dove Ham, il maiale, è stato sostituito con un minivan notando la bellissima interpretazione del doppiatore, così accade anche in A bug’s life con l’entrata in scena di P.T. e successivamente con Monsters & Co. finché non arriva a capire che quella splendida voce (che poi è anche la sua) appartiene allo stesso doppiatore ironizzando quindi sulla mancanza di pregio della Pixar che non ha abbastanza denaro per cambiare gli attori. La verità, scoperta in modo divertente grazie a queste battute, è che l’animatore John Ratzenberger e la sua voce sono presenti in ogni film finora prodotto e proprio su questa particolarità si è deciso di ironizzare.
In questo clima goliardico e divertito, la visione del film passa a livelli superiori e come accade nelle produzioni di Abrams, le citazione interne, le verità nascoste, fidelizzano lo spettatore e lo portano a creare una comunità analizzatrice unica. Certo, temi e opere sono tra loro molto differenti ma il metodo promozionale è lo stesso e ne dimostra così l’efficacia.
Se queste citazioni interne divertono e si fanno gioco, quelle più serie, che riprendono famosi film hanno meccanismi più complessi e scopi diversi rispetto al mero divertimento. Skinner, l’antagonista di Linguini e Remy in Ratatouille ad esempio oltre a richiamare con il suo nome il famoso scienziato che studiò il comportamento animale con cavie (topi) da laboratorio, deve il proprio carattere alla visione di Brad Bird di Amadeus, dove Salieri e il suo continuo e frustrante senso di inferiorità nei confronti di Mozart sono serviti some base per modellarlo.
Anche la musica e i suoni prendono il loro spazio nei film Pixar. La scena iniziale di Up, con Carl che scende le scale aiutato dalla sedia elettrica sulle note della Carmen non solo caratterizzano il personaggio denotandone i lati spigolosi ma riprendono in modo giocoso la scena de Gli Aristogatti dove era presente lo stesso brano.
Fra le citazione esterne che la Pixar inserisce nei suoi film è bene analizzare le motivazioni per cui si decidono questi inserimenti. Si possono infatti individuare due diverse volontà: da una parte un omaggio, un tributo a un regista, un attore o un personaggio che ha contribuito con la sua influenza alla creazione del film, dall’altra dei motivi più “tecnici”, si potrebbe dire, che si legano alla messa in scena e alle sensazioni che si vogliono trasmettere allo spettatore.
L’inserimento dello spezzone del ballo di Hello, Dolly! e delle altre citazioni filmiche in WALL-E fa parte di questa seconda area. In un film fondamentalmente diverso, sia per trama che, soprattutto, per i suoi protagonisti –dei robot monosillabici- era indispensabile riuscire a trovare un elemento catalizzatore che ancorasse il pubblico al familiare e all’accessibile durante la visione e facesse così da leitmotiv nei momenti chiave della trama. Le mancanze di Wall-e nell’esprimere i suoi sentimenti sono quindi colmati dalla pellicola di Gene Kelly, che fanno da parola a chi le parole non riesce a pronunciarle e permettono così allo spettatore di entrare in contatto sia con le emozioni che il film vuole suscitare che con quelle provate dallo stesso robot. Andrew Stanton ha voluto scegliere una musica che fosse in contrasto con l’aspetto futuristico di WALL-E e aveva inizialmente pensato di riprendere uno swing da qualche film francese degli anni ’30, ma la stessa idea era stata utilizzata da Appuntamento a Belleville, il film d’animazione di Sylvain Chomet uscito nel 2003. Si optò quindi per un musical in stile Broadway e la scelta cadde su Hello, Dolly! principalmente per le prime parole pronunciate nella canzone Put on your Sunday cloathes: <>, l’incipit ideale per un film nostalgico ambientato nello spazio. É poi con la canzone finale del film It only takes a moment che Wall-e ha la possibilità di dire <> ad Eve, facendo del film di Gene Kelly il fil rouge della loro storia d’amore e conseguentemente della trama stessa.
É una citazione quindi utile e necessaria che non solo omaggia una pellicola nostalgica del passato ma la rende una chiave di lettura. Allo stesso modo si può leggere l’uso della sinfonia del Danubio Blu di Strauss nel momento di rivolta del robot pilota Auto, scena che richiama così l’indimenticabile capolavoro di Kubrick -2001: Odissea nello spazio ormai identificabile con questa musica- ancorando ancora una volta lo spettatore al familiare ma creando al tempo stesso una parodia della pellicola del 1968 e sicuri sorrisi tra il pubblico.
Questa necessità di aderenza al reale tramite l’inserimento di scene o citazioni simili è quindi fondamentale per portare uno spiraglio di credibilità, permettere allo spettatore la sospensione dalla sua realtà, in un mondo, quello rappresentato, che fatica ad esserlo. La bravura degli animatori nel creare e trasportare il fantastico ed il vissuto sullo schermo, facendoli convivere spesso non basta infatti.
Questa “tradizione” se così la vogliamo chiamare, inizia per Lasseter già ai tempi dei suoi primi cortometraggi presentati al SIGGRAPH. Mentre i suoi colleghi puntavano soprattutto sulla spettacolarità e la potenza della computer grafica, John aveva preferito declinare l’intelligenza artificiale del suo mezzo per raccontare delle storie, utilizzando le lezioni più semplici della comicità e delle gag animate, ma aveva capito fin da subito che le persone per apprezzare e per immergersi in questa nuova frontiera dell’animazione avevano bisogno di punti di riferimento e così iniziò a rendere protagonisti delle sue storie gli oggetti del quotidiano: lampade, palloni e giocattoli. Solo se radicato nel familiare il nuovo medium sarebbe stato accettato. Questa sua convinzione non nasceva però dal nulla ma proveniva da una conversazione avuto con il fratello maggiore, Jim, uno studente brillante, forse più di John, che negli anni aveva saputo creare una rispettata carriera come interior designer prima di morire di AIDS nel 1998. Quello che Jim molto spesso sosteneva era di voler prendere un tessuto totalmente selvaggio e usarlo in uno stile classico d’abbigliamento, o di prendere un tessuto classico e crearne qualcosa di nuovo e selvaggio. <> .
Ecco quindi spiegata la filosofia della Pixar di mantenersi sugli oggetti o sulle persone comuni, e quando questo non succede, come appunto in WALL-E trovare oasi sicure nelle citazioni di altre opere, del familiare.
L’altro modo in cui la Pixar utilizza le citazioni da inserire nei film è per omaggiare gli autori o i protagonisti stessi. Questo è visibile non solo nelle citazioni interne, con i personaggi creati ad Emeryville che saltano da un film a un altro, ma soprattutto con i riferimenti ad opere esterne scelte dai registi o dagli animatori per il loro grado di influenza all’interno del film e della vita di ognuno. Uno degli omaggi ormai più conosciuto nasconde dietro di sé un intero intreccio di relazioni, che inizia fin dai primi anni di studio e di passione di John Lasseter. Si tratta dell’amore per l’opera di Hayao Miyazaki, il regista giapponese che ha sfornato negli anni successi incredibili e storie fantastiche con cui sognare ad occhi aperti, come Il castello errante di Howl. La collaborazione e l’amicizia tra i due ha radici lontane, Lasseter è stato infatti attratto dal potere della filmografia del giapponese di saper ammaliare sia un pubblico infantile che uno adulto e dalla spettacolarità della sua costruzione della trama. Dopo averlo incontrato una prima volta all’interno degli studi Disney in cui lavorava, Lasseter si recò in Giappone dove visitò i famosi studi Ghibli portando con sé i suoi primi cortometraggi Luxo Jr. e Red’s Dream. Miyazaki, restio e scettico verso l’animazione digitale, restò piacevolmente impressionato dalla bravura di Lasseter, che con un storia semplice e breve riusciva ad entrare in contatto con le emozioni dello spettatore. Da qui in poi la relazione tra i due si spostò non solo sul lato del rispetto professionale ma su quello dell’amicizia, con visite occasionali. Memorabile resta infatti la visita che il regista giapponese fece negli studi di Emeryville nel 2002 in occasione dell’uscita americana del suo successo La città incantata, distribuito proprio dalla Buena Vista della Disney. Durante la visita –denominata Miyazaki Day- infatti, non solo Miyazaki ebbe modo di apprezzare i vari studi ed uffici di Emeryville (compresa la famosa Love Lounge) ma anche di vedere in anteprima alcune scene di Alla ricerca di Nemo (che definì una cosa davvero avventurosa da fare in un film americano) oltre che di dar sfogo alla sua passione comune con Lasseter delle auto da corsa gareggiando assieme in una pista di Sonoma. Per rendere dunque il dovuto omaggio ad un mito personale e ad un amico, gli animatori Pixar decisero di inserire tra i giocattoli di Toy Story 3 il personaggio forse più rappresentativo della lunga filmografia di Miyazaki, Totoro, che è ben visibile nella scena iniziale del film affianco a Rex e Woody.
Proprio da questo legame speciale che negli anni si è venuto a creare tra gli studi di Emeryville e quelli di Ghibli, gli ingegneri della Pixar si ispirarono al famoso congegno dello zoetrope de Il mio vicino Totoro, costruendone uno che vede protagonisti i personaggi di Toy Story 2 e che ora viaggia per il mondo assieme alla mostra per i 25 anni di animazione.
Parlare di aderenza alla realtà per dei film di animazione che per dall’elemento fantastico sono caratterizzati sembra un azzardo. Invece i lungometraggi Pixar partono proprio dal reale, dal familiare per sviluppare poi una trama e una messa in scena insolita e che proprio per questo avrà un effetto più dirompente sullo spettatore. Lasseter fin dai suoi primi cortometraggi partiva infatti da una situazione definibile classica a cui poi cambiava completamente il punto di vista, meravigliando il pubblico, vuoi che si vedesse il mondo attraverso dei giocattoli che si credevano inanimati, o si attraversasse un armadio per scoprire un universo popolato dai mostri che tanto ci spaventavano da piccoli o ci si calasse in un prato meraviglioso all’altezza degli insetti che lo abitano. Questo sconvolgimento di prospettiva si basa però su uno studio minuzioso del materiale di scena, grazie a viaggi che sono vere e proprie spedizioni, lezioni o partendo dal materiale vivo e vero. Ma partire dal reale significa anche affrontare nuove sfide, e così è successo per il film forse più distante dalla realtà come la conosciamo finora. WALL-E pur ambientato nella Terra ne ipotizza un degrado simile da renderla irriconoscibile, popolata solo da robot e ricoperta quasi interamente di immondizia. In questo futuro lontano e tecnologico sembra esserci molti più esseri computerizzati che umani e si rendeva quindi necessaria una soluzione per sonorizzare il tutto. Se infatti con persone o personaggi animali trovare la voce o il verso adatto era relativamente semplice, per robot & Co. non lo è stato altrettanto. Andrew Stanton non sapendo a chi rivolgersi pensò che sarebbe stato incredibile se il sound designer più famoso della storia del cinema potesse collaborare al suo film, la Pixar contattò così il premio Oscar Ben Burtt che ha meravigliosamente “doppiato” la saga di Star Wars, E.T. e Indiana Jones, solo per fare alcuni nomi. Da subito interessato al progetto, Burtt si mise all’opera per riuscire a ricreare lo spirito necessario, consapevole che i suoni non sarebbero stati solo di sottofondo ma sarebbero serviti per modulare ed esprimere le sensazioni dei protagonisti che si ritrovavano con poche parole per renderle comprensibili. Partendo anche solo dalla sua voce, il sound designer riuscì in poco tempo ad ottenere ciò che lui e Stanton stesso ricercavano, aiutato dalla possibilità di accedere all’enorme e stupefacente archivio utilizzato da Disney nei suoi primi lungometraggi. Macchine complesse, materiali dimenticati diventarono il punto di partenza per nuove invenzioni e nuovi rumori da poter usare per far esprimere i congegni e i robot più disparati presenti in WALL-E.
Questo attaccamento a ciò che è reale, preferito al ricreare artificialmente attraverso nuove tecnologie anche i suoni del film, dimostra come un’azienda basata sul progresso del computer sia capace ancora di capire l’importanza del tangibile, che ancora, proprio come Hello, Dolly! fa per la trama, lo spettatore al familiare.
Forse anche per questo, dopo l’iniziale A bug’s life, anche gli animali della Pixar diminuiscono le loro interazioni con gli umani. Non sono più credibili i pesci o i gabbiani che possono chiacchierare in tranquillità con i propri padroni e si preferiscono trovare nuove invenzioni capaci di dare questi effetti. In Ratatouille ad esempio, Remy è sì un topo che parla ma riesce a farsi capire solo dai suoi simili mentre per entrare in contatto con Linguini dovrà ingegnarsi non solo con il linguaggio a gesti ma anche sfruttando un’insolita conseguenza del tirargli i capelli. Come si ipotizza sia nel nostro mondo quindi, simili comunicano con simili, e per quanto bello sarebbe difficilmente riusciremo mai a capire parola per parola ciò che i nostri animali vogliono dirci. L’invenzione forse più geniale per risolvere l’annoso problema di rendere credibile un animale parlante in un film è risolta in Up, dove il buffo cane Dug riesce a farsi comprendere da Carl e da Russel grazie ad uno speciale collare inventato dal suo padrone Muntz che permette di decifrare e riprodurre i suoi pensieri. L’invenzione, per quanto folle, è comunque verosimile e fa di Dug e degli altri cani, dei protagonisti in più capaci di farsi amare e finalmente più reali di quanto finora i loro precedenti colleghi siano mai stati.
Un simile procedimento è adottato anche ne Gli incredibili, dove la famiglia Parr potrebbe benissimo essere interpretata da attori in carne ed ossa ma acquista molta più credibilità nell’animazione, dove non c’è bisogno di effetti speciali di post produzione perché in fondo l’intero film è costruito come fosse una post produzione. Per rendere i protagonisti umani più umani possibile, è divertente scoprire che nel corso di alcune settimane sono state scattate foto ai denti di ogni dipendente in modo da avere sotto mano imperfezioni e perfezioni da poter poi disegnare a computer e rendere l’essere umano digitale molto più affascinante e realistico di quanto fosse stato possibile fare con i suoi precedenti (vedi Gery, Andy e sua madre, Boo). Ma quello che forse è più sorprendente è che lo stesso regista Brad Bird decise di rapportarsi al film come fosse un live action, lasciando quindi spazio all’improvvisazione sul set, seppure questo fosse un set digitale. In questo modo, con la possibilità di cambiamenti sempre aperta, la lavorazione è stata più fluida anche se magari non lineare, con i cambiamenti apportati che ne fanno il capolavoro che è, proprio come fosse stato interpretato da attori in carne ed ossa.
La Pixar sa quindi quando è meglio tenere a bada la propria sconfinata fantasia, che come abbiamo visto è limitata dal bisogno di aderenza alla realtà. Come ultimo esempio possiamo prendere i titoli di testa di Monsters & Co. dove l’animazione digitale lascia posto a quella tradizionale, che si anima al ritmo del jazz con lettere ballerine e scelte sorprendenti ed illuminanti di scomposizione e composizione. Visto come il film si sarebbe poi sviluppato, immergendo lo spettatore in un mondo diverso, bisognava trovare il modo per farlo ambientare, istituendo già il tono che poi si sarebbe preso. Non era quindi necessario eccedere ulteriormente con scelte stilistiche computerizzate per stupirlo, i disegni bidimensionali riescono infatti a supplire magistralmente la loro funzione.



I Pixar Jr. – I cortometraggi
Il cibo trova sempre coloro che amano cucinare!

Gusteau - Ratatouille


Per ogni scienza che si rispetti che si affaccia al mondo sono necessari degli anni, non solo per accettarla ma soprattutto per migliorarla. Anni di test e prove che portano a modificare gli iniziali errori, sperimentando nuove possibilità lasciando spazio anche alle nuove generazioni di apportare il loro contributo nel lungo cammino verso il successo. Così è stato anche per la computer grafica, che ha poi portato alla computer animation.
Come visto nell’excursus storico della Pixar, i suoi fondatori sono stati impiegati inizialmente in laboratori dove passavano giorni e notti a studiare come perfezionare la loro invenzione, come renderla utile e accessibile a tutti. Dal 1970, anno in cui Ed Catmull entra a far parte del gruppo del visionario Sutherland, al 1984, data di proiezione del primo cortometraggio interamente animato a computer, la strada fatta era già tanta, ma altrettanto mancava per perfezionarla. All’epoca non erano in molti a capire la potenzialità dell’animazione digitale come mezzo per raccontare nuove storie, vuoi perché affascinati da altre possibilità che il computer permetteva di esplorare, vuoi perché pronti ad applicare la grafica digitale in altri settori (come quello medico). Ma come sappiamo ci pensò John Lasseter a ribaltare tutte queste teorie, presentando al SIGGRAPH The advetures of André and Wally B. che incantò non solo gli addetti ai lavori con le perfezioni tecniche a cui la Industrial Light & Magic era arrivata ma anche i più scettici e profani del campo che videro nel cortometraggio un nuovo modo di fare cinema d’animazione.
Per arrivare ad una padronanza assoluta del mezzo c’erano ancora bisogno di anni di prove. André e Wally appaiono infatti con forme stilizzate, lo sfondo e i particolari non sono ancora curati maniacalmente come saranno in seguito e la trama stessa è semplice e lineare. A difesa del corto va detto che era stato pensato quasi esclusivamente come test, senza quindi soffermarsi molto sul contenuto.
Il successo clamoroso ottenuto, porta la Pixar embrionale a focalizzarsi su nuovi esperimenti da mettere in pratica, cercando questa volta di ampliare i propri orizzonti. Nella fatidica notte di noia e di dubbi che accompagnò lo sguardo di Lasseter verso la lampada Luxo sulla propria scrivania, venne concepito quello che tuttora è il simbolo principale della Pixar, suo marchio di fabbrica e suo primogenito effettivo che tanta gloria ha portato: Luxo Jr. L’azienda che ogni anno, o quasi, irrompe nei cinema con un sicuro successo di boxoffice, che ha conquistato innumerevoli premi, è partita da qui, da un filmato di due minuti che è riuscito ad incantare un numero spropositato di persone e che ancora oggi saltella spensierato nei titoli di testa di ogni film Pixar.
Il cammino che ha portato all’esplosione di Toy Story era partito così, da cortometraggi brevi, intensi ed efficaci. Per l’azienda di Emeryville sono sempre stati un fiore all’occhiello della produzione, vincolati dalla brevità si ha spazio per sperimentare e per rischiare, permettendo anche alle nuove generazioni di testare le loro capacità. Finora sono stati prodotti 24 corti e a ben guardare si posso suddividere in tre diversi campi di azione. Da una parte abbiamo infatti quelli prodotti esclusivamente per testare le novità della computer animation, portano la firma di Lasseter e appartengono di netto alla sua poetica degli oggetti (se si prende André, il primo protagonista, per un robot), alla seconda tranche appartengono i film realizzati sì per raccontare una storia ma che nel farlo cercano di migliorare un aspetto tecnico che servirà poi in grande per realizzare un lungometraggio, infine vi sono quelli che sono serviti da palestra a nuovi registi, ai giovani usciti dalla Pixar University o che hanno finora collaborato ai lungometraggi dietro le spalle dei registi più importanti.



Visti così quindi, i cortometraggi non sono solo dei passatempi, anzi, richiedono altrettanto lavoro di un Toy Story volendo e sono capaci di impiegare un numero considerevole di animatori. Ecco perché già dal 2000 con For the Birds si è iniziato ad associarli volta per volta con un lungometraggio, dando loro l’onore di aprire la visione nella sala cinematografica e di essere poi abbinati al film anche nella vendita DVD, inserendoli tra gli extra. Si apre così una quarta sezione tra i corti realizzati, quelli che sono dei sequel o approfondiscono momenti dei lungometraggi, e che hanno per protagonisti quindi gli stessi personaggi già conosciuti. Il primo ad essere creato è stato Mike’s new car che vede protagonista il simpatico mostro di Monsters & Co. che dopo la distruzione della sua amata automobile ne ha acquistato un nuovo e tecnologico modello. Ma dividere lo spazio col gigante Sulley e metterla in moto non sarà così semplice e il tutto farà partire una serie infinita di gag degne di Tex Avery. Jack-Jack Attack firmato dallo stesso Brad Bird si concentra invece sulle disavventure che la povera babysitter deve affrontare alle prese con lo scatenato pargolo della famiglia ‘incredibile’ Parr che mette alla prova i suoi poteri fino a renderla esasperata consegnandolo nelle mani di Sindrome. Allo stesso modo, anche La missione speciale di Dug svela retroscena sul buffo cane parlante di Up, raccontando la giornata del suo compleanno ricca di avventura, tra la caccia a Kevin e gli scherzi di Alpha & Co. per approdare ad un lieto fine che renderà il lungometraggio ancora più speciale. Allo stesso modo Burn-e si incastra perfettamente in WALL-E mostrando le peripezie che un robottino incaricato alle riparazioni vive mentre la vicenda principale continua il suo corso. Infine Vacanze Hawaiane fa da seguito a Toy Story 3, mostrandone i personaggi alle prese con una crisi di coppia da risolvere. Barbie e Ken devono infatti partire per le vacanze ma la famiglia di Bonnie li dimentica a casa… ci penseranno Woody, Buzz e tutti gli altri a rimediare in modo geniale alla faccenda.
Questi casi (senza dimenticare anche l’episodio di Carl Attrezzi e la luce fantasma per Cars e ancora Gli Incredibili Mr. Incredible and Pals in un divertente doppiaggio di un reperto animato ritrovato) mostrano anche l’attaccamento che registi e animatori hanno per le loro creature e se da una parte è semplice lavorare con characters già digitalizzati e conosciuti in ogni loro aspetto, dall’altro è un modo per appassionare il pubblico e renderlo partecipe di retroscena e dietro le quinte inediti e per questo ancora più interessanti. Che si tratti di una strategia aziendale di merchandising o una palestra per nuovi autori (o nel caso di Bird, un modo per rimettersi all’opera) resta il fatto che questi corti sono filmicamente perfetti, rispettando la cronologia degli eventi e dei personaggi protagonisti e arricchiscono il DVD del quale fanno parte rendendo più appetibile l’acquisto dell’originale in anni di crisi del mercato dell’home video.
Va considerato invece come un a parte la creazione di vere e proprie serie tv animate che si concentrano su alcuni dei protagonisti più famosi dei cortometraggi. É il caso di Cars Toon che segue le gesta di Cricchetto, invischiandolo in ogni tipo di avventura, o di Buzz Lightyear da Comando Stellare con Buzz al centro dell’azione non più nella camera di Andy ma immerso nel mondo spaziale in cui credeva di trovarsi a inizio film. Un gioco nel gioco che rende vere le fantasie più estreme che venivano prese per pazzia da Woody, e che immerge lo spettatore nell’universo di Andy, appassionati al cartone televisivo che lui stesso guardava e che lo aveva portato a ricevere in dono il pupazzo di Buzz.




Ma torniamo alle origini, al fatidico 1986 che pose le basi alla futura Pixar. I primi cinque cortometraggi prodotti sono serviti a Lasseter (regista di tutti) e ai suoi animatori a sperimentare le proprie capacità e quelle della nuova scienza della computer animation. Questi cinque film hanno in sé le caratteristiche essenziali che si svilupperanno poi nei lungometraggi Pixar e possono per questo essere definiti dei test. Accomunati dalla ‘poetica degli oggetti’ che caratterizza i lavori di Lasseter, The adventures of André and Wally B., Luxo Jr., Red’s Dream, Knick Knack e Tin Toy mostrano le cose, gli esseri inanimati da un altro punto di vista, rendendoli così, in tutti i sensi, animati. Se il primo cortometraggio creato come abbiamo visto ha dei grossi limiti, soprattutto a livello di trama, già con il successivo i passi avanti fatti sono notevoli. Per il terzo, Red’s Dream si vedono già delle profonde differenze sia con i suoi predecessori che con i successori. Pur avendo per protagonista un monociclo che si anima, a questo manca una forma antropomorfa ma soprattutto a mancare è l’allegria e la spensieratezza che sono ormai un marchio di fabbrica per la Pixar. Intriso nella malinconia del suo angolo in un negozio di oggetti di seconda mano, il monociclo sogna la gloria, accompagnato ad un clown-giocoliere a cui riesce addirittura a rubare la scena grazie alla sua bravura. Ma la realtà è più forte di questi sogni, e il ritorno al suo triste e piovoso mondo sarà sconfortante. Forse il meno noto cortometraggio di Lasseter si distanzia così nettamente dall’abituale da rinunciare all’happy end ma ha in sé una sperimentazione che mira all’iperrealismo (la recitazione stessa del monociclo) e a perfezionare la stilizzazione dei tratti umani (il clown, pur essendo trattato come una maschera è in sé il germe da cui deriveranno gli studi sulla digitalizzazione delle persone). Il penultimo corto diretto da John Lasseter è quello che più di tutti si avvicina alle dinamiche del futuro della Pixar. Embrione del soggetto che sarà poi al centro della trama di Toy Story, Tin Toy ha in sé numerosi primati. Non solo infatti ha tra i protagonisti un essere umano, un bambino per quanto rigido e iperreale (con la pelle fossilizzata in un colore naturale, i segni del viso così marcati per assomigliare al reale e la bava cristallizzata e per nulla efficace) ma anche dei personaggi, i giocattoli di ogni forma e sorte, che si caratterizzano per la loro umanità nonché per rispettare appieno il proprio corpo. Il giocattolo di latta infatti cammina e si muove solo come la sua struttura gli consente, così come successivamente faranno i giochi di Andy, con i soldatini di plastica in primis.
I toni cambiano decisamente in Knick Knack assumendo le sfumature più ironiche e comiche possibili parodiando le dinamiche alla Warner Bros. Il protagonista è sempre un essere inanimato che grazie alla magia di Lasseter si anima e questa volta, per omaggiare la moglie che ne è collezionista, sceglie di mettere al centro della scena un pupazzo di neve che vive all’interno delle sfere di souvenir che simulano le nevicate. Attirato da una conturbante bambola in bikini (anch’essa, come il resto dei personaggi, un classico souvenir)cercherà la fuga dalla sua prigione tentandone di tutte le sorti: da martelli pneumatici, spinte fino all’immancabile TNT. Il finale , con la sua chiusa a occhiello sul volto del protagonista, rimanda ancora una volta ai classici di Tex Avery ma il corto va ricordato anche per la sua colonna sonora, che sorprende per la sua semplicità e per il ritmo incalzante che la denota. Knick Knack è stato poi il primo dei cortometraggi ad essere abbinato ad un lungometraggio nella vendita del DVD, inserito negli extra di Alla ricerca di Nemo ha però subito l’unico caso di censura nella storia della Pixar: alla prosperosa bambola sono stati infatti ‘sgonfiati’ i seni, rendendola più innocente agli occhi del pubblico infantile. Dopo la produzione di questi cinque cortometraggi sono dovuti passare ben otto anni prima che la Pixar si cimentasse nuovamente nel campo. I motivi vanni ricercati al grosso lavoro che i primi film hanno richiesto, sia in quantità di tempo che di risorse umane coinvolte. Con la maggior parte degli animatori impegnati a dar vita a Toy Story e A bug’s life non c’era infatti l’energia necessaria né i fondi da convogliare a questo settore.
A rompere però il silenzio è stato un animatore dalle origini europee che per primo, nel 1997, si è cimentato alla regia al posto di Lasseter. La sua creazione ha mandato in visibilio pubblico e critica riuscendo finalmente a dare umanità agli esseri umani digitali e soprattutto credibilità. Geri’s game è infatti il primo prodotto Pixar ad avere come protagonista assoluto un uomo, e ben sette anni prima della famiglia Parr de Gli Incredibili. Il simpatico vecchietto che gioca una estenuante partita a scacchi contro se stesso ha quindi il primato di essere riuscito a stabilire un’animazione nuova e moderna per le persone e di dare la possibilità a un nuovo animatore, Jan Pinkava di cimentarsi alla regia. Grazie a questo corto i toni di pelle dei protagonisti umani e i loro movimenti hanno acquisito più realtà e più scioltezza e oltre ai numerosi premi che Geri’s game è riuscito a conquistare (Oscar al miglior cortometraggio di animazione e Annie Award), il riconoscimento sicuramente più importante è stato quello di inserire il vecchietto Geri in Toy Story 2 dove ‘interpreta’ l’aggiustatore di giocattoli che riparerà Woody, innalzando così la sua carriera di attore.
Tre anni dopo, grazie all’exploit vincente avuto da Pinkava, Lasseter lascerà a Ralph Eggleston la possibilità di sviluppare un suo progetto che vede come protagonisti degli uccelli. Anche in questo caso il cortometraggio ha la doppia valenza di permettere ad un nuovo e giovane animatore di sperimentare le proprie capacità ma anche di conseguire studi approfonditi e utili su determinate caratteristiche. Se con Geri si cercava di perfezionare l’animazione umana, in For the Birds si cerca invece di dare movenze e struttura credibile al piumaggio degli uccelli con formule e algoritmi che, dovutamente modificati, potranno poi essere utilizzati anche per peli, capelli di umani e pellicce. I pennuti riescono magnificamente nel loro intento e nonostante il colore azzurro (come quello per le formiche di A bug’s life) non sia del tutto realistico, le loro movenze e il loro comportamento li rendono del tutto credibili. Da sottolineare poi come un cortometraggio senza parole, dove ancora una volta è preferita la silenziosità degli animali rispetto a quelli parlanti di altre filmografie, riesce a comunicare in modo perfetto con gli spettatori che tramite i fischi, gli sguardi e le intonazioni utilizzati capiscono alla perfezione gli intenti di questi uccellacci. La trama poi, per quanto semplice e lineare, ha in sé gag visive efficaci e divertenti che rendono For the Bird un piccolo gioiello che grazie alla rete ha continuato a mietere successo anche dopo la conquista di un Oscar e un Annie Award.
Per il successivo corto si passa invece ad un nuovo tono, sia di narrazione che di intenti. L’agnello rimbalzello celebra infatti la carriera di Bud Luckey, storico animatore della Pixar che per l’occasione non solo dirige, ma doppia, anima, monta e costruisce il design del film. Uomo burbero quanto tenero, trasferisce la sua esperienza di texano nell’ambientazione, creando un deserto ricco di fantasia che mescola Texas, Arizona e Montana. La storia stessa è poi una ripresa in chiave comica di una credenza popolare americana che narra di questo animale, un misto tra una lepre e un’antilope (da cui il nome originale, jacklope, lepronte in italiano) imprendibile e capace di imitare perfettamente la voce umana. Infarcito di cultura yankee, L’agnello rimbalzello riesce comunque a conquistare il mondo intero, primo corto prodotto dalla Pixar ad avere dei dialoghi, gioca la sua comicità su brevi filastrocche e una canzone orecchiabile che è un invito a non demordere. Così il povero agnello così fiero della sua folta pelliccia imparerà a convivere con la nudità temporanea, saltando e ballando in una scena magnificamente costruita: un lungo carrello circolare che mostra il susseguirsi delle stagioni. Anche in questo caso sono presenti delle citazioni interne, degli easter eggs per appassionati: l’uomo che tosa l’agnello altri non è che il dentista già visto in Nemo mentre il furgoncino con cui arriva è Stanley, il fondatore di Radiator Spring di Cars.
Abbinato sia in sala che nel DVD a Gli Incredibili, il corto di Bud Luckey ha conquistato l’Annie per miglior cortometraggio animato coronando così la lunga carriera dell’animatore che grazie a questa occasione ha avuto modo non tanto di sperimentare ma di utilizzare al meglio la sua esperienza.
É da qui partito un altro interessante filone per la filmografia Pixar: lasciare campo libero agli animatori più giovani. In un impero (quello dei lungometraggi) che ha visto in 25 anni di carriera alternarsi solo cinque registi, si sente la necessità di lasciare i corti come campo di prova e volendo anche come valvola di sfogo per animatori frustrati ma con idee eccellenti.
Mark Andrews e Andrews Jimenez si mettono quindi all’opera confezionando un corto particolare e dai toni indipendenti. One man band è infatti ambientato in quella che sembra una piazza medievale con due artisti di strada a contendersi l’elemosina di una ragazzina, sfidandosi a colpi di note e di trucchi per attirare la sua attenzione. Un duello a tutti gli effetti che porterà ad un catastrofico finale, ironico e divertente che come da tradizione racchiude in sé una morale: chi fa da sé fa per tre, anche senza grosse doti artistiche! Firmato a due mani, il corto è stato il campo di prova di Andrews, fidato collaboratore di Brad Bird già dai tempi de Il gigante di ferro, che dopo questa regia si è meritato di passare dietro la macchina da presa (si fa per dire) di un lungometraggio sostituendo Brenda Chapman alla direzione di Brave.
L’anno successivo, il 2006, è la volta di Gary Rydstrom che dopo anni di onorata carriera come sound designer e montatore del suono (suoi quelli per Jurassic Park, Titanic e Star Wars) si cimenta nella direzione di un corto spassosissimo proiettato prima di Ratatouille e poi allegato nel DVD. Stu-Anche un alieno può sbagliare ritorna in qualche modo nell’ambiente spaziale di WALL-E ma non ci sono protagonisti robotici questa volta, anzi, il buffo alieno dovrà simbolicamente combattere contro la tecnologia della sua tastiera di comando e tra prove ed errori (molti) riuscirà a rapire un ignaro umano per studiarlo mentre un severo professore giudica ogni sua mossa. Anche in questo caso gli easter eggs sono molti, Rydstrom si è infatti divertito ad inserire Tinny, il giocattolo musicista del corto di Lasseter, sotto il letto del dormiente che altri non è se non Linguini, l’amico di Remy che vedremo poi all’opera nel lungometraggio a cui è abbinato. La nomination all’Oscar impreziosisce un esordio alla regia che ha fatto ben sperare e che è stato bissato con Vacanze Hawaiane, lo spin-off breve sui protagonisti di Toy Story.
Gli ultimi due cortometraggi visibili della Pixar si differenziano da quelli prodotti per un ritorno ad una poeticità che mira principalmente ad un pubblico infantile. Il primo, Parzialmente nuvoloso abbinato al lungometraggio Up, nasce infatti dalle favole che si raccontano ai bambini su come arrivano i figli, portati dalle cicogne e creati dalle nuvole. Ci si presenta quindi un’ambientazione idilliaca, tante nuvole vaporose al lavoro per creare bambini e cuccioli ma tra tutte se ne distingue una pasticciona e buffa, Gus, come la cicogna, Peck, che le fa da aiutante. La sua “sfortuna” se così si può chiamare, è che crea sempre animali feroci che attaccano e sfiniscono la povera cicogna con attacchi improvvisi. Stanca di questa situazione, il volatile confabula con una nuvola vicina, mentre Gus, vedendo la scena da lontano lo prende per un tradimento e si infuria. Ma in realtà, il lieto fine è dietro l’angolo, tutte le nuvole si sono ingegnate per trovare un corazza che possa proteggere Peck da futuri colpi di cuccioli selvaggi e così nuvola e uccello possono tornare a collaborare ancora più amici di prima. Peter Sohn ha costruito una tenera favola, che anche per i colori tenui e la mancanza di dialoghi è perfetta per il tipo di pubblico a cui è rivolta, come notato anche per i lungometraggi, anche qui è l’amicizia a prevalere sugli altri sentimenti e fa parte anche dell’insegnamento morale insegnato dalla cicogna, mai abbandonare un amico per quanto pasticcione questo sia!
Quando il giorno incontra la notte è il corto successivo che se si vuole appare ancora più poetico del precedente. Protagonisti sono infatti due ‘persone’ che incarnano la notte e il giorno, attraverso il loro corpo trasparente è infatti possibile vedere il mondo attraverso il momento della giornata che rappresentano. Inizialmente diffidenti l’uno dell’altro, impareranno pian piano a conoscersi e ad ammirarsi, mostrandosi vicendevolmente le loro caratteristiche migliori, dal bagno al mare in pieno sole, alla brezza della sera. Ad un certo punto giorno si sintonizza su una radio in cui la voce di Wayne Walter Dyer declama:
…Paura dell'ignoto. Hanno paura delle nuove idee. Sono pieni di pregiudizi. Non si basano su qualcosa di reale, ma su... se una cosa è nuova, io la rifiuto immediatamente perché mi spaventa. Quello che fanno è attenersi a ciò che è familiare. Sapete, per me, le cose più belle di tutto l’universo, sono le più misteriose.
I due capiscono che le loro differenze sono complementari e che non c’è nulla di male nell’accettare il diverso, così si abbracciano e avranno la piacevole sorpresa di vedere che l’alba dell’uno corrisponde al tramonto dell’altro e così, senza sforzi ma come per magia, la notte diventa giorno e il giorno diventa notte, diventando felici e amici come non mai!
Il carattere moralistico non è il solo a far spiccare questo corto rispetto agli altri, anche la sua concezione è stata diversa. Il regista Teddy Newton lavora alla Pixar da dieci anni con mansioni che vanno da character designer, doppiatore, sceneggiatore e artista di storyboards. Al momento di presentare il progetto al gruppo di cervelli, si è presentato con pochi schizzi riguardanti le due personalità protagoniste non sapendo ancora come poi si sarebbe sviluppato il tutto ma con l’idea precisa di quello che voleva rappresentare. Lasseter accettò la proposta diventando l’unico dei registi ad aiutare nella creazione in quanto gli altri membri del gruppo, con le loro forti personalità, potevano modificare il progetto rispetto all’idea iniziale. Newton decise di inserire lo spezzone radiofonico di Wayne Walter Dyer come invito ad accettarsi così come lui lo aveva recepito da giovane. Anche per quanto riguarda i disegni la differenza rispetto alle altre opere si fa sentire, Quando il giorno incontra la notte si compone infatti di disegni in 3D, altri tradizionali utilizzano i personaggi già negli archivi Pixar per andare a risparmio di tempo. Il risultato è visivamente e emotivamente d’impatto, con toni decisamente diversi da quelli usuali per Lasseter e che ricordano, e da lì infatti traggono ispirazioni, i cartoni di Chuck Jones in cui la quarta barriera viene infranta e quella che si racconta non è una vera e propria storia nella concezione tradizionale del termine.
Newton dichiara infatti:
Naturalmente lavoro con loro da dieci anni, quindi c'è una parte di quello che faccio che si adatta al loro stile. Credo quasi sia come una spezia che non vuoi usare troppo. Quello che faccio è molto specifico, specialmente con i miei design e gli storyboards. Penso che a loro piaccia avere un po' di quel gusto nei loro film, in particolare Brad. Ma ho capito che non ne volevano una versione grezza, di quel gusto. È questo che mi ha sorpreso di Quando il giorno incontra la notte, perché era così diverso da quello che fanno normalmente. Era un'idea talmente strana.
Talmente strana però da conquistare in poco tempo pubblico e critica, abbinato a Toy Story 3 il corto spopolerà su youtube aggiudicandosi un Annie Award.
L’ultimo corto in ordine cronologico della Pixar deve ancora vedere la luce in Italia. La luna uscirà infatti nelle sale solo ad ottobre prima di Brave e porta la firma di Enrico Casarosa, animatore italiano che all’età di vent’anni si trasferisce da Genova a New York collaborando con gli studi grafici e artistici alla realizzazione de L’era glaciale per poi approdare in casa Pixar. Già candidato all’Oscar non ha però vinto battuto da The Fantastic Flying Books of Mr. Morris Lessmore di William Joyce e Brandon Oldenburg. Per i secondi finora visionabili in rete si resta sul tema del poetico, con colori accesi e luminosi ad incantare un bambino che viene portato dal nonno in viaggio sulla luna, staremo ad aspettare il risultato finale, certi che si tratti di un’opera interessante e coinvolgente, come da tradizione ormai!
Grazie alla serietà e alla precisione che sta dietro la progettazione d ongi cortometraggio anche questi fanno ormai parte dell’universo Pixar che si fa attendere e che ha costruito una ricca rete di appassionati che condividono e aspettano freneticamente la successiva uscita. Da test di collaudo a nuovo settore che convoglia l’inventiva di registi esordienti, il campo dei cortometraggi non smette di portare nuove sorprese ed è non solo germe embrionale da cui la Pixar stessa è nata ma anche il motore che mantiene costante il suo successo grazie alle sperimentazioni di cui si fa carico.


Conclusioni
26 anni di carriera.
14 lungometraggi prodotti e in lavorazione.
22 cortometraggi realizzati.
14 Premi Oscar finora vinti.
12.881.784.491 dollari incassati dalla visione e l’acquisto dei film prodotti.


Cosa ha portato a questi numeri una Cenerentola dell’animazione?
Dopo un excursus storico e filmico della sua epica scalata al successo, una risposta sembra delinearsi. E più che una risposta univoca, ha più la forma di una ricetta in cui ogni ingrediente è fondamentale per la buona riuscita finale.
Prima di tutto i personaggi: persone che con la loro forza di volontà, con la voglia di riscatto e il credere profondamente nell’importanza di ciò che facevano hanno portato a costruire passo passo la Pixar, partendo da uffici smessi in un garage alla reggia di Emeryville. La storia di ognuno è servita a farli confluire assieme, le cadute e le beffe del passato li hanno resi forti per affrontare il presente, come ogni fiaba a lieto fine si rispetti.
Poi, l’ambiente, quella reggia che anno dopo anno è cresciuta diventando una vera e propria seconda casa dove il lavoro si mescola al gioco, dove il capo non è un capo ma un compagno e dove l’inventiva e la fantasia corrono a briglie sciolte lungo corridoi e sale nascoste che per la natura della loro struttura mirano agli incontri casuali e quindi al confronto e alla conversazione spontanea.
A questo va aggiunto il metodo, un modo di lavorare che predilige l’esperienza su campo, il toccare con mano (e con occhi) quello che si dovrà poi animare per interiorizzarlo e renderlo così unico. Gite aziendali, corsi e lezioni tenuti da esperti sono il metodo di lavoro che si ritrova alla Pixar. L’avvicendarsi di nuovi registi al timone di nuovi progetti non ha variato questa tecnica, anzi, è servita come base per costruire il successo incessante di ogni film in produzione, che fosse Lasseter, Stanton, Gordon o Bird a tenere le redini del giogo. La formazione continua di ognuno all’interno della Pixar University serve infatti sia per aggiornarsi che mantenere la testa apposto in modo da non strafare.
<>, il celebre motto di Lasseter riassume tutto l’operato che gli animatori portano avanti. Per farlo sono partiti non dai lungometraggi che affollano i cinema, ma da cortometraggi che nel loro piccolo hanno fatto qualcosa di grande. La storia della Pixar parte infatti con i due minuti che compongono The Advetures of André & Wally B. e negli anni questi corti sono stati una palestra per nuovi animatori che si sono poi presentati al timone di propri progetti e un modo per testare le scoperte scientifiche utili poi per i film in produzione. Ancora arte e tecnologia che si influenzano vicendevolmente, nel piccolo come nel grande.
Questi due elementi compongono la ricerca continua della verosimiglianza, ingrediente fondamentale per la ricetta del successo. Verosimiglianza che sta per plausibilità, per ancorare il pubblico nonostante il mondo fantastico in cui lo si immerge in un contesto credibile, dove personaggi e ambiente compongono un universo nuovo ed appetibile, per questo quindi verosimile. Attraverso suoni, voci o citazioni si cerca di non staccarsi mai troppo dalla realtà anche quando questo sembra impossibile. Ma la ricerca della verosimiglianza può anche essere divertente, con richiami, camei e omaggi interni ed esterni che fidelizzando il pubblico al magico mondo Pixar.
Il pubblico è forse l’ingrediente principale per la buona riuscita di questa ricetta. Il pubblico va infatti rispettato, ma questo non significa essere sottomessi al suo volere ma semplicemente calarsi nei suoi panni di spettatore attento e preso emotivamente dalla vicenda per capire cosa effettivamente ci si aspetta da una storia. Il fatto che la Pixar prediliga storie originali, non tratte da favole antiche o tradizioni locali come invece faceva Walt Disney, fa sì che le persone attratte dai suoi film siano più eterogenee, è finita l’era in cui l’animazione era un genere esclusivamente per bambini. La Pixar ha sdoganato questo credo e ha portato nelle sale frotte di adulti interessate alle storie e alla messa in scena, pronti ancora una volta a lasciarsi stupire. Temi e metodi di raccontarli si sono fatti quindi più raffinati, con lungometraggi che molto spesso non hanno nulla da invidiare ai live-action, anzi.
La diversità di pubblico non ha però fatto dimenticare il motivo per cui molto spesso si va al cinema. Per imparare, per accogliere una nuova morale che possa arricchire tanto i più piccoli che gli adulti. Così la Pixar lasciando il buonismo di Disney si è fatta strada con insegnamenti moderni, con protagonisti magari inizialmente scomodi ma che proprio per la loro spigolosità riescono ad entrare nel cuore e conquistare lo spettatore. Questo perché in tutti i lungometraggi c’è un sentimento che prevale, che si staglia sugli altri con la forza e l’universalità che lo contraddistingue, l’amicizia.
Ecco l’elemento fondamentale, l’ingrediente che lega tutti gli altri e senza il quale la ricetta non risulterebbe completa, l’amicizia. La si riscontra nel rapporto tra i fondatori, gli aiutanti e tutti i dipendenti della Pixar, la si trova all’interno di Emeryville, un ambiente costruito appositamente per creare nuove amicizie così come il metodo di lavoro, tra relazioni e gite che le fortificano e interazioni che ne creano di nuove. Gli stessi personaggi, sia dei lungometraggi che dei corti, si muovono grazie a questo sentimento, che è alla base dell’oggetto del desiderio che inseguono e che permette quindi la formazione di un insegnamento morale nelle loro vicissitudini.
L’amicizia, la famigliarità, è alla base del successo Pixar, di questa ricetta esclusiva che ha portato in 25 anni di carriera ad avere così tanti appassionati, così tanti spettatori e premi, così tante nuove opere da mostrare. Il modo in cui è entrata nelle case del suo pubblico è mosso proprio dal tocco della famigliarità, dal voler instaurare tramite le proprie storie originali un rapporto profondo e sincero, quasi a volerci dire che, sempre <You've got a friend in me!>




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