17 luglio 2018

The Handmaid's Tale - Stagione 2

Mondo Serial

Via il dente, via il dolore: la seconda stagione di The Handmaid's Tale non riesce a superare la prima. Né per intensità né per bellezza né per dolore.
Certo, da mettere in conto c'è un effetto sorpresa che non c'è più, un futuro che abbiamo già scoperto in molte delle sue atroci sfumature, e c'è pure una certa aspettativa da mettere in conto per un proseguimento che su carta Margaret Atwood non aveva previsto e cerca di prendere una sua strada.
Sì, la bellezza e il rigore tecnico sono però rimasti intatti.
Ogni inquadratura è un quadro, la luce e il suo modo di filtrare dalle finestre illuminando e mettendo in ombra le protagoniste meriterebbe un Emmy a sé e Elisabeth Moss, Yvonne Strahovski e Alexis Bledel continuano la loro guerra (non ostile) nel migliorarsi e nel battersi rispetto ai capitoli precedenti, puntando su guardi, su gesti, che valgono più delle parole.
Quel che manca è però una storia.



Una storia che sia lineare e credibile nonostante un futuro a cui si stenta a credere, una storia che vorrebbe June libera e riunita alla sua famiglia ma un percorso duro e impossibile per riuscirci. Soprattutto quando di famiglie, di figlie, di uomini da amare, finisci per averne due.
Si ricomincia lì dove la si era lasciata, in fuga, aiutata dalla Resistenza, da Nick, tenuta nascosta per mesi e abbandonata nel momento più importante. Non era pensabile per una seconda stagione né per una serie così di successo, il suo arrivo in Canada, e così dopo momenti bellissimi all'interno della redazione del Boston Globe, tutto torna alla normalità, con il rientro in casa Waterford, le diffidenze, le antipatie e i tentativi di giocare bene le carte di un grembo pieno per avere di più.
E qui, bisogna ammetterlo, la noia avanza, la ripetizione pure, poco di nuovo viene detto e fatto, la voice over di June e i suoi ricordi sembrano solo dei riempitivi. Ma, con una bomba, tutto riprende vita, un'insperata cooperazione che potrebbe essere un'amicizia nasce, seppur nel pericolo, seppur in un equilibrio instabile a dir poco.
Diciamolo: se la scorsa stagione June/Elisabeth Moss la facevano da padrone, qui a rubare la scena è una Serena/Yvonne Strahovski che a tratti si odia, a tratti si compatisce. Il suo unico desiderio -avere un figlio- la porta in un abisso infernale ma anche a compiere gesti umani di cui non la si credeva capace. Lei, sempre sola e privata della sua intelligenza, in visita in Canada, nella sua serra, dietro una scrivania o anche solo leggendo la Bibbia, resiste, sopravvive. Mette i brividi.
Poi ci sono una spenta Moira, una sofferente Emily che regala le vendette più gustose, la perfida Lydia che a sorpresa dimostra pure lei un briciolo di bontà, di maternità e la new entry Eden (Sydney Sweeney, già vista in Everything Sucks!), petulante e già figlia di quella Gilead che in breve tempo (forse troppo breve, a dire il vero), sa mostrare un'altra rivoluzione, un altro sacrificio capace di commuovere.


E la parte maschile?
Come sempre è spenta, è inabissata dietro le interpretazione forzatamente concentrate e sussurrate di Joseph Fiennes, anche se è Nick/Max Minghella nella sua perseveranza, nel suo amore impossibile, nel prendere in braccio una figlia che chissà se sarà mai davvero sua, a spezzare il cuore.
In mezzo a tanti episodi a vuoto, in mezzo a flashback che non possono più colmare le informazioni e i buchi ma solo arricchire e dare nuove sfumature ai personaggi, ci sono i momenti e le canzoni (sui titoli di coda e inserite ad hoc, per radio) che da soli valgono la bellezza dell'intera stagione. Ci sono nomi, dimenticati e negati, che affiorano sulle labbra, ci sono penne che scattano e diventano armi, ci sono lettere capaci di esplodere come bombe e infine ci sono staffette, catene al femminile che fanno sgorgare lacrime di riconoscenza, di bellezza, di dolore.
C'è insomma quel messaggio politico e attuale, quei richiami (tra spose-bambine, lenzuola con il buco, lavori forzati) a realtà tanto barbariche quanto ancora in vigore, quella forza femminile che si eleva, che risponde agli schiaffi, ai soprusi, con l'unione, facendo della serie un simbolo.
Per fortuna, The Handmaid's Tale sa essere un simbolo pieno di speranza e significato che pur perdendosi qua e là, sa sferrare pugni non da poco. E la prossima stagione -lo sguardo di June lo promette- farà altrettanto.


Voto: ☕☕/5

8 commenti:

  1. Ne ho scritto sabato, e concordo con i pregi e i difetti. Stagione imperfetta, ondivaga, che dall'ottavo episodio poi sa migliorarsi. Anche se l'intoccabile Moss, onestamente, mi ha fatto un po' antipatia, mentre Serena mi ha spezzato il cuore. Agli Emmy tiferò per lei. E forse non per questa serie, quest'anno, sperando ci sia di meglio. Nonostane tutto.

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    1. Sabato non ti ho letto perché la stagione sono riuscita a finirla solo domenica -e questo la dice lunga sui tempi e gli allunghi che ci sono stati qui- ma concordo: si parte anche bene, si sprofonda nel già visto, e si recupera grazie a Serena.
      Ti dirò, la Moss continua a piacermi ma a volte mi sono chiesta se certe scene madri, certi suoi sguardi, non fossero forzati e messi apposta per mostrarne la bravura, più che per essere necessari alla storia..

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  2. Concordo, meglio la prima. A tratti estenuante: sarebbero bastati 10 episodi però ci sono momenti devastanti di coinvolgimento emotivo.
    Mi sono ripreso con "Barry": fino ad ora la serie migliore dell'anno.

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    1. Barry è un po' che salta fuori qua e là, direi che dopo le tue parole devo provvedere a recuperarla!

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  3. Sì, la prima è su un altro livello. Qui si punta sui personaggi più che sulla storia, come hai giustamente sottolineato. Anch'io agli Emmy tiferò per una splendida Strahovski!

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    1. Spesso i flashback li ho trovati posticci e non necessari, ma almeno hanno aiutato ad inquadrare i personaggi un altro po', anche se Eden o l'ultimo "padrone" di Emily li avrei approfonditi di più, tagliuzzando spazio ad altro.

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  4. Concordo con molte cose che dici, molto meno con il voto.
    Per me ancelle peggiorate tantissimo. Come dici tu la noia domina, la storia non c'è e l'unica idea di trama è Elisabeth Moss che continua a scappare come le pare dalla casa di uno dei principali comandanti di quello che dovrebbe essere un regime autoritario. Se La casa di carta è inverosimile, cosa dire di questa serie?

    Qualche singola buona scena c'è, ma un paio di minuti decenti a episodio affogati in un'oretta buona di noia per me sono troppo pochi per quella che i grandi premi come gli Emmy considerano la miglior serie in circolazione...

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    1. C'è la noia, non c'è la storia ma tra la resa tecnica, quei momenti e quei personaggi che evolvono in brividi bastano a mantenere altissimo il livello generale. C'è soprattutto un messaggio importante, che giustifica il mio voto e una terza stagione -si spera conclusiva- in cui tornare all'azione.

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