Andiamo al Cinema
Candidato al Premio Oscar come miglior documentario, miglior film internazionale, miglior film di animazione.
Un record.
Una prima volta.
E decisamente meritata.
All'annunciare le nomination, l'Academy non pensava certo che Flee potesse diventare così attuale, e probabilmente non lo pensava nemmeno il suo regista, Jonas Poher Rasmussen.
Attuale in triplice senso, visto che si racconta di una famiglia in fuga dalla guerra.
Mentre qui si parla di quella degli anni '90 in Afghanistan con i Talebani che prendono il potere, il pensiero non può che correre alla tragedia di quest'estate che è già passata in secondo piano per un'altra guerra, quella in Ucraina, dove i rifugiati sembrano più veri -almeno per alcuni su cui è meglio tacere- e dove i russi continuano a far paura.
Ma non c'è differenza di tempo, di spazio, se si deve scappare da bombe e attentati.
Dover trovare rifugio, nascondersi perché senza documenti, affidare i propri risparmi e la propria vita a chi promette di avere una via di fuga, sacrificare tutto, anni compresi, pur di non dover tornare indietro e infine dover riuscire a fare i conti con se stesso e la libertà duramente conquistata.
Perché Amin, quando scappa con la famiglia, si chiude in un appartamento a Mosca, attraversa boschi innevati e un mare ghiacciato, è solo un bambino.
Jonas Poher Rasmussen usa il mezzo documentario come una seduta dallo psicologo, un modo per Amin per aprirsi davvero, raccontare la verità, anche a se stesso, sul suo passato, su quello che ha affrontato, in modo da poter andare avanti.
Perché Amin, per avere l'asilo e quindi la possibilità di rimanere in Danimarca, ha dovuto mentire, ha mentito per una vita e a tutti, amori compresi, per paura che tutto quello che ha raggiunto e costruito, potesse cadere.
E ha mentito anche a se stesso, su una sessualità che nell'Afghanistan di quegli anni non era nemmeno contemplata come ipotesi.
Arrivando ora a chiedersi quanto ha sacrificato pure lui, quanto si è tenuto dentro e quanto in fretta è stato chiamato a crescere dalla vita da quando ha abbandonato una casa, un passato, a cui è impossibile tornare.
Riscrivendo e camuffando dietro tratti animati pieni di poesia, dove una collana, una canzone, acquistano ancora più valore, queste registrazioni che sono interpretate prendono vita e con una chiarezza, una profondità disarmante, parlano a noi, spettatori esterni e inermi.
Mostrando la forza che ha il cinema, quello migliore, quando decide di mettersi al servizio di una storia e della Storia.
Che dal particolare si fa universale, che aiuta a capire, schierarsi.
Voto: ☕☕☕☕☕/5
Ne parlerò la settimana prossima. Davvero ben fatto e commovente, con un utilizzo perfetto della colonna sonora e dell'animazione. Spero possa portare a casa almeno uno dei tre Oscar.
RispondiEliminaL'animazione con la Disney contro la vedo dura (anche se io tifo i Mitchell), lo stesso tra gli stranieri che Sorrentino e Drive my car hanno il mio cuore. Tra i documentari, però, non dovrebbe esserci storia. Speriamo.
EliminaBello e toccante, e per nulla retorico. Mi è piaciuto molto, anche se cinque tazzine mi paiono troppe: in fin dei conti non è poi originalissimo, alla fine rimane una (bellissima) intervista. Commovente per quello che racconta e per come lo racconta, seppur all'interno di un contesto collaudato.
RispondiEliminaI documentari per me sono sempre un capitolo a parte. E questo racconto così poetico, originale e toccante di una pagina di storia e di vita le 5 tazzine se le è meritate. La mezza finale, è sempre una questione personale.
EliminaBello, soprattutto nella parte finale.
RispondiEliminaA voler fare proprio i pignoli, però, l'ho trovato un gradino sotto un film simile come Valzer con Bashir, che spingeva di più sulla parte visionaria, e che quel record agli Oscar l'avrebbe meritato un po' di anni fa.
Ecco, mi hai ricordato che quel Valzer ancora non ho trovato il coraggio di vederlo. Devo rimediare.
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