21 novembre 2025

Un Semplice Incidente

Andiamo al Cinema

Un semplice incidente: un cane che viene investito nella notte che deve essere silenziosa in Iran, una macchina che dopo poco inizia a dare problemi e un motociclista gentile che cerca di dare una mano aprendo il suo negozio.
Un semplice rumore: un cigolio, o meglio, una protesi che cigola, che risveglia i peggiori incubi in Vahid. Che si spaventa, che camuffa la sua voce, che decide di inseguire quel guidatore sfortunato, di vedere dove abita, dove va, e infine decide di rapirlo.
Una decisione semplice: vendicarsi, vendicarsi per le torture subite in carcere, per le umiliazioni e le violenze. Scava una buca, Vahid, ci butta dentro Eghbal, ma poi ha un semplice dubbio: è davvero lui quella guardia? Basta un semplice incidente e un semplice rumore per mettere il suo destino nelle sue mani.


Un semplice incidente inizia con un semplice incidente, voluto da Dio, dicono.
Da notte a notte, nel giro di 24 ore, Vahid e Eghbal girano per la città, il primo guidando il suo furgoncino, l'altro legato e bendato e nascosto, per lo più incosciente, cercando la persona giusta che possa identificarlo.
È così che Jafar Panahi riesce a dar voce ai dissidenti, a chi in prigione c'è finito ingiustamente, venendo torturato e violentato, portando le conseguenze di quei mesi e di quegli anni addosso, e sono più di semplici e visibili cicatrici.
Seguiamo Vahid tappa dopo tappa, formare un gruppo di agguerriti e arrabbiati ex-prigionieri che discutono sul da farsi: essere come quelle guardie, vendicandosi con la forza? Lasciarlo andare, Eghbal, rischiando di finirci di nuovo, in carcere? Aiutare la sua famiglia, una moglie, una figlia piccola, uno ancora da nascere, temendo una trappola?
In un giorno che si fa lungo, si discute e ci si divide, ci si scontra e si viene a patti con la propria coscienza, raccontando quel passato a chi lo conosce, riuscendo senza alcuna forma di didascalia o retorica, a mostrare la forza di repressione e di corruzione che tiene banco in Iran.
Basta un semplice incidente, appunto, bastano le piccole "mance" da lasciare a vigilantes o benzinai o infermiere, basta una sceneggiatura che tiene avvinti.


Panahi è riuscito sotto regime e sotto divieto di girare film, a compiere il Grande Slam dei Festival.
Girando di nascosto, con una troupe ridotte, attori consapevoli dei rischi che corrono, con le donne a girare senza hijab e in abito da sposa (un espediente che sembra ispirato a Io sto con la sposa, per non attirare le attenzioni sbagliate su di sé) e la telecamera per lo più nascosta in quel camioncino che gira che per la città, ma anche libera di inquadrare una natura deserta, una città dall'alto, riuscendo a scorgere le contraddizioni di questa bellezza, è riuscito a fare un film migliore di quelli che costano milioni negli studios di Hollywood e vincere la Palma d'oro a Cannes.
C'è tensione, c'è realismo, in un film che con poco racconta tanto, che in 100 minuti appena condensa la situazione del suo Paese e le speranze per un futuro diverso.
C'è solo un filo di retorica che aleggia su un finale urlato in cui si cerca di rompere il circolo vizioso della violenza, che però porta al vero finale, in cui il silenzio viene rotto dal peggiore dei rumori e dal dubbio se quel circolo è stato spezzato o meno.


Per quanto strette e soffocanti, le maglie del regime non riescono a soffocare le voci di registi dissidenti che arrivano ai Festival, e se Panahi aveva già mostrato che gli Orsi non esistono, e Mohammad Rasoulof aveva raccontato i semi marci del fico sacro, ora si aggiunge un semplice incidente a dimostrare una filmografia viva e resistente, che riesce a stregare e educare il pubblico senza perdere di vista il potere delle storie, della condivisione, della forza del cinema.

Voto: ☕☕☕☕/5

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