Andiamo al Cinema
La banalità del male.
Il sonoro.
Quello che non si vede.
Da quando è stato presentato a Cannes, dove si è portato a casa il Gran Premio della Giuria, non si può parlare del film di Jonathan Glazer senza menzionare queste tre cose.
Un film che Glazer ha in mente da 10 anni, da prima ancora che il romanzo di Martin Amis da cui è tratto uscisse, subito opzionato.
Si è messo a studiare, a fare ricerca, cercando risposte e dettagli sulla famiglia Höß, che viveva a un passo da Auschwitz, che lo dirigeva.
Facendo ricostruire in ogni dettaglio la casa della famiglia ora patrimonio Unesco, facendo piantare piante e fiori nel nuovo giardino, con Johnnie Burn, l'addetto al sonoro, impegnato a studiare barriere e riverberi, a registrare sparatorie e passi di marcia, lavori d'officina e grida.
Una preparazione che si sente, e si vede.
Quello che non si vede è quello che molti film che escono per la Giornata della Memoria hanno ormai reso banale a sua volta.
Non si vedono i campi di concentramento, i corpi, le sevizie o i cadaveri. Non si vede la paura di prigionieri dagli occhi scavati e spenti, non si vede il loro dolore.
No.
Si sposta la macchina da presa fuori dalle mura di Auschwitz, appena fuori, e si mostrano le decisioni prese con cura e attenzione sulla Soluzione Finale ma soprattutto si mostra una quotidianità fatta di feste e colazioni e scuola e nuotate, si mostra una casa che sembra un sogno borghese in cui trovano posto gioielli, pellicce e trucchi che arrivano dall'altra parte del muro, si mostra il cibo, nella sua abbondanza, e la noncuranza con cui si vive e si cresce.
Perché anche se non si vede, si sente quello che c'è al di là.
Glazer ce lo mette in chiaro da subito dove sta il vero film a cui dobbiamo prestare attenzione.
Lo schermo è nero, c'è solo la musica, solo i rumori.
Sono questi a cui dobbiamo prestare attenzione.
E così mentre Hedwig cura il suo giardino e Rudolf torna per la pausa pranzo, le urla, le grida, gli ordini e gli spari sono sempre lì, in sottofondo. Anche mentre i bambini devono dormire, stanno giocando.
Il nero, allora, diventa rosso.
Uno schermo rosso fuoco, rosso sangue a ricordarci cos'è il male.
Succede poco, in quella casa, i discorsi risultano banali, la quotidianità non ha scossoni.
Li spiamo dalle telecamere che Glazer ha nascosto in quella casa, lasciando così liberi gli attori Christian Friedel e Sandra Hüller di immergersi nei personaggi in lunghe scene senza stacchi in quello che lo stesso regista ha definito un Grande Fratello nazista che ha richiesto un lungo lavoro di montaggio.
Solo una madre, in visita, smuove per un po' la coscienza.
Non solo per i suoni che sente, ma per l'odore che non può essere ignorato.
L'odore di corpi che bruciano, dell'efficienza in atto.
Si nota allora il terrore di domestiche e giardinieri, a far capire che non sono semplici domestici.
C'è qualche frase, che arriva gelida.
C'è qualche sentenza antisemita, che fa male.
E c'è lo stacco, improvviso, su un futuro dove tutto è già passato, dove la soluzione Höß è stata compiuta in tutta la sua terribile efficacia.
E l'uscita da quella casa per entrare in un'altra dove la Resistenza è fatta con una bicicletta, con un sacco di mele, con una canzone da suonare e tramandare al pianoforte.
Mi lamento spesso in prossimità del 27 gennaio in cui nelle scuole si mostrano Vite Belle e Pigiami a Righe e a volte Liste importanti, in cui si leggono diari che portano sulle spalle anni e una certa assuefazione a racconti che dovrebbero smuovere, far riflettere, di più.
Jonathan Glazer riesce nella banalità del male che racconta, nel sonoro che diventa il vero protagonista, in quello che nel suo film non si vede, ad essere estremamente originale.
Scuotendo e smuovendo davvero.
Facendoci del bene, facendoci così male.
Voto: ☕☕☕☕/5
Un film che rivoluziona il modo di raccontare gli Olocausti, tremendo nel contenuto, bellissimo nella forma, ho il post in rampa di lancio anche dalle mie parti. Cheers!
RispondiEliminaUna rivoluzione che fa più male delle tante storie che negli anni non sono più riuscite a smuovere le coscienza. Cambiare il punto di vista, ma non quello dell'orecchio, è servito.
EliminaSono contento che finalmente Jonathan Glazer abbia avuto la sua rivincita, una decina d'anni dopo fischi e pernacchie ricevuti dal sottovalutato Under the Skin, che poi a ben vedere conteneva già diversi elementi presenti in questo suo nuovo (giustamente) osannato film. Parafrasando Loredana Bertè: "Prima ti dicono basta sei pazzo e poi, poi ti fanno santo", caro Jonathan, vale anche per te :)
RispondiEliminamah, insomma caro Cannibale... Under the skin non mi era parso esattamente un capolavoro: diciamo la verità, è rimasto impresso solo per la nudità di Scarlett Johansson e per quella famosa scena "scult" che non sto a rievocare... :D Invece La zona d'interesse è un capolavoro a prescindere, c'è poco da dire. Ma può succedere: non è che un regista può fare SOLO ciofeche o SOLO grandi film, esistono anche le vie di mezzo, come per tutti. L'unico ad aver girato SOLO capolavori è stato Kubrick, altri onestamente non me ne vengono in mente...
EliminaRicordo così poco di Under The Skin se non una certa noia e un certo nonsense che nonostante la rivalutazione dei critici non credo di aver voglia di rivederlo. Piuttosto, potrei scoprire Birth, anche se questo resterà il film migliore di Glazer e sull'Olocausto in generale degli ultimi anni.
EliminaFilm veramente intenso, lascia basiti! Adoro come hanno costruito il fuoricampo^^
RispondiEliminaE la colonna sonora??
Un film che è bello anche per tutta la storia della sua preparazione, potrebbero farci un film/documentario per quanta attenzione c'è stata.
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