Mondo Serial
Chiamalo effetto Last Dance.
O chiamalo semplicemente che il basket, più di molti altri sport, al cinema come in Tv appassiona.
Forse solo la boxe lo supera, ma lì si tratta di uno sport solitario, di fantasmi del passato e di ego da tenere a bada. Qui in gioco è una squadra intera, e riuscire a tenere in equilibrio un racconto, a far splendere tutte le stelle, è un'altra storia.
Dopo i Chicago Bulls, allora, i Lakers di Los Angeles.
Ma non in un documentario, bensì in una serie TV vera e propria, con attori d'alto calibro e nuove promesse a rivestire volti e fisici noti.
Siamo nei Lakers degli anni '80, quelli che si ritrovano un nuovo, libertino, appassionato, proprietario che spende e spande senza remore e senza avere davvero i soldi per farlo.
Ma Jerry Buss ha dalla sua la passione del rookie, e la follia del rookie: del neofita, della matricola, di chi entra in un campo dove sono già tutti pronti a vederlo perdere.
In primis il signor Auerbach dei Boston Celtics dell'altro rookie d'oro (Larry Bird), nemici giurati, campo più ostico da affrontare.
Ma Jerry, dopo aver amato e perso interesse per tutti gli investimenti passati, decide di metterci il cuore e la famiglia nei Lakers, coinvolgendo la madre e la figlia nella ristrutturazione di una squadra.
Punte di diamante sono allora Kareem Abdul-Jabbar, capitano politicamente impegnato che gioca timbrando il cartellino e il suo opposto, il nuovo acquisto, voluto a tutti i costi, Earvin "Magic" Johnson. Con il suo sorriso a 32 denti, con la sua spigliatezza, rilassatezza, e una libertinaggine e sfacciataggine in comune con Jerry.
A questa squadra in divenire oltre i soldi, manca anche l'allenatore.
Il collerico Jerry West si tira indietro, consapevole di non essere materiale da vittoria, ma punta tutto su Jack McKinney e il suo assistente Paul Westhead che hanno un approccio scientifico, schematico, a rimettere mano all'intero modo di giocare il basket.
Passaggi liberi, movimento, posizioni intercambiabili.
Una rivoluzione, che ha ovviamente bisogno di rodaggio.
Questa, la base.
Mettici poi che la stagione del 1980 vede infortuni gravi, vede dipendenze che ritornano, vede morti e malattie, vede soprattutto un incidente che coinvolge l'allenatore stesso, a mettere sulla panchina di comando chi non se l'aspettava, chi deve tenere le redini del gioco cercando un nuovo appoggio.
Tra filotti di vittorie, scommesse sulla finale e uno stadio da rivedere come esperienza per lo spettatore pur di guadagnare per tenere in rotta la barca, una storia come questa storia, come questa prima stagione dei Lakers di Jerry Buss andava raccontata.
Drammatizzando, infiorettando, tanto da far arrabbiare i diretti interessati pronti a sporgere querela contro HBO, che essendo HBO infila più sesso possibile, più bellezza tecnica possibile.
Alla regia dell'episodio pilota c'è infatti il produttore esecutivo Adam McKay, e si vede.
Si vede che il metodo Succession si ripete, fra inquadrature quasi documentaristiche, cambi di pellicola e di filtri. Ma c'è di più, ci sono sguardi in macchina, c'è lo sfondamento della quarta parete che tanto va di moda oggi al cinema come in TV, e che però Michael Shannon non è riuscito a fare suo.
Per fortuna, viene da dire, perché John C. Reilly regala una prova strepitosa, lui che tutto spiega, lui che tutto fa suo.
E spiace che la sua scelta sia costata l'amicizia decennale fra McKay e Will Ferrell, ma il risultato dà ragione al regista e produttore.
Non sono da meno i giocatori Quincy Isaiah e Solomon Hughes e le loro scaramucce amorose e politiche, né i miei preferiti: gli outsiders, quelli che devono farcela con i denti, Adrien Brody e il buon Jason Segel.
In una cavalcata che non dimentica le donne e il loro ruolo da rivendicare, come compagne da rispettare o come serie lavoratrici ci sono però delle note dolenti strettamente personali.
C'è poco gioco, che te ne aspetti di più da una serie che racconta di una squadra di basket.
Ma anche qui sta la rivoluzione: mostrando più dietro le quinte che campo da gioco, più tecnica, relazioni problematiche, che azione.
Ma resta un peccato, soprattutto per come a tratti questa tecnica, questo dietro le quinte, si appesantisca in episodi dal ritmo non sempre spumeggiante, non all'inizio almeno.
Ma capito lo schema generale, la direzione che Winning Time vuole prendere, si viene presi allo stesso modo arrivando ad una finale in cui si è finalmente in campo, lì, con il fiato sospeso.
Non sapere troppo su questi tempi, sulle vittorie e le sconfitte, aiuta.
E anche se il desiderio è correre ad informarsi, a saperne di più, la conferma di una seconda stagione frena.
Perché rovinarsi la sorpresa, se la sorpresa è così vincente?
Voto: ☕☕☕½/5
Dopo aver visto e adorato The Last Dance di sicuro non posso perdermi questa ;)
RispondiEliminaNo, direi di no!
EliminaTanto lì funziona come documentario, tanto qui come ricostruzione.
Speravo in una seconda stagione perché si capisce quanto ancora c'è da raccontare. Ammetto che avrei voluto più gioco, e che il ritmo a tratti mi sfiancava, ma fatti i dovuti allenamenti, che risultato!
RispondiEliminaAvevo cominciato a vedere i primi episodi e mi stava piacendo decisamente, poi i sub ita si erano interrotti e così avevo lasciato questa serie in panchina.
RispondiEliminaAdesso è ora che ritorni titolare. :)