25 febbraio 2025

Documentari da Oscar

Quando gli Oscar chiamano, sono sempre pronta a rispondere e a cercare in ogni meandro dell'internet anche i titoli più difficili da scovare.
Si chiama preparazione, altri userebbero il termine ossessione.
Sarà, ma di solito è proprio nelle categorie minori che trovo le visioni più interessanti e le scoperte più soddisfacenti.
Degli esempi ci sono anche fra i documentari:

MIGLIOR DOCUMENTARIO

No Other Land

In un conflitto che non sembra avere fine e che si è inasprito negli ultimi mesi fino a una tregua molto, molto fragile, ci si dimentica di chi sono le persone in gioco, di cosa sono quei territori contesi.
Sono case, sono quotidianità.
Lo spiega e lo mostra questo documentario che nasce dalla collaborazione fra un giornalista israeliano e uno palestinese, Basel Adra e Yuval Abraham, impegnati a raccontare ma anche a proteggere la vita a Masafer Yatta, territorio antico, da sempre conteso e lentamente spazzato via dalle truppe israeliane che lo rivendicano per le loro esercitazioni e per costruirci i loro insediamenti.


Seguiamo una lotta che è anche una storia di famiglia, siamo alla seconda generazione di proteste pacifiche e attive, e la terza chissà come resisterà.
Un racconto vivo e doloroso, che porta dentro le azioni di sgombero e la guerriglia senza difese, dentro una comunità che si aiuta e che si interroga sul suo futuro. Cercando il dialogo anche se con difficoltà con chi appartiene al popolo che li perseguita.
Importante e doloroso, il documentario si interrompe lì dove tutto è precipitato, con i giornalisti grati per la nomination ma sbigottiti dal silenzio che lascia la loro terra ancora senza difese.
Un documento reale e quasi in tempo reale, che non sembra usare filtri.
Il mio favorito.


Sugarcane

Una pulizia etnica, coprire e nascondere le prove, di soprusi e omicidi e violenze.
Per anni, per generazioni.
Siamo in Canada, siamo nelle comunità di nativi che chiedono risposte e chiedono condanne.
Chiedono, soprattutto, di essere ascoltati.
Parte dalla sua famiglia e allarga il cerchio a una comunità intera Julian Brave NoiseCat, che mostra il lento ma inesorabile risveglio tra chi è stato mandato forzatamente in scuole cattoliche subendo le peggiori atrocità.
Tra chi cerca tombe e chi cerca elenchi, si prova a trovare le risposte di chi è stato separato dalla famiglia, è stato educato in scuole che volevano cancellare una cultura, per uscirne vittima.


Violenze e stupri, figli disconosciuti, abbandonati o che rendono inaccettabile il ritorno a casa, a segnare con dolore una comunità intera, una vita intera, dove bere per dimenticare, scappare per non dover pensare.
La storia di Julian e della co-regista Emily Kassie si divide in tre: un padre e un figlio in viaggio in cerca di dialogo e risposte, un viaggio verso Roma, in udienza dal papa per delle scuse e delle ammissioni di colpa, e chi minuziosamente cerca sottoterra e tra incartamenti i nomi di chi è scomparso senza lasciare traccia.
Di risposte il documentario ne dà, e dà lacrime e dolore, trovando la bellezza in volti segnati, in rughe marcate e in una natura che nasconde il sangue versato.
Si cede spesso al lirismo e a un poetico non necessario, ma la forza delle parole e del trovarsi attraverso le ferite comuni, con l'immancabile stoccata politica, rendono il documentario una denuncia forte che sembra solo il primo passo.


Soundtrack to a Coup d'Etat

È una colonna sonora jazz quella che accompagna la ricostruzione di colpi di stati e interferenze americane nell'Africa degli anni '60.
Una colonna sonora che mette Louis Armstrong in prima linea, che lo manda pure in Congo, dove l'indipendenza viene chiesta a gran voce e il re del Belgio è pronto a darla solo dietro compenso.
Quello di Johan Grimonprez è un documentario che richiede molta attenzione e un minimo di preparazione storica o ci si perde. Mi sono persa spesso, io che il jazz mal lo digerisco per traumi infantili -capace com'è di darmi al tempo stesso sonnolenza e mal di testa- e di una storia che da occidentali quali siamo, mica è arrivata nelle nostre scuole.


Ma passata una certa soglia di difficoltà, ci si lascia andare a questo racconto prezioso, che mette in mostra le sue fonti, che scava negli archivi, che fa parlare la musica, le immagini, le interviste e le intercettazioni.
Una lavoro certosino e sicuramente impegnativo, che mostra i giochi della CIA e dell'America, i complotti e gli attentati, le guerre fatte da mercenari e le armi date ai civili in un quello che sembra un gioco di cui manovrare le regole e che in realtà è la politica vera, dove il sangue scorre e le vite si perdono.
Tra un assolo di batteria incalzante e un urlo doloroso, i jazzisti americani si sono messi in prima linea arrivando a protestare alle Nazioni Unite e a chiedere risposte.
Le trovano qui con anni di ritardo, in un documentario che travolge e incalza per - minuti, troppi per avere la piena attenzione, abbastanza per imporsi e chiedere di approfondire.


Black Box Diaries

Prima del #MeToo c'è stata Shiori Itō.
Giornalista giapponese che ha trovato la forza e il coraggio di denunciare pubblicamente Noriyuki Yamaguchi, capo della Tokyo Broadcasting System e stretto amico del primo ministro Shinzo Abe, e di portare avanti la sua battaglia a livello legale.
Una scelta non facile in una società che nasconde queste macchie, non facile perché le intimidazioni, i depistaggi e le corruzioni nelle indagini non sono certo mancate.
Ma forte del suo ruolo di giornalista, Shiori Itō non ha voluto fermare la sua lotta e per farlo ha documentato la sua vita, gli incontri con i suoi legali, con gli amici e le conferenze pubbliche in un diario visivo che potesse darle la forza di andare avanti e mettere la giusta distanza.


Intimo e spesso quasi invasivo, questo documentario è diventato anche un saggio best seller, prima che le sentenze venissero pronunciate, prima che in un attentato il primo ministro venisse ucciso, con in mezzo l'esplosione proprio del movimento #MeToo a dare forza alla voce di Shiori Itō.
Come tutti i diari, pecca di un filo di costruzione, di abbellimento e di tagli per proteggersi, compreso il tentativo di suicidio volutamente inserito di sfuggita, per focalizzarsi sul suo rialzarsi.
Non il tipo di documentario che mi affascina, ma comunque capace di mostrare uno sguardo non occidentale a una presa di coscienza collettiva.


Porcelain War

Cinicamente viene da dire: non poteva mancare un documentario sulla guerra in Ucraina.
A questo giro, un titolo non solo debole ma anche difficile da incasellare per come esalta la resistenza ucraina, i suoi soldati e i suoi artisti.
Come la porcellana che Slava Leontyev e Brendan Bellomo modellano e dipingono, così i cittadini e i soldati che combattono al fronte: apparentemente fragili, in realtà indistruttibili.


Il problema non sta in un messaggio giusto e propagandistico, quanto in un'estetizzazione della guerra in sé, di armi abbellite da matite e colori, di attacchi spettacolari e di azioni di difesa quasi coreografati.
Si parla pur sempre di vite, anche se nemiche.
Si mostrano morti, anche se in divisa.
È un contrasto difficile da digerire in mezzo alle scene bucoliche di una vita in campagna e di una natura che continua il suo corso.
In un racconto personale di amore e resistenza, di ricerca di bellezza in anni dove sembra sparita e che si trova anche in città devastate, le ferite sembrano troppo fresche e la guerra ancora in corso per avere la giusta distanza per accettarle.
In mezzo a troppi dubbi sul risultato finale, molto superficialmente mi segno una tecnica di decorazione su porcellana che da ceramista in erba vorrei avere un briciolo del talento di Slava Leontyev.


MIGLIOR CORTOMETRAGGIO DOCUMENTARIO


I am Ready, Warden

La troupe di Smriti Mundhra segue gli ultimi giorni di John Henry Ramirez e ne ricostruisce il caso.
Giovane sbandato che finisce per uccidere un padre indifeso, qualche anno di fuga e infine la condanna a morte che non sembra più rinviabile.
In carcere, però, John Henry Ramirez ha trovato la fede, è cambiato e ha abbracciato le sue colpe, i suoi errori ed è pronto a morire.


Restano i figli, quello di una vittima che credeva di poter essere libero, finalmente, a condanna eseguita, e quello di John Henry stesso, cresciuto con il padre in carcere e pronto per quanto possibile a dirgli addio.
In una riflessione non scontata e dolorosamente lucida su un sistema giudiziario che permette la pena di morte, il documentario prodotto da MTV fa male e fa riflettere.
Lucidi sono tutti i coinvolti, John Henry, la sua madrina, quei figli chiamati a colmare una perdita.
Il mio favorito nel suo documentare senza fare domande, nel suo essere testimone scomodo ma sincero.


Incident

L'ennesimo "incidente" in cui agenti di polizia finiscono per uccidere un innocente uomo nero per le strade d'America.
L'ennesimo caso che porta a tumulti e proteste, l'ennesimo morto che non ha più voce per difendersi mentre la polizia si fa scudo e si difende.
A parlare, qui, sono le immagini.


Quelle delle bodycam del poliziotti coinvolti e chiamati sulla scena del crimine, e quelle di sorveglianza che  Bill Morrison ha scandagliato per poi ricostruire e mostrare l'incidente in questione.
In tutta la sua insensatezza, in tutto il suo essere evitabile.
Lo schermo diviso in più parti, in una narrazione a più voci senza nessun altro intervento esterno, in cui la realtà si discosta dalle sentenze in tribunale.
Fa esplodere rabbia, fa aprire gli occhi, senza bisogno di commenti o interventi.


Instrument of a Beating Heart

Le scuole giapponesi con i loro canoni di disciplina sono sempre ai vertici delle classifiche mondiali.
Ema Ryan Yamazaki ci porta dentro i mesi di preparazione di piccoli alunni scelti per suonare l'inno che accoglierà i nuovi alunni.
Dai tesi provini alle dure prove, ne emerge una scuola che chiede molto e alunni che chiedono molto a se stessi, ma anche professori capaci di ascoltare e una soddisfazione finale capace di essere insegnamento.


Ci si affeziona in fretta a chi piange e a chi si tormenta, si resta anche un filo allibiti di fronte a metodi di insegnamento rigidi verso studenti così piccoli, con le lacrime che arrivano improvvise nel concerto finale in cui tutto fila per il verso giusto.
Piccola testimonianza e piccola apertura verso una cultura dviersa e lontana.


The Only Girl in the Orchestra

Orin O'Brien è stata la prima donna a far parte della New York Philarmonic.
Orin, diretta da Leonard Bernstein, è ora pronta alla pensione e a cambiare appartamento, due decisioni non proprio facili per chi ha avuto una vita piena e soddisfacente, che ha sempre cercato di stare lontano dai riflettori nonostante quelli che il suo genere e la sua unicità l'hanno portata suo malgrado.


La segue e la intervista la nipote Molly O'Brien, unica parente ancora in vita di una famiglia molto artistica, che sentiva l'esigenza e l'urgenza di raccontare la vita di chi ha sempre preferito stare in disparte, stare nel gruppo, dare supporto alle melodie principali.
Trovandone una gioia e una filosofia applicabile a tutta la vita, ora che in pensione si dedica all'insegnamento.
O anche di insegnamenti di vita e una vita da invidiare.


Death By Numbers

Le teorie del complotto hanno circondato e segnato in modo ancora più crudele la vita dei sopravvissuti alla sparatoria di Parkland.
Accusati di essere troppo belli e troppo bravi nel gestire la rabbia e le proteste, di essere attori e di avere moventi politici in una sparatoria mai avvenuta.
Purtroppo, il documentario di Kim A. Snyder non spegnerà queste inutile polemiche e questi giudizi molto ignoranti, perché più che da regista scafata, sembra il compitino pieno di lirismo e di metafore banali proprie di un liceale chiamato a elaborare un lutto e una tragedia.


Si adegua anche troppo al punto di vista della sopravvissuta Sam Fuentes nell'affrontare il processo contro Nikolas Jacob Cruz, nella sua testimonianza e nel suo confronto finale con l'assassino dei suoi amici e compagni di scuola.
Nel cercare di tracciare le origini del male che passano per il nazismo e il KKK, diventando soggetti di un j'accuse che gioca con la matematica, si fatica purtroppo a provare empatia.
Sembra un tema per immagini da liceo di chi si crede un po' troppo poetico.
Tutto è filtrato e costruito a favore di racconto, nascondendo il volto di un colpevole che provoca così più curiosità nello spettatore ignaro, andando contro i propositi del documentario in sé.

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