29 gennaio 2022

Drive My Car

Andiamo al Cinema

Una Saab 900 rossa.
Una musicassetta.
Una voce, che legge solo parte delle battute di un copione, lasciando vuoti da riempire.
Uno specchio, con cui scoprire senza essere visti, la verità.
Una sigaretta, da condividere.
E infine un palco, dove impostare la tragedia, ma soprattutto accettare certe ferite.


Drive my car è un film fatto di oggetti.
Di mementi che ricordano chi non c'è più, un lutto difficile da superare.
Un fantasma che rivive, ancora e ancora, a cui ci si aggrappa in quell'auto che ha portato troppo lontani, in quella voce registrata, in quei vuoti, come un pegno d'amore, come un ultimo dialogo impossibile.
Che ha il suo copione, però, ha le sue pause, i suoi silenzi stabiliti.
Da riempire.


Un amore fatto di storie, che nascono nel momento dell'amplesso e che vengono dimenticate.
Che vengono registrare e ripetute, che vengono poi trasformate sul palco o in TV.
Un amore intellettuale, quello tra un attore e regista teatrale e una sceneggiatrice televisiva, che ha però delle crepe, in quei silenzi, in quei tradimenti, in quelle piccole bugie che non si affrontano.
Nei lati nascosti di una persona che si paura di conoscere.
Finché è troppo tardi.


Finché a fare da rifugio, è una città che la morte la conosce bene -Hiroshima- con un auto che è ormai parte di sé che a fatica si affida a qualcun altro.
A qualcun'altra, in realtà..
Un'autista provetta, silenziosa e diligente, che nell'accompagnare un regista in lutto, entra poco a poco nel suo campo visivo.
Assieme a una sigaretta, ai luoghi del cuore, vengono condivise confessioni impossibili da affrontare: sensi di colpa, segreti e decisioni prese e rimpiante.
Verso chi non c'è più, verso chi si è.
Si cerca il perdono, si cerca di andare avanti, si cerca di conoscere quel passato assieme a chi l'ha condiviso, o potrebbe averlo fatto, diventando nel mentre una figlia surrogata.
E a perdonare, sono le parole su quel palco, che ancora una volta non vengono pronunciate, ma rese gesto in un finale ancora più emozionante.


Se nella notte degli Oscar a Sorrentino sarà preferita la lunghezza fiume di Drive my car, non ne avrò a male.
La riflessione sul lutto, sull'amore, sull'arte e pure sulla paternità, sono quasi le stesse.
Ma invece di un racconto nostalgico di una giovinezza e di una Napoli che non c'è più, qui si viene avvolti dal rimpianto, dalla condivisione, come sa avvolgere un lungo viaggio in auto.
In un'intimità che si conquista pian piano, in un passato che solo lentamente viene rivelato, e con elementi esterni che turbano in parte quello che sta nascendo.


Il film di Ryūsuke Hamaguchi scava su più piani l'emotività dei suoi protagonisti, il loro senso di sopravvivenza, la stanchezza e il dolore che si portano dentro.
Lo fa facendoli lavorare in prima persona con altri attori, in lingue diverse, in un copione diverso.
Lo fa con i silenzi condivisi.
Lo fa avvalendosi di Zio Vanja e delle parole di Čechov che si incastrano nella sceneggiatura ad arricchirla, a farne un film a più livelli.


La malinconia è la sensazione che resta, dopo l'esplosione di vita erotica della prima parte, quella che precede i titoli di testa che arrivano proprio quando la vita finisce, a 41 minuti dall'inizio.
Una malinconia che si ritrova in una colonna sonora di temi musicali presto riconoscibili, in cui resta fuori il titolo beatlesiano di quel fan di Murakami.
Drive my car è un invito, una preghiera, un gesto di aiuto come di fiducia.
Guidala tu quest'auto rossa, guidala fuori dal dolore, verso la vita.

Voto: ☕☕☕☕½/5

2 commenti:

  1. Agli Oscar farò comunque il tifo per Sorrentino, però questo film, che molto probabilmente vincerà, di sicuro non ruberà niente.
    Per festeggiare, chissà se il regista si fumerà una siga sul palco? :)

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    Risposte
    1. Chissà se arriverà a Los Angeles a bordo della Saab 😉 film davvero splendido, si meritava un posto nella classifica di fine anno se solo fossi riuscita a trovarlo prima...

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