22 novembre 2024

Berlinguer - La grande ambizione

Andiamo al Cinema

Lì dove la scuola manca, ci pensa il cinema.
Se ancora oggi a fine liceo, se l'insegnante è bravo, se gli studenti stanno attenti, al massimo si arriva alla fine della II Guerra Mondiale, restano comunque 80 anni di storia a non essere toccati.
Ci pensa il cinema, appunto, a fare da insegnante, a colmare lacune e raccontare pagine di storia e a far conoscere personaggi chiave.
Il cinema italiano lo fa spesso, ma il più delle volte con una coltre di pesantezza che non invita il pubblico ad avvicinarsi: le solite facce, i soliti registi, la sensazione di avere a che fare con una fiction promossa e non con il cinema vero.
Berlinguer, a sorpresa, è un'eccezione.

Come forse lo era Enrico Berlinguer stesso, comunista in anni in cui era pericoloso esserlo visto come il mondo era diviso, ma apprezzato da TUTTI. 
Come ricorda anche Francesco Piccolo.
Una figura chiave, mai ai margini, in un centro tattico ma soprattutto apprezzato difficile da interpretare oggi.
Il film di Andrea Segre non ha l'ambizione di raccontarci in un classico film biografico la vita e le scelte di questo politico, ma si focalizza su cinque anni appena, cruciali per come ci si schiera a livello mondiale, per come ci si muove all'interno della politica italiana aumentando e concretizzando i consensi fino ad arrivare a quella pagina che il cinema ha spesso raccontato, la pagina che ha cambiato tutto e che corrisponde alla voce "Rapimento Moro".
In mezzo ci sono accordi, elezioni e attentati.
Ci sono attese e prese di posizione, c'è la politica in atto fatta di rispetto e di piazze, di comunicati e discorsi.



Mi piacerebbe dire che il film di Segre riesce a essere diverso dai soliti film italiani storici, quelli impostati, classici, pesanti e didascalici nel farsi insegnante, ma così non è.
Il budget è notevole, e si vede nella cura della ricostruzione di interni ed esterni, in arredamenti e costumi, in trucchi che camuffano un cast affollato di volti noti (Paolo Pierobon, Paolo Calabresi, Giorgio Tirabassi, Andrea Pennacchi) contestualizzati da una semplice scritta.
A Roma come a Sofia -dove il film inizia- l'attenzione è alta e la regia di Andrea Segre sembra matura e decisamente più adulta. 
Pur riconoscendo la bravura di Elio Germano a non farsi copia carbone, lui che militante lo è da sempre, la sceneggiatura pecca in dialoghi impostati, in scene di famiglia gran poco naturali dove figli chiedono chiarimenti a favore di spettatore, dove anche i momenti più intimi sono sottolineati in modo poco genuino. E il finale, tronco, che relega alle scritte in sovraimpressione il resto della storia personale e italiana non aiuta a far sentire compiuto il film.
Come se ci si fosse soffermati troppo ma allo stesso tempo non si fosse riusciti ad approfondire a dovere. In una mancanza di ritmo, di coesione fra scene, che lascia più freddi del necessario.
L'anima documentarista di Segre ha la meglio, pescando nel repertorio, riesce comunque a commuovere in un funerale partecipato in cui c'erano davvero TUTTI.
Anche oggi, in lacrime.


Ma per una volta, c'è altro oltre il cinema in sé.
C'è un pubblico appassionato, giovane soprattutto, che il film lo insegue, lo cerca e lo vede, c'è una sete di sapere e di riscontro che da un film così, su un personaggio che riesce a non essere controverso neanche a 40 anni dalla morte, fa stare bene.
C'è un certo magone, naturale, nel mettere a confronto la scena politica attuale con quella degli anni '70, c'è un impegno che manca, una serietà assente e una figura con integrità che nemmeno si scorge all'orizzonte.
Quante cose possono cambiare, in 50 anni?
Troppe, viene da rispondere.
Ma a volte, il cambiamento felice passa anche attraverso film importanti oltre la qualità soggettiva e riesce a raggiungere un pubblico che non si pensava fosse così pronto.
Lì dove la scuola manca, ci pensa il cinema.

Voto: ☕☕/5

1 commento:

  1. Purtroppo ne so talmente poco da non essere invogliato ad andare al cinema. Quando arriverà in home video, però, volentieri!

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