Non avevo mai sentito parlare de L'Amante di Wittgenstein.
A dir la verità, non avevo nemmeno mai sentito parlare di David Markson.
Poco, ma solo poco, di Wittgenstein.
La colpa è mia solo in parte.
Che L'Amante di Wittgenstein è l'unico romanzo tradotto in italiano di David Markson.
E che filosofia l'ho studiata solo al liceo, senza arrivare ad anni così recenti.
Se ne ho sentito parlare, è stato grazie a David Foster Wallace.
Forse dovrei dire se ne ho letto, che David Foster Wallace purtroppo non si può più sentire, non dal vivo, almeno, ma continuo a ritrovarlo ogni anno sul mio comodino.
Nel senso, trovo un suo libro, sul mio comodino, mica se ne sta lì appollaiato come un fantasma.
L'anno scorso era toccato alla raccolta di saggi Di Carne e di Nulla, dove spiccava Cinque romanzi americani spaventosamente sottovalutati > 1960 e, subito dopo La pienezza vuota., dedicato, appunto all'amante di Wittgenstein.
Per come ne parlava ho deciso di fermarmi.
Di aspettare.
Volevo dire, per come ne scriveva.
Ho deciso di cercare quel romanzo che tradotto in italiano conteneva proprio quel saggio a lui dedicato, quella Pienezza vuota.
E leggermelo per bene.
Il suo tempo è arrivato, ora.
E non è stata una passeggiata
Nel senso metaforico.
Nel senso che è stata un po' una fatica la lettura, che ci vuole un po' a capire i discorsi di Kate, o si chiama Elena, la protagonista?
Capire pure la sua condizione, di artista viaggiatrice, di solitaria donna che nella sua casa -che sua non è- sulla spiaggia, ha deciso di mettersi a scrivere.
Lo fa in modo disordinato, e soprattutto con un linguaggio che inganna se stesso prima di noi lettori.
Pieno di correzioni e di puntualizzazioni, di ripetizioni e di citazioni, di bugie velate, bugie che restano tali, con la verità che si fatica a capire.
Un po' come ho cercato di riportare nel paragrafo qui sopra.
Kate è davvero l'ultimo essere umano rimasto sulla Terra?
Ha davvero viaggiato tra il Messico e Savona (sì, Savona), passando per la Russia e la vecchia Sparta, alla ricerca di qualcuno?
Difficile dirlo.
Difficile capire se il tutto non sia solo una grande metafora, bellissima e potentissima, sulla solitudine, o se siano gli sproloqui di chi già si definisce pazza, anche se guarita dalla pazzia.
I riferimenti colti non mancano, mentre Kate ci racconta di figli passati, di gatti avvistati, di incidenti in auto e mestruazioni in corso, parla d'arte, di poesia, di libri e di filosofia. Cerca e trova connessioni, si mette in mostra con il suo sapere a proposito di Bach, di Beethoven, dell'Iliade e dell'Odissea, confondendosi e correggendosi, sbagliandosi continuamente o forse no.
Creando così un vortice di parole in cui sì, è difficile entrare (e anche uscire, nessun paragrafo, nessuno stacco è consentito), ma una volta dentro diventa ipnotizzante.
La spiegazione, sta tutta in quel titolo criptico.
In quel Wittgenstein, filosofo moderno, e le sue teorie sul linguaggio.
Come mi spiega David Foster Wallace illuminando la parte razionale e teorica del romanzo, Kate vive in quel mondo ipotizzato proprio dal filosofo autriaco, quel mondo che è tutto ciò che accade, e il romanzo di Markson diventa così un esempio di come certe teorie filosofiche pur affascinanti, mica sono possibili, applicabili alla vita reale.
Wallace si fa più precisino e meno irriverente del solito nella disanima del romanzo, non stando dalla parte della spiegazione finale per lui troppo femminile (e sul femminile sarebbe da aprire un capitolo a parte, visto come si discute su Omero incapace di comprendere Penelope, ma allora com'è che Markson può capire Kate?).
Io preferisco restare terra terra, non cercare verità altre, non cercare di farne un trattato filosofico, ma guardare -come sempre- al lato umano, al cuore, del racconto.
A una vita difficile, in cui ci si sente soli se il mondo è popolato o se si è rimasti l'ultima persona al mondo, che vive su una spiaggia.
"Sarebbe a dire che si può essere soli che il telefono funzioni ancora o no"
In questo senso, il trauma che solo poco a poco Kate ci fa intuire, diventa potentissimo, in un finale in cui Wallace ha ragione: trattenere le lacrime è difficile.
E mentre questa lettera, questa missiva, questo enorme segnale scritto a macchina arriva alla sua fine, ci si rende conto di essere davanti a un'opera grande, che la si sia compresa dal punto di vista filosofico o meno.
Per rubare le parole a DFW:
"Quando riescono bene, i romanzi hanno la funzione vitale e sempre più rara di ricordarci le illimitate possibilità che ha la letteratura di ampliare la propria portata e far presa, di battere le teste come fossero cuori, e di celebrare matrimoni fra le cerebralità e l'emozione"
no
RispondiEliminahai citato filosofia e io passo, mai digerita e non amo i libri metaforici che ti spingono a riflettere