7 settembre 2024

Venezia 81 - I Film Italiani #2

Diva Futura

La formula Groenlandia è ormai collaudata e sta diventando un genere a sé nel cinema italiano. Prendere un personaggio folle della storia italiana, raccontarci anche una parte di storia italiana e farlo in modo finalmente pop e giovanile 
Sotto la lente d'ingrandimento di Giulia Louise Steirgerwalt finisce Riccardo Schicchi, il rivoluzionario del sesso, l'inventore delle porno star, colui che le ha portate in prima serata, se non in Parlamento.


Lo interpreta un Pietro Castellitto decisamente a suo agio nei panni del guascone intelligente, sempre impegnato a seguire una nuova idea, un nuovo investimento, circondato dal sesso ma non ossessionato dal sesso. A raccontarcelo, però, è l'occhio timido della sua segretaria che tutto pensava tranne di dover gestire gatti, pitoni, conigli e mandati di perquisizione. 
Come da copione, la storia viaggia leggera tra battute e situazioni assurde, mostrandoci i lati privati di Moana, Eva e Ilona e mettendoci quello zucchero che Supersex non aveva, impegnata nel lato torbido del porno. Il film viaggia anche troppo avanti e indietro nel tempo, senza una bussola in funzione, ma resta una rilettura pop e femminile che farà furore su Netflix, su un sesso e una visione del sesso che chissà dove si è persa.

Iddu

Se il cinema giovane riesce ad andare a Venezia, certo cinema italiano resta ancorato ai soliti temi: dopo la guerra, la mafia.
La cattura di Matteo Messina Denaro sarà sicuramente materiale di chissà quanti film e fiction a venire, Fabio Grassadoma e Antonio Piazza nel mentre raccontano uno dei tanti momenti in cui si pensava di essere a un passo dalla cattura grazie a un preside uscito di prigione e disposto a collaborare, stanandolo grazie alla cultura e alle lodi.


Purtroppo nemmeno le intepretazioni a puntino di Elio Germano e Toni Servillo fanno più notizia, in un copione stanco e poco originale che ruota attorno al potere e ai cliché di poliziotti arrabbiati e corrotti, con momenti comici che sono in realtà imbarazzanti.
Si salva l'eleganza di Barbara Bobulova, in uno spreco di talenti e risorse, per un film che nulla di nuovo aggiunge.

Il Tempo che ci vuole

Francesca Comencini si è presa il suo tempo. Se qualche anno fa tutti i grandi registi hanno raccontato la loro infanzia e il loro innamoramento con il cinema, lei figlia d'arte lo racconta ora, fuori concorso a Venezia.
Un racconto naturale e che va a scavare nei piccoli e grandi traumi della sua vita accanto al padre, Luigi.
Da bambina, spaventata dal pescecane di Pinocchio e poi sul set dello sceneggiato, fino al suo periodo complicato con le droghe. Il padre è sempre lì, ombra pesante e presente, che con i gesti, con le parole, cerca di guidarla, rasserenarla, farle capire la sua strada.


È un confronto continuo e chiaramente terapeutico in una storia personale che riesce in parte a essere universale. Sono confessioni e richieste di aiuto che si muovono fra Roma, Parigi e Napoli. 
Le inventive, gli omaggi, ci sono ovviamente. Ma il più lo fanno gli attori, il solito gigante Fabrizio Gifuni che recita anche con le mani, e la promettente Romana Maggiora Vergano. Sullo sfondo c'è l'Italia degli anni di piombo, ma si resta negli interni, in case piene di cultura che si cerca di trasmettere e con cui comunicare.
Una storia personale, certo, ma anche una storia di cinema che riesce nonostante una certa propensione al melenso, a commuovere.

L'Orto Americano

Pupi Avati torna nel racconto horror e il risultato rasenta il ridicolo.
Scelto chissà perché come film di chiusura di questa Mostra, relegando così il secondo capitolo di Horizon a due misere proiezioni in sale molto tristi, L'Orto Americano è un giallo dalle tinte fosche ambientato nel dopoguerra ferrarese e nel Midwest più anonimo tratto dal suo omonimo romanzo.


Uno scrittore con poteri sensitivi si ritrova in appena un secondo innamorato di un'infermiera americana e a indagare sulla sua scomparsa per aiutare una madre morente, una sorella invidiosa e soprattutto il suo cuore. Finirà per seguire il processo di un serial killer che le donne le fa a pezzi, in una discesa verso la miseria dell'Italia e degli italiani che sopravvivono come possono alle loro pulsioni.
La scena scult è servita sotto formaldeide e difficilmente la dimenticherò, e anche se Filippo Scotti crede nei tormenti di questo giovane scrittore, passando da un tono all'altro, da un racconto all'altro, spostandosi senza problemi dall'America alle rive del Po c'è così poca coesione e così tanto imbarazzo che poco si salva.
Nemmeno il bianco e nero molto posticcio a richiamare i drammi d'epoca.
Che chiusura, signori.

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