4 ottobre 2024

His Three Daughters

Andiamo al Cinema su Netflix

Katie è la maggiore, quella rigida, fredda, burocratica pure, così tanto da inimicarsi anche la figlia. 
Anche
Christina è quella di mezzo, quella che si è sempre arrangiata, che ha vissuto anni pazzi in gioventù e che ora, con una figlia e una famiglia sua, sembra il ritratto della moglie perfetta. 
Sembra.
Rachel è quella arrivata dopo, non c'è legame di sangue ma è rimasta in casa, è rimasta a prendersi cura di chi l'ha cresciuta e di chi le ha fatto da padre condividendo la passione per lo sport, per le scommesse, per la troppa leggerezza.
Troppa.
Sono tre sorelle, e sono diversissime fra loro.
Sono tre sorelle che non sono cresciute assieme, distanti per anni e per esperienze, per ricordi e per scelte.
E ora sono lì, in quell'appartamento che hanno condiviso di sfuggita, a salutare un padre a cui mancano pochi giorni per andarsene.
I giorni più difficili, di poca lucidità e di molto dolore, di infermieri che si alternano tra morfina e sostegno psicologico perché, ovviamente, tutto viene a galla.
Tutto.


È un contesto classico, ormai.
La riunione di famiglia, le famiglie infelici ognuna a modo suo, i confronti, i litigi, i ricordi e i tentativi di riavvicinarsi.
Ma proprio come le famiglie, anche i film e le sceneggiature sanno essere ognuna speciale a modo suo.
Quella di Azazel Jacobs lo è per come mostra la Morte.
Quel padre è relegato in una stanza in cui non entreremo mai, è un'assenza che pesa e che non si riesce a far emergere, dai ricordi spezzettati di sorelle che non sanno comunicare o da un elogio che sembra freddo e rigido come Katie che lo scrive e che recrimina, sempre, contro Rachel che sfugge, contro Rachel che non fa la spesa, contro Rachel che fuma in casa.
Rachel sfugge, da quella stanza e dal dolore, dal confronto, chiudendosi in camera, fumando fuori, reprimendo fin che può.
In mezzo, Christina, che cerca di fare da paciere, cerca la pace.


Azazel Jacobs scrive e dirige un film che sembra un'opera teatrale, un unico spazio, fatto di stanze tanto ingombranti di ricordi quanto vuote ora che quel padre lì non c'è, e fatto ovviamente di tante, tante parole.
Per sua fortuna, si affida a tre attrici spesso sottovalutate ma che con il personaggio giusto brillano di  intensità: Carrie Coon (che per me sarà sempre quella di Leftovers), Elizabeth Olsen (che nonostante la Marvel, elogio per il poco conosciuto Sorry for your Loss) e Natasha Lyonne (che sa essere altro, oltre OITNB). Ognuna a modo suo, ognuna tagliata perfettamente per il suo personaggio, tra pregi, difetti e una bellezza che esce tutta insieme in un finale che è bellissimo.
Che le mostra insieme, non rappacificate ma unite, non felici ma serene, lì mentre ascoltano le parole di un padre che immaginano e che si prende tutto lo spazio, portando un calore che in quel salotto mica c'era prima.


Più che sorelle, sono le sue tre figlie, come da titolo.
E il film, dal timbro europeo seppur newyorchese, e quindi per assurdo ancor più europeo, ce le mostra, ce le racconta, attraverso le parole, i litigi, gli occhi al cielo e i modi per uscirne.
Telefonate di sfogo, sigarette di sfogo, yoga di sfogo, a dimostrazione che non solo le parole costruiscono un personaggio.
Il lutto, raccontato mentre si forma, mentre ci si prepara, resta una costante del cinema e se il cinema fatica a raccontare la Morte come realistica, qui ci si avvicina.
In modo dolorosamente vero.
È il suo intento.
Prezioso.

Voto: ☕☕½/5

1 commento:

  1. L'ho trovato bello, ma non bellissimo. Mi aspettavo qualcosa di più incisivo. Loro bravissime però.

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