Iniziamo l'anno con un po' di sano patriottismo seriale, soprattutto se le serie TV italiane di cui si parla, sono così pregiate:
Dostoevskij
Li si ama e li odia, dividono il pubblico, scatenano polemiche e reazioni.
Ora i fratelli D'Innocenzo sbarcano sul piccolo schermo e lo fanno con una storia più cupa di quelle a cui già ci hanno abituato.
Un romanzo, a puntate, che con lo scrittore russo poco ha a che fare.
È una serie crime, con indagini, luoghi oscuri in cui si impantana il genere umano.
A prima vista, si potrebbe dire niente di nuovo: un serial killer da catturare -che gioca con gli ispettori lasciando lettere lunghe come un racconto, a raccontare gli ultimi istanti di vita della sua vittima- e un ispettore tormentato e solitario, che non si fida degli altri e che con Dostoevskij (questo il nome dato all'assassino letterario, con le sue lettere a fare da legame fra le vittime) instaura un rapporto di ammirazione e di sfida, sentendosi più vicino di quanto è sanamente possibile.
C'è un passato, ovviamente, a tormentarlo, c'è una figlia con cui ha chiuso i rapporti e che deve salvare dal giro di droga e prostituzione in cui è entrata.
A fare la differenza, come sempre, il resto.
I luoghi, prima di tutto.
Case sporche, diroccate, abbandonate, dove non c'è calore né famiglia, c'è solo disagio, bruttezza e freddezza fra mura via via più sgangherate in una periferia in cui sarebbe meglio non mettere piede.
In questo brutto mondo in cui ci portano i D'Innocenzo, le indagini si fanno personali, trovare il colpevole ha senso solo se Enzo Vitello confessa a se stesso e agli altri le sue colpe, in un gioco che solo lui può chiudere o continuare.
Sporco, malfamato, brutto, questo Dostoevskij è un lungo film non facile da sostenere, per quello che si vede e per quello che racconta.
Un prodotto televisivo ma anche un prodotto italiano diverso dal solito, che ricorda inevitabilmente True Detective e l'infida Louisiana, ma che è sostenuto dalle prove giganti di Filippo Timi e Carlotta Gamba che quando in scena insieme diventano insostenibili.
Li senti, i fratelli, spalleggiarsi alla ricerca del punto di vista migliore, del modo migliore in cui girare una scena, una sparatoria, un inseguimento o l'ingresso in una stanza.
Li vedi nella scelta delle location, delle musiche, degli attori, nella grana spessa della pellicola, l'unica a dare calore in una serie gelida nei colori e nelle temperature.
Consapevoli di saperci fare, e di poter osare.
Che è forse quello che si ama e si odia di loro.
Non è un titolo facile da consigliare né da vedere, una discesa negli inferi poco adatta al clima natalizio, molto più a quello gelido del dopo le feste. In cui perdersi e ritrovarsi in un'Italia diversa, per assurdo più vera, capace di fare un titolo di genere e di farlo per bene.
Qui non è Hollywood
La seria sull'omicidio di Avetrana, ambientata ad Avetrana, che però Avetrana non ha potuto inserirla nel titolo.
Una polemica a effetto boomerang, che mi ha reso curiosa, io che avevo deciso di tenermi alla larga da serie crime arrivate troppo presto sui fatti che raccontano.
Il marchio Groenlandia mi ha convinto a dare una possibilità al racconto di una pagina torbida dell'Italia moderna, che per fortuna all'epoca dei fatti avevo seguito poco.
Cosa difficile viste le ore spese da giornalisti e aspiranti tali nel comune salentino.
Quattro episodi, quattro punti di vista
Quello della vittima e quello dei colpevoli.
Quello di Sarah, giovane dalle belle speranze in una città in cui troppo si sparla, e quello della famiglia Misseri tutta, che si accusa e si difende, che si vende e che si mette in piazza, che invoca la sua innocenza e punta il dito in un castello di carte e di bugie in cui la verità chissà se si capirà mai.
Qui la ricostruzione è basata sulle carte processuali e sui tanti, troppi momenti televisivi del caso.
L'effetto Hollywood, la spettacolarizzazione del tutto, per assurdo riesce ad essere evitata.
La miniserie ha una sua dignità pur essendo allo stesso tempo un prodotto che forse non s'aveva da fare, comunque.
Questioni etiche, morali, personali.
Ognuno scelga la sua parte in questo mondo che il il torbido lo mette spesso e presto in vendita.
Più che al rigore di Pippo Mezzapesa, gli applausi vanno a un cast di trasformisti come Giulia Perulli e Vanessa Scalera, capaci di entrare in panni scomodi e ormai resi macchiette, di mettere luce nelle ombre di personaggi facili da etichettare.
Avetrana non ne esce bene e chissà se riuscirà mai a voltare pagina pur rifiutando a Disney il suo nome.
E pur staccando il dolore reale dalla finzione, pur trovando i pregi nei difetti di un progetto pericoloso, la spettatrice appassionata di crime che ero, spera si smetta presto di lucrare e di tormentare su casi troppo freschi, troppo facili su cui non è facile sospendere il giudizio soggettivo da quello oggettivo.
The Bad Guy - Stagione 2
Dove eravamo rimasti?
Sono passati due anni e la memoria è quello che è.
Nino Scotellaro si era scoperto un ottimo mafioso nonostante gli anni passati a dare la caccia ai mafiosi.
La moglie ancora lo piange, ancora chiede vendetta
E il grande latitante Salvatore Tracina era finalmente stato scoperto.
Sparatorie, canzoni, parchi acquatici e probabili storie d'amori impossibili avevano lanciato The Bad Guy nel firmamento delle serie TV italiane riuscite.
Peccato che PrimeVideo abbia perso tempo, abbia tentennato nel rinnovare e due anni dopo eccoci qui, a brancolare in una memoria meno viva, a cercare di riunire i pezzi.
Si entra subito in azione, però, e se i pregi sono gli stessi della prima stagione (ottimi attori, con nuovi comprimari a rubare la scena come il lupo solitario Stefano Accorsi, ottima regia, che cerca lo spettacolo e lo ottiene) pure i difetti sono gli stessi. La ricerca dell'effetto meme, del momento da condividere nei social che sia con una canzone come sottofondo o che sia una battuta riuscita su carta meno se pronunciata fuori dalla realtà.
E poi, diciamolo, se la prima stagione aveva una storia interessante, un'infiltrazione rischiosa e una nuova vita da costruire, qui ruota tutto attorno a una cassetta, a doppigiochi e patti da mantenere e truffare, che lungo i 6 episodi di questa stagione chiedono troppo spesso la sospensione della realtà.
Basta così poco, per entrare in carte riservate?
Basta così poco, per tradire un amore?
Basta così poco per sopravvivere e morire e rinascere ancora?
Più che la qualità, innegabile, a questa seconda stagione manca una storia a reggere il mordente delle scene d'azione e della tensione di questa caccia alla cassetta, che perde spesso di peso, che gira spesso a vuoto, per lasciare a briglia sciolta dei personaggi a cui si vorrebbe volere più bene.
È passato troppo tempo, forse, e allo stesso tempo si sono volute fare le cose troppo in fretta per rimanere avvinti e coinvolti come ci si aspettava.
La terza stagione ci è dovuta, anche solo per chiudere il cerchio di quel prologo che a due anni di distanza ancora ricordo.
Arriverà più velocemente, queste volta, vero?
Voto: ☕☕☕/5
Per me, tre assoluti pezzi da novanta!
RispondiEliminaHo saltato la tua recensione di Dostoevskij perché l'ho iniziata da poco, e voglio vedere dove mi porta. Su Qui non è Hollywood mi trovi d'accordo, secondo me una delle serie tv italiane più convincenti dell'ultimo periodo
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